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CORRIERE DELLA SERA
13 febbraio 2007
«Facile seguire i giudici. Sono entrato nell’ufficio di Spataro»
«Con noi un simpatizzante di Rifondazione che ricarica proiettili e un ufficiale giudiziario utile per i movimenti dei magistrati»

Biagio Marsiglia e Giuseppe Guastella


Fu solo un caso, uno «sbaglio», ma le Br sono entrate nell’ufficio di Armando Spataro, procuratore aggiunto di Milano, capo del pool antiterrorismo. Lo rivela Bruno Ghirardi, uno dei Br arrestati, parlando il 28 dicembre 2006 con Claudio Latino in un bar della stazione Garibaldi. Mentre si compiace di aver arruolato un simpatizzante di Rifondazione («bravo a ricaricare i proiettili»), parla dei cattivi rapporti con «quelli» del centro sociale «Panetteria occupata ». Solo uno «mi sta simpatico», spiega Ghirardi, con gli altri «bisogna dare un taglio netto, pigliarne uno e farlo trovare morto ammazzato da qualche parte». Ma chi è l’unico «simpatico»? «È uno che è andato a fare l'ufficiale giudiziario». È un soggetto «utile— puntualizza Latino — da sfruttare come basista per ottenere informazioni sui movimenti dei giudici». Ghirardi gli dà ragione e racconta la sua visita al quarto piano del palazzo di giustizia milanese: «Basta recarsi in tribunale una mattina per verificare tanti movimenti dei giudici. L'ultima volta per sbaglio sono entrato nell'ufficio di Spataro».
Prove di tiro
I Br si esercitano con le armi. Lo fanno nella notte del 19 novembre vicino a un casolare in località Mardimago, provincia di Rovigo. Non sanno che la polizia li osserva come non si rendono conto che, una settimana dopo, gli investigatori li seguono a Milano in un ristornate cinese di via Padova. Lì, Latino e Bortolato dicono a Vincenzo Sisi (altro arrestato) di «aver provato gli strumenti che suonano bene». Quali? Un kalashnikov e una uzi, armi terribili e devastanti. «Cantano bene», anche se hanno avuto qualche problema.
I finanziamenti
L’organizzazione ha bisogno di soldi. Per questo il 30 dicembre 2006 fa saltare in aria un bancomat dell’Antonveneta di Albignasego (Padova). L’allarme li mette in fuga. Resta un progetto l’assalto a una banca sostituendosi agli agenti di un istituto di vigilanza: «Li minacciamo con le armi, magari anche sparandogli in una gamba, e li costringiamo a rivelare le procedure di ritiro». Allo studio anche il sequestro di persona a Malpensa. I conti talvolta non quadrano come dimostra l’intercettazione del 5 novembre:
Bortolato: «Mobilito tutti, perché servono sghei».
Latino: «(...) Dovremmo avere una cassa, probabilmente, nostra o no, è un problema? Siamo in cinque».
B: «Nessuno ha la cassa sua».
Sisi: «Neanche noi abbiamo mai avuto una cassa nostra».
B: «Non ci sono spese locali».
L: «Non sono per il modello federale».
S: «Dovremmo fare come i sindacalisti che ti danno i soldi e poi... trovano un modo per giustificare le spese».
L: «Non sono per il modello federale (...). Va bene quello centralizzato».
B: «Finché non siamo più di 20 nuclei... (ridono)»
L: «Quando andrà in tilt».
B: (...) «Ci vuole un responsabile che tira su le quote. E le da a me (...)».
