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LA PADANIA
25 gennaio 2006
CARI LEGHISTI, PERMETTETEMI
MASSIMO FINI

Caro Direttore,
Silvio Berlusconi è “overcome”. È andato. Non ci fosse altro, basterebbe il suo scomposto comportamento di queste ultime settimane e mesi per dire che l’uomo è arrivato alla frutta. Uno che dopo aver delegittimato per dieci anni in ogni modo la magistratura si rivolge a quei pubblici ministeri che definì “antropologicamente pazzi” per riferire notizie che lui stesso ha ammesso non avere alcuna rilevanza penale (se lo avessi fatto tu saresti stato cacciato a pedate nel sedere, perché i magistrati non son lì, pagati dalla collettività, per ascoltare chiacchiere da bar) è alla disperazione. Il suo comportamento - del resto in linea con tutta la storia del personaggio, il suo egocentrismo, il suo narcisismo, il suo delirio di onnipotenza coniugato con un insuperabile “inferiority complex” - è da “Apres moi le deluge!” o da “cada Sansone con tutti i filistei”.
Ma i Berlusconi passano, la Lega resta. Perché i motivi del suo esistere non hanno a che fare con le vicende personali di questo o quel personaggio, ma affondano le proprie radici in esigenze profonde dell’uomo contemporaneo.
Entrando quindi un po’ indebitamente “in partibus infidelium” - perché io non sono leghista, anche se spesso ho difeso le ragioni di questo movimento soprattutto negli anni in cui tutti lo demonizzavano - mi chiedo, e ti chiedo, se non sia venuto il momento per la Lega, approfittando anche del sistema proporzionale, di riprendere in pieno la propria autonomia.
Il vero, autentico, nemico della Lega in questi anni - come Bossi sa benissimo e come un giorno, anzi una notte, mi confidò - non è stata la sinistra, ma proprio Silvio Berlusconi. Fu Umberto Bossi, insieme a Di Pietro e ai suoi colleghi della procura di Milano, a scuotere, nel 1992-94, l’albero marcio della Prima Repubblica.
Ma è stato Silvio Berlusconi a raccoglierne i frutti. Come mai nel 1994, quando si parlava solo di cambiamento, gli italiani abbiano dato la loro preferenza a Silvio Berlusconi, che era stato stretto sodale di Craxi, che della Prima Repubblica, e della sua corruzione, era ritenuto, a torto o a ragione (a mio parere a ragione, a straragione) l’emblema, fa parte dei misteri dolorosi della nostra storia. Ma forse mistero non è, perché fa parte del notorio trasformismo italiano immortalato dalla famosa frase del principe di Lampedusa “è bene che tutto cambi perché nulla cambi”.
Fatto sta che nel 1994 gli italiani non premiarono la Lega, come meritava, ma Berlusconi che non lo meritava affatto. Bossi fu costretto ad un’alleanza col Cavaliere che gli stava strettissima, tanto che solo un anno dopo mandò a gambe all’aria il governo Berlusconi chiudendo uno dei suoi migliori, e appassionati, discorsi parlamentari con le parole «oggi cade la Prima Repubblica!». Purtroppo non era vero. La Prima Repubblica, dopo gli anni di sbandamento per le inchieste giudiziarie, cominciava la sua rapida restaurazione eliminando, in vario modo, tutti i protagonisti, grandi e piccoli, di quella che era stata chiamata la “rivoluzione italiana”. Chi demonizzandolo (Di Pietro); chi sbattendolo fuori dal circuito mediatico (Funari), chi acquisendo alla propria causa e distruggendo il giornale-novità di quegli anni (Feltri e L’Indipendente), chi costringendolo nell’angolo (Bossi).
Io non dimentico tutte le denunce, e le accuse, gli epiteti irriferibili che Bossi rivolgeva in quegli anni al Cavaliere (i più gentili dei quali erano “Berluscaso” e “Berluscosa”) e che certamente anche i leghisti ricordano.
Ma alle elezioni del 2001 il sistema maggioritario, che proprio Bossi a suo tempo, malconsigliato da Miglio, aveva abbracciato, ha obbligato la Lega a riallearsi con Berlusconi. Ed è stato un abbraccio mortale. Perché ha costretto la Lega ad abbandonare tutti i suoi temi “forti”, quelli che vanno al di là del contingente, dei protagonisti attuali e del suo stesso fondatore, e che saranno i temi degli anni a venire.
L’identità, innanzitutto. Berlusconi è un uomo senza identità, senza tradizioni, senza storia. Gli stessi studi e uffici della Fininvest, quelli, poniamo, di Milano Due o di Cologno Monzese, sono luoghi senza identità, senza tradizione, senza storia. Berlusconi è un lombardo per caso, sta nell’etere che, per definizione, è un luogo senza identità. Se della grande borghesia lombarda di un tempo, dei Pirelli, dei Borletti, dei Bassetti, dei Brion Vega, dei Crespi, si poteva avvertire il radicamento, di Berlusconi no, egli sta in un punto imprecisato dello spazio mediatico.
L’antiglobalismo. Un movimento localista come la Lega è, per ragioni intrinseche, per la “contraddizzion che nol consente”, antiglobalista. I primi discorsi “no global”, a livello politico, io li ho sentiti fare da Umberto Bossi. Ma la Lega ha dovuto ricacciarseli in gola perché un imprenditore del tipo di Berlusconi, che nulla ha a che vedere con la piccola e media impresa, ha, per sua natura, una vocazione globalista.
L’antiamericanismo, intendendo gli Stati Uniti quale potenza imperiale che ha come obiettivo naturale l’omologazione a sé dell’intero esistente. Anche questo era un tema “forte” della Lega delle origini (mi ricordo che parlamentari leghisti andarono coraggiosamente a Belgrado per manifestare, prima di Santoro, contro le bombe americane che colpivano un Paese cristiano e ortodosso a favore della componente islamica e terrorista dei Balcani). Ma come fare se l’alleato Berlusconi è più “amerikano” di George W. Bush?
L’antivaticanismo, inteso come sacrosanta reazione alle sempre più pesanti ingerenze della Chiesa nelle vicende interne dello Stato italiano (Papa Wojtyla arrivò a tornare contro l’indipendentismo leghista, come se una cosa del genere potesse avere a che fare col magistero della Chiesa per quanto lato lo si voglia intendere). Ma come si può conciliare questa posizione con quella di un ipocrita baciapile come l’onorevole Berlusconi? E così via.
La partita delle prossime elezioni è perduta, per quanto la sinistra, con la sua litigiosità interna, con la brama, così evidente, di spartirsi ogni briciola di potere prima ancora di averlo, faccia di tutto per rendersi ripugnante. Ma per quanto questa sinistra sia in larga misura indecente, ciò non compensa il totale fallimento dell’esperienza Berlusconi, le promesse sesquipedali non mantenute soprattutto in campo economico, la personalizzazione narcisistica, onirica, quasi delirante, della sua leadership a danno, e oserei dire quasi a disprezzo, delle ragioni politiche dei suoi alleati.
E allora queste elezioni inevitabilmente perdute possono tramutarsi in un’occasione, almeno per la Lega, che ha ragioni di fondo che vanno ben al di là di una tornata elettorale, per ritrovare se stessa e l’entusiasmo delle origini.
INES TABUSSO