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CORRIERE DELLA SERA
8 dicembre 2006
LA CASSAZIONE E PREVITI
Quei casi fotocopia con scelte opposte
di VITTORIO GREVI

Leggendo la motivazione, redatta con insolita solerzia, della sentenza con cui
la Corte di cassazione ha nei giorni scorsi annullato per difetto di competenza
territoriale le due sentenze di condanna per corruzione, pronunciate a Milano
contro Cesare Previti, Attilio Pacifico e Renato Squillante, ci si rende conto
che il punto più cruciale del dissenso tra la Corte suprema ed i giudici
milanesi ha riguardato l'originario rapporto tra le diverse imputazioni
connesse di quel processo, nel momento del rinvio a giudizio dei vari imputati
dinanzi al tribunale di Milano. Due erano le accuse rilevanti, per ciò che qui
importa.
Daun lato, si procedeva per il delitto di corruzione contro Previti e Pacifico
(oltre che contro Silvio Berlusconi, la cui posizione sarebbe stata
successivamente stralciata, confluendo in un processo già conclusosi con un
proscioglimento per prescrizione, grazie alle concesse attenuanti generiche),
in quanto accusati di avere «stabilmente retribuito» il giudice Squillante,
attraverso fondi di provenienza Fininvest. Dall'altro, si procedeva contro il
solo Berlusconi per un delitto di falso in bilancio, diretto ad occultare le
disponibilità finanziarie necessarie, tra l'altro, anche per commettere il
suddetto delitto di corruzione. Dopodiché, sulla base di una classica regola di
competenza territoriale, il tribunale di Milano aveva ritenuto che il
procedimento per il delitto di falso in bilancio (allora delitto più grave)
attraesse nella sfera di competenza milanese, grazie al vincolo di connessione
da «mezzo» a «fine» esistente tra i due reati, anche il procedimento per il
delitto di corruzione.
Questo criterio di attribuzione della competenza si sarebbe dovuto ritenere
decisivo, in quanto la competenza territoriale si incardina «allo stato degli
atti», cioè sulla base degli elementi esistenti e noti all'inizio del processo
(di regola in sede di udienza preliminare), prescindendo da eventuali
successive modifiche della situazione processuale, in virtù del principio che
ne vuole «perpetuata» la originaria corretta determinazione. Alla luce di tali
premesse non potevano esservi dubbi, quindi, circa la competenza dei giudici
milanesi. Dello stesso avviso non è stata, invece, la Corte di Cassazione, la
quale ha ritenuto - richiamandosi ad altre pronunce - che nel nostro caso non
potesse invocarsi il ricordato vincolo di connessione, poiché i due reati
risultavano commessi da imputati (almeno in parte) diversi. Si tratta di una
conclusione molto discutibile, soprattutto quando il reato «fine», come la
corruzione, abbia natura di reato a «concorso necessario» (tale, cioè, da
presupporre la partecipazione di più soggetti). Ma, soprattutto, si tratta di
una conclusione contraddetta da uno specifico precedente della stessa VI
sezione penale della Cassazione, la quale alcuni anni fa (sentenza 10 luglio
1998, ricorrente Cirino Pomicino) aveva deciso in senso contrario una questione
sostanzialmente identica, nell'ambito dell'«affare Enimont». Più precisamente,
giudicando di un delitto di falso in bilancio (commesso a Milano), configurato
quale reato «mezzo» connesso al reato «fine» di finanziamento illecito dei
partiti (commesso a Roma), la Corte suprema aveva riconosciuto per entrambi i
reati la competenza dei giudici milanesi rispetto a quelli romani. E ciò
proprio in applicazione della già ricordata regola di competenza territoriale
determinata dalla connessione, ed anzi sottolineando che tale regola «non
richieda che il reato-fine sia realizzato dalle stesse persone che hanno
commesso il reato-mezzo».
Di fronte ad un simile precedente, articolato in termini quasi «fotografici»,
davvero non si vede come una settimana fa la Corte di Cassazione abbia potuto
discostarsene con tanta disinvoltura, travolgendo undici anni di attività
processuale, culminati in due conformi sentenze di condanna a carico degli
avvocati «corruttori» e del giudice «a libro paga». In un contesto del genere,
seppure vi fosse stata incertezza, sarebbe stato prudente, anzi doveroso,
quantomeno rimettere la decisione di una questione così delicata alle Sezioni
unite della medesima Corte.



INES TABUSSO