L: «Allora non avremo una cassa, ma un cassiere».
Il quotidiano Libero è il primo obiettivo per un attentato.
Ghirardi: «Io pensavo di farlo a Pasqua, la domenica non lavorano perché il lunedì non esce il giornale. Per cui là anche semplicemente con la benzina e l'acido si può fare qualcosa di interessante».
Latino: «Ma per buttarglielo dentro dici? Magari l'ideale sarebbe trovare qualche finestrella, solo buttarglielo dentro».
G: «A proposito, c'ha anche l'esplosivo tra l'altro».
L: «Ah, si?».
G: «T4. (...) Il tizio qui che ci ha procurato i lunghi (i mitra, ndr.) ce l'ha e non si ricorda dove l'ha messo».
L: «Ma vaff...».
G: «Ma, si, va beh! Non sarà mica rincoglionito, lo conosco anch'io. Siamo amici».
L: «Il T4 è buono!».
Il giuslavorista Ichino
Dopo D’Antona e Biagi, anche il giuslavorista Pietro Ichino finisce nel mirino delle Br. Il 27 febbraio 2006 Ghirardi fa il primo sopralluogo per individuare la vittima e i suoi spostamenti. Comincia dall’abitazione del professore, nella zona milanese Porta Genova. Il 31 agosto, una conversazione intercettata chiarisce con certezza che Ichino «è un bersaglio da colpire». Questo perché Latino, pur convinto che il professore abbia una scorta, dice chiaramente che «uno così non è che gli puoi far nient'altro che farlo fuori». «Io non l’ho mai vista la scorta» risponde Ghirardi. Anche lui ha fatto un sopralluogo: «Sono passato già quattro davanti all'abitazione e non ho mai notato niente». Ghirardi chiude: «Aspettiamo l’occasione, un intervento pubblico per verificare come si muove. Io sposso riconoscerlo».
La casa di Berlusconi
Il gruppo (5 luglio 2006) sogna di attaccare una delle abitazioni di Silvio Berlusconi a Milano, in via Rovani. Latino: «Io pensavo, sai cosa? Scendere da quella rampa con un bel furgone di quelli ad apertura laterale... e ti levi una bella soddisfazione. Dobbiamo stare attenti alle telecamere ». All’alba del 17 novembre va a fuoco il portone della sede padovana dell'organizzazione di estrema destra Forza nuova. Gli inquirenti sospettano che nell’incendio doloso c’entrino i fratelli Massimiliano e Alessandro Toschi. L’auto di uno di loro, che è sotto controllo, è passata lì davanti all’ora dell’attentato. Un volantino a un giornale rivendicherà il giorno dopo quel rogo: «No ai cortei dei servi dei padroni - Le sedi dei fascisti si chiudono col fuoco». Ghirardi e Latino vogliono in qualche modo far pagare all’ex amministratore della Breda la morte di operai causate dall’amianto. Il 7 aprile fanno il nome di Vito Schirone.
Latino: «Va in chiesta il bastardo. Sono andato a vedere dove abita il dirigente della Breda, quello che è stato assolto nella causa dell'amianto».
G. : «Sì, mi ricordo il processo(...). Giustizia per quei poveri operai».
L: (...) «Si chiama Vito Schirona, anzi Schirone, ti metti appostato davanti al portone, sarà una cosa lineare, sotto casa sua... Lo vedi in faccia però, voglio dire, ti vedi i piani e le finestre. Lì ci sono tre piani, non è che sia altissimo. Cioè, (...) tiri una raffica sulle finestre. Non sarebbe neanche una brutta cosa. È una cosa un po' dimostrativa».




