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CORRIERE DELLA SERA
5 giugno 2007
Cossiga e i fantasmi delle scalate rosse
«Da lì nasce il regolamento di conti nell'Unione»

Francesco Verderami

ROMA — Qualche giorno fa in Transatlantico, in attesa che iniziasse la seduta, il presidente della Camera sospirò: «Mi piacerebbe esser libero di dire ciò che penso». Poi venne inghiottito dai lavori dell'Aula. Il caso Visco era appena scoppiato. La terza carica dello Stato non poteva esporsi, non poteva spiegare pubblicamente ciò che aveva confidato ai suoi.

Bertinotti era rammaricato per «il modo pessimo» in cui palazzo Chigi stava gestendo la vicenda, perché «all'esterno si dà l'idea di voler nascondere qualcosa», e «l'immagine del governo ne esce a pezzi»: «No, non si può andare avanti così», aveva concluso sconsolato. Ecco cosa si celava dietro la frase con la quale ieri il presidente della Camera ha ipotizzato «pesanti ricadute politiche» per lo scontro tra il viceministro dell'Economia e l'ex comandante delle Fiamme Gialle, Speciale. Ma se è vero che la vicenda sta tracimando nel conflitto istituzionale, sta destabilizzando l'Unione e rischia addirittura di minare la tenuta dell'esecutivo, resta da capire il motivo di una battaglia che non ha precedenti.
Come un moderno Virgilio, Cossiga accompagna per i sentieri lastricati della vicenda. Non è facile decrittare le parole del presidente emerito della Repubblica, ma è chiaro quando avvisa che le ruggini tra Visco e Speciale vanno cercate molto indietro nel tempo: «Bisognerebbe chiederlo a Spaziante, che oggi è vicesegretario generale del Cesis, e che è stato il comandante della Guardia di Finanza in Lombardia, prima di tornare a Roma». Ad essere ancor più esplicito è il segretario del Pri: «La ruggine tra il viceministro e il generale delle Fiamme Gialle risale al 1998, quando ci fu la scalata a Telecom dei "capitani coraggiosi"». Altro non aggiunge Nucara, che però si lascia andare a una previsione: «Non credo che su un tema così delicato i senatori a vita, e tra questi Ciampi, voteranno dopo il dibattito a palazzo Madama».

Nucara un po' ci prende, perché Cossiga fa sapere che, «siccome sento arrivare un malessere, credo non andrò a votare al Senato: ma al momento debito chiederò che vengano rese pubbliche le intercettazioni telefoniche su Unipol che mi riguardano, perché io mi onoro di avere per amico il compagno Consorte». Telecom e Unipol. Sono questi gli indizi lasciati cadere, e ai quali Nucara aggiunge un ragionamento sull'offerta fatta dal governo Prodi a Speciale: «Gli avevano proposto di andare alla Corte dei conti, che ha un ruolo di magistratura giudicante su atti amministrativi. Ma se Speciale si è macchiato di colpe gravi, perché affidargli questo incarico? Forse perché sa troppe cose?».

Gli interrogativi resterebbero inevasi, insieme a un'altra domanda: per quale motivo Visco aveva chiesto il trasferimento da Milano dei quattro ufficiali delle Fiamme Gialle, questione che è all'origine della vicenda? Anche stavolta è Cossiga a fornire una risposta. Dapprima con fare scherzoso: «Perché i quattro avevano infierito su Mediaset e Fininvest nelle indagini, e Visco — che è uomo retto — voleva dire basta a questa persecuzione». Poi il tono di voce muta: «Avanti... È chiaro. È in corso un regolamento di conti nel centrosinistra che parte da lontano e arriva fino al caso Unipol. E chi lavorò per far affossare la scalata Unipol alla Bnl? La Margherita, con Rutelli e Parisi». È noto che Rutelli — da quando è scoppiato il putiferio — non ha aperto bocca, mentre lo stato maggiore dei Ds si aspettava un sostegno a difesa del suo viceministro. Ed è altrettanto noto che Parisi aveva rotto la linea di difesa del governo, anticipando che il caso sarebbe rimasto «aperto», e lasciando poi trapelare il suo «imbarazzo» per la gestione del caso.