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CORRIERE DELA SERA
13 febbraio 2007
Un mestiere così pericoloso
di Pietro Ichino

Perché in Italia fare questo mestiere è così pericoloso? Carlo Castellano, dirigente industriale colpevole di accordi innovativi sull’organizzazione del lavoro, ferito gravemente, poi perseguitato ancora per anni dagli stessi aggressori (1977); Filippo Peschiera, giuslavorista, democristiano di sinistra, ferito gravemente (197[SM=g27989]; Guido Rossa, sindacalista Cgil all’Italsider, ucciso (1979); Gino Giugni, giuslavorista, grande architetto delle riforme in materia di lavoro fin dagli anni Sessanta, ferito gravemente (1983).

E ancora: Ezio Tarantelli, economista del lavoro, ideatore della riforma della scala mobile che ci ha consentito di vincere la scommessa di Maastricht, ucciso (1985); Massimo D'Antona, giuslavorista, consigliere dei ministri del Lavoro e dei Trasporti, ucciso (1999); Marco Biagi, giuslavorista, autore della riforma che porta il suo nome, ucciso (2002); e sono solo i nomi più noti tra i tanti che negli ultimi trent'anni hanno pagato col sangue il loro impegno sul fronte del lavoro.

La vicenda di quest'ultima riforma del lavoro può aiutarci a capire almeno un aspetto di questo meccanismo infernale. Marco Biagi ha scritto di suo pugno il progetto di una legge sul mercato del lavoro, che era per molti aspetti la naturale prosecuzione del cammino di riforma avviato con le leggi Treu del 1997. Ma che cosa disponesse davvero quella legge non interessava molto, né a destra né a sinistra. Al governo di centrodestra interessava soltanto presentarla come «la grande liberalizzazione », quella che avrebbe fatto del nostro mercato del lavoro «il più fluido d'Europa»; all'opposizione di sinistra non è parso vero di prendere il «nemico» in parola, presentandola come la legge della «liberalizzazione selvaggia», che avrebbe «spalancato le porte al precariato».

Da una parte e dall'altra se ne è fatto un simbolo: bandiera da sventolare per gli uni, da abbattere per gli altri; indifferenti tutti a che cosa prevedesse davvero. Solo qualche anno dopo — ed è cronaca delle ultime settimane — ci si è accorti, dati alla mano, che quella legge non aveva prodotto alcun aumento del precariato e anzi forniva, con le norme sul «lavoro a progetto», alcuni buoni strumenti per combattere l'abuso del lavoro precario: strumenti di cui il governo Prodi si è immediatamente avvalso con la circolare sui call center; e che a molti imprenditori sembrano semmai fin troppo severi. Peccato che, nel frattempo, le Brigate rosse avessero pensato bene di fare dell'autore stesso di quella legge un simbolo da abbattere.

La scoperta dell'errore commesso sul «lavoro a progetto» non basta perché cessino le opposte faziosità. Invece di ragionare pragmaticamente sulle molte parti della legge che richiedono qualche correzione o qualche integrazione, si continua con il muro contro muro. Se si rinuncia (a denti stretti) ad abrogare le norme sul «lavoro a progetto», occorre «almeno» sopprimere in blocco le norme sul «lavoro a chiamata» e quelle sullo staff leasing.

Nessuno si cura del fatto che il «lavoro a chiamata» sia un tipo marginalissimo di contratto che è sempre esistito (i camerieri ingaggiati per un banchetto, le hostess per un congresso, ecc.) e che continuerà a esistere anche se si abrogheranno le poche norme con cui la legge Biagi si propone di regolarlo. Quanto allo staff leasing—pacificamente sperimentato in molti Paesi, tra cui la vicinissima Svizzera, con piena soddisfazione dei sindacati—nessuno si cura del fatto che si tratti di una forma di organizzazione del lavoro fortemente stabile, al quale si applica senza eccezione la protezione massima dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; a nessuno interessa che l'alternativa allo staff leasing, da noi, sia il lavoro in una miriade di aziendine appaltatrici di servizi, con poche o nulle protezioni efficaci.

La legge Biagi è un simbolo da abbattere: se non la si può cancellare del tutto, occorre a tutti i costi cancellarne almeno una parte. Pazienza se questa cancellazione è del tutto irrilevante, o addirittura controproducente, rispetto all'obbiettivo sbandierato di combattere il precariato. Perché dico che questa vicenda può spiegare almeno un aspetto della pericolosità del mestiere del giuslavorista o dell'economista del lavoro? Perché il lavoro è materia che scotta; e lo studioso che fa bene il suo mestiere, in questo campo, è costretto troppo sovente a dire cose che urtano contro dei tabù, contro un modo fazioso e non pragmatico di affrontare le questioni, tipico del dibattito italiano su questi temi.

Chi non si rassegna a omologarsi con il «pensiero corazzato» dell'un campo politico o dell'altro rischia di trovarsi isolato e schiacciato tra le opposte faziosità. Viene temuto come il demonio dalle vestali di quel «pensiero corazzato», perché il suo discorso problematico squalifica i loro slogan facili, le loro scorciatoie concettuali; quindi finiscono col demonizzarlo, nel tentativo di chiudere il dibattito prima ancora che esso si apra. Solo a parole, si intende. Ma nel nostro Paese c'è ancora qualcuno che la «chiusura preventiva del dibattito » la intende in un altro modo.




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LA REPUBBLICA
13 febbraio 2007
"Minacciato anche all'università io come Biagi, odiano le riforme"
di Carlo Brambilla

"Quattro giorni fa, nella notte tra giovedì e venerdì, misteriosi hackers hanno oscurato il sito della Facoltà nella quale lavoro inserendo la stella a cinque punte delle Brigate Rosse. Due mesi fa sul muro della Facoltà era comparsa la stessa sigla. Segnali? Avvisaglie da prendere in seria considerazione? Al momento non diedi grande importanza alla cosa. Mi sentivo tranquillo, sicuro. L'estate scorsa avevo perfino scritto al ministro Tommaso Padoa Schioppa, dopo il suo appello al contenimento della spesa pubblica, chiedendo di disporre la cessazione della mia protezione. Ma non mi vollero togliere la scorta. Il prefetto mi chiamò per spiegarmi che l'allarme non era cessato... Gli ultimi sviluppi sembrano confermarlo".

Pietro Ichino, docente di Diritto del Lavoro all'Università Statale giuslavorista di fama, con un passato da dirigente Cgil, oggi duramente contestato da una parte della sinistra sindacale, da 5 anni sa di essere un possibile bersaglio dei terroristi. Nel febbraio del 2003, poco prima dell'arresto di Nadia Lioce, scattò per lui un allarme ulteriore e gli venne assegnata una vettura blindata.

Professor Ichino, dall'uccisione di Marco Biagi, nel 2002, lei vive sotto protezione. Negli ultimi tempi ha mai avuto la sensazione di essere pedinato, seguito, controllato?
"Io lavoro ogni giorno in Università. La mia porta è sempre aperta e c'è un via vai continuo. Faccio lezione davanti a centinaia di studenti. Partecipo a molti incontri pubblici. Non c'è bisogno di pedinarmi per sapere dove trovarmi".

Sotto casa mai nessun movimento sospetto?
"E' accaduto qualche volta che gli agenti della scorta abbiano chiesto i documenti a qualcuno che si aggirava intorno a casa mia. O abbiano avuto qualche sospetto su un'auto che sembrava seguirci e ne abbiano comunicato la targa alla centrale. Ma non mi hanno mai detto che ne fosse emersa alcuna pista di indagine interessante".

Ha mai avuto paura?
"Quando non si muove un passo senza essere seguiti da due agenti armati non si può avere paura. Anzi, ci si sente fin troppo sicuri. Si soffre, semmai, del sacrificio di una parte del proprio "right to be let alone", della propria libertà. Mi è capitato due o tre volte, nei primi tempi, di sognare la scena di un tentativo di aggressione sulla porta di casa. Ma poi ha sempre prevalso il senso di sicurezza".

Come pensa di essere finito nel mirino dei terroristi?
"Sono 30 anni che i brigatisti se la prendono con chi studia il mondo del lavoro: da Tarantelli a Giugni, a Peschiera, a D'Antona, fino a Marco Biagi. Odiano chi progetta le riforme che possono far funzionare meglio il mercato del lavoro, il sistema delle relazioni industriali. Evidentemente pensano che la lotta armata trarrebbe giovamento da un sistema che funziona male".

Il ministro Amato ha parlato di "attentato sventato".
"Mi sembra difficile che, potendo scegliere un bersaglio, ne scelgano uno protetto, come sono io... La capacità operativa che le Brigate Rosse hanno oggi è decisamente minore di quella che avevano al tempo del sequestro Moro".

Recentemente lei è stato duramente contestato, a Roma, da alcuni lavoratori per il suo libro I nullafacenti (Mondadori), nel quale punta l'indice sui dipendenti pubblici inefficienti e si lancia la proposta di licenziare i fannulloni.
"Quella fu una contestazione civile. Per nulla violenta. I contestatori avevano pessimi argomenti, ma volevano semplicemente discutere. Il vero pericolo nasce invece da gli atteggiamenti volti a demonizzare la persona. A chiudere il dialogo. A impedire che si discuta. Quello che rende possibile l'aggressione, l'assassinio, il terrorismo, è considerare l'essere umano come un simbolo. Una bandierina da abbattere. Questa è l'operazione che fanno i brigatisti. Ma non bisogna chinare la testa. Altrimenti vincono loro, vince l'intimidazione".

Nella sua "Lettera aperta ai terroristi", pubblicata dal Corriere della Sera nel 2003, scelse di rivolgersi a loro sul terreno umano: "Guardiamoci negli occhi, anche solo per un attimo...". Riscriverebbe oggi le stesse parole?
"Oggi ancora più di allora. Il terrorismo si sconfigge cercando sempre la persona nell'avversario".




INES TABUSSO