«Ripeto, quando arriverà il momento io chiederò che le intercettazioni a mio carico siano rese pubbliche». Il fatto che Cossiga insista sulle intercettazioni impone che anche questo dato venga inserito nel rebus. D'altronde la vulgata di Palazzo fa risalire al caso Unipol i motivi di ruggine tra Visco e Speciale, «è ormai un segreto di Pulcinella», sostiene il democratico Bordon: «E come si dice in questi casi, voglio credere che Visco dimostrerà l'assoluta infondatezza delle voci. Di voci, poi, ne circolano tante: pare che da mesi il viceministro e Speciale non si rivolgessero più nemmeno la parola». Bordon ritiene che il governo non cadrà domani al Senato, e così la pensano anche nella Cdl. Ma Bordon — cosi come i leader del Polo — è altresì convinto che il caso non si chiuderà domani: «Se l'ex comandante della Gdf ha deciso di non rivolgersi al Tar, allora vuol dire che non è finita qui. Non vedo uno come Speciale che si ferma improvvisamente».

Ancora molte cose non tornano. Anche nel centrodestra. Da esperto conoscitore della vicenda, Virgilio-Cossiga solleva il velo su un altro interrogativo. Chi volle Speciale al comando delle Fiamme Gialle, ai tempi del governo Berlusconi? La risposta dell'ex capo dello Stato è: «Tremonti. Perché Speciale a Martino non piaceva, e viceversa. Fu l'allora ministro dell'Economia a imporlo, infatti il titolare della Difesa, quando arrivò il momento di nominare il capo di Stato maggiore dell'Esercito, non prese nemmeno in considerazione il curriculum di Speciale».

Ma contro Speciale «si muovevano nella Guardia di Finanza correnti a lui contrarie». Ad affermarlo è Rotondi, che da giorni esterna a difesa di Visco, e che sostiene di avere le prove di quanto dice: «Mesi fa mi venne chiesto di presentare un'interrogazione parlamentare contro Speciale». L'esponente diccì di centrodestra non fa nomi, si limita a dire che «erano uomini delle Fiamme Gialle di medio livello»: «Asserivano che doveva esserci una rotazione ai vertici della Gdf, rotazione che Tremonti aveva ritardato e che Visco continuava a rimandare. L'interrogazione che loro auspicavano doveva partire proprio dal caso dei mancati trasferimenti da Milano e concludersi con la richiesta di notizie su quando ci sarebbe stato l'avvicendamento al comando delle Fiamme Gialle. Ma siccome io non conoscevo bene questi signori e non conoscevo per nulla Speciale, non feci l'interrogazione».

Rotondi sostiene che «quel colloquio mi è tornato in mente quando è scoppiato il caso Visco»: «Dall'impegno con cui Tremonti ha difeso Speciale, desumo che ne abbia grande stima. Da come si sono comportati il viceministro e il generale, si capisce che i due non hanno detto tutto. Se ho preso le difese di Visco è perché non posso pensare che lui — avendo cattivi rapporti con Speciale — gli abbia poi chiesto di cambiare quei quattro a Milano. In quel caso, gli andrebbe dato il tapiro d'oro».




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LA STAMPA
5 giugno 2007
La grande paura
ANDREA ROMANO

Una strana paura serpeggia in questi giorni nella politica italiana. È l’attesa di qualcosa che nessuno conosce, ma che tutti temono con angoscia crescente. È la visione confusa e inquietante d’una crisi imminente.

Una crisi che potrebbe spazzare via ogni cosa e consegnare il Paese a un futuro di cupa incertezza.

Ognuno cerca di descriverla come meglio può, ricorrendo al proprio bagaglio di fantasmi. Per alcuni si avvicina il nuovo e definitivo trionfo dell’antipolitica, con una replica del diluvio universale del 1992. Per altri è il momento della resurrezione della P2, in veste più tecnologica ma al solito alleata di tutti i poteri forti disponibili sul mercato della dietrologia. Per altri ancora è l’ombra di qualche forestiero pronto a «scendere in campo» (Montezemolo, Draghi o chi altri?) per un’incursione di rapina nei territori della politica.

La nostra «grande paura del 2007» somiglia alle ondate di spavento collettivo che si diffondevano nelle società preindustriali alla vigilia dei sommovimenti rivoluzionari, nutrendosi di voci spontanee e amplificando il panico nelle masse popolari. Nel microcosmo nuovamente preindustriale della politica italiana tutti invitano a mantenere la calma e si affannano a mettere le mani avanti, ma tutti finiscono per agitarsi di più ogni giorno che passa. Nell’attesa del grande e spaventevole evento, nessuno capisce più molto di quello che potrebbe accadere nel caso di una ordinaria crisi politica. Di quelle che avvengono nelle normali democrazie parlamentari, anche se istituzionalmente fragili come la nostra, dove le coalizioni possono logorarsi ed essere sostituite da nuove alleanze dotate di maggiore slancio politico e carismatico. Qui non è permesso immaginare nulla di diverso da una grande catastrofe, perché la tentazione di ricorrere al linguaggio del crollo è troppo forte per la maggior parte dei protagonisti della politica.

Il centrodestra vi partecipa da par suo, al culmine del caso Visco-Speciale, annunciando con Giulio Tremonti niente di meno che «l’autunno della Repubblica» e diffondendosi con altri suoi esponenti nella descrizione della fine della democrazia e della morte delle istituzioni. È un consapevole ricorso alla strategia dell’allarmismo, con l’intenzione di mascherare la crisi politica e di leadership in corso da tempo nell’opposizione. Può darsi che si tratti di una scommessa vantaggiosa sul breve periodo, ma è difficile non riconoscervi il segno di un vizio comune ad alcuni degli avversari: il ritorno di quella stessa irresponsabilità che fece gridare al «regime» una parte del centrosinistra solo pochi mesi dopo la vittoria di Berlusconi. Perché le democrazie muoiono una volta sola e i regimi sono una cosa terribilmente seria. E il rischio è anche stavolta quello di privare il nostro linguaggio civile di idee e rappresentazioni di cui dobbiamo continuare ad avere ben chiari i contorni, inducendo nell’elettorato una pericolosa assuefazione all’allarme quotidiano.

Il nuovo spauracchio del centrosinistra sta invece assumendo un profilo più definito con il passare dei giorni. Nessuno ne conosce i dettagli, tutti ne parlano. Perché ognuno sa che si tratta della nuova infornata di intercettazioni sul caso Antonveneta-Unipol che il 12 giugno raggiungerà il Parlamento (e quindi l’opinione pubblica). Ci aspettano altri giorni di passione su brani di conversazione carpiti al telefono a questo o a quell’esponente dei Democratici di sinistra? Dobbiamo prepararci ancora una volta all’esegesi politico-dialettale di frasi come «abbiamo una banca»? Sinceramente non c’è da augurarselo. E non solo per il buon nome delle personalità che saranno eventualmente coinvolte. Non c’è da augurarselo perché l’intercettazione è davvero il fondo del barile della politica, capace con il suo peso di schiacciare ogni argomentazione che non sia la condanna preventiva o la difesa d’ufficio. Anche in questo caso è comprensibile che a destra ci si lecchi i baffi in attesa della nuova, grande occasione. Ma il centrosinistra avrebbe uno strumento formidabile per disinnescare questa mina, senza ricorrere all’antico riflesso della dietrologia o ai fantasmi della P2: coloro che ipotizzano di essere citati nelle intercettazioni che saranno trasmesse al Parlamento dicano già oggi di cosa si tratta, quali commenti e quali scenari furono fatti in conversazioni che dobbiamo immaginare in tutto e per tutto simili a quelle che ognuno di noi intrattiene privatamente ogni giorno.

«Alle ore 18 ci sarà il Giudizio Universale», era la voce che risuonava dall’alto in un film di Vittorio De Sica. C’era chi si pentiva, chi si dava alla pazza gioia, chi rimaneva indifferente. Alla fine poco o niente accadeva, se non un grande acquazzone. Potrebbe essere ancora questo il finale della nuova grande paura, se lo si volesse davvero.




INES TABUSSO