00 22/01/2006 20:14


LA STAMPA
21 gennaio 2006
colloquio
JACOPO IACOBONI
«Ci vorranno ancora anni. Non mi candido, ognuno faccia il suo mestiere»
inviato a ROMA

Soltanto martedì, in un grafico del Corriere della Sera che molto ha fatto discutere per altre ragioni, Umberto Eco campeggiava come uno dei tre padri nobili dell’ipotetico partito democratico, assieme a Claudio Magris e a Enzo Biagi. Eco però in tutti questi mesi di discussioni, e anche agre frizioni dentro il centrosinistra, non ne ha mai voluto parlare né scrivere, per una ragione semplice: «C’è tanta confusione in giro, anch’io devo capire, farmi un’idea». E in linea di massima, aggiunge, «chi deve capire, non parla». Tuttavia, vuoi per il contesto favorevole, vuoi per un’insistenza che si spera garbata, alla fine la conversazione si scioglie. «Non un’intervista», specifica il professore, «ma una semplice chiacchierata». Fuori dalla stanzetta di piazza San Marco, a Roma, una folla di anziani bibliofili ha appena reso omaggio al grande intellettuale di Alessandria, autore - così, giusto per dire due tre cosette - di Opera aperta, Apocalittici e integrati, dell’indimenticata Fenomenologia di Mike Bongiorno e, se non vi basta, del Nome della Rosa. In fondo, anche qui è venuto per parlare di «nomi», e di «ciò che sta all’inizio», in questo caso dei libri («stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus»), cioè titoli, indice, appendici bibliografiche. C’è un testo, che ha scritto per il volume collettaneo Curiosità biblografiche, in cui prende in giro certa incontinenza del mondo intellettuale che ebbe il suo picco nel Seicento, quando un libretto di quaranta versi di tal Matanasius, lievitò nelle successive edizioni fino ad arrivare a seicento pagine: tra note e apparati! Cosa c’entri tutto questo con l’attuale centrosinistra è parso lapalissiano. Senonché, dopo il brillante riassunto del dotto studio, cui i presenti in sala non riservano nessuna, dicasi nessuna domanda, non si può poi lasciar andar via Eco così. Ed eccolo, allora, cortesemente riflessivo su dibattito molto più terra terra, al punto che quasi vien voglia di scusarsi per la faccia tosta di tirarcelo dentro. «Il partito democratico? A me sembra, e lo voglio dire con tutta la cautela, un po’ anticipato. Ci vorranno anni, per poterlo fare. Bisognerà aspettare che siano scomparsi tutti gli ex comunisti, e gli ex democristiani, il che vuol dire che lo faremo tra cent’anni». Senza arrivare a questo, troppa fretta pare comunque incongrua al grande scrittore e semiologo. «Se lei va nell’Emilia rossa, e domanda a qualche anziano militante che è stato comunista, di fare in quattro e quattr’otto il partito democratico assieme a Mastella, quello con ogni probabilità la manderà a quel paese». È questo, per Eco, il grado di disponibilità di molta della tradizionale base post-comunista, o di quel che resta degli apparati nel primo partito della sinistra. «Per fare un partito all’americana ci vorranno anni. Prima che un problema politico, è un problema di generazioni». Conviene allora fare un esempio. «Secondo lei per quale motivo in Italia si parla ancora tanto del fascismo, e il fascismo a volte sta addirittura sullo sfondo della battaglia politica quotidiana?». Per una ragione che a Eco pare lampante: «Quand’è che smetteremo di occuparcene? Quando saranno morti tutti quelli che quell’esperienza l’hanno vissuta direttamente». Oppure, con altro esempio: «È come quando ero bambino io, si parlava ancora di garibaldini, e si continuò a farlo finché fu vivo l’ultimo garibaldino in piazza, che tra l’altro mi ricordo bene». Insomme, certe storie e certe tradizioni sono alquanto difficili da metter via con un colpo d’ala, o d’ascia. Su Repubblica, qualche giorno fa, il nome di Eco è comparso in un elenco, anche quello ipotetico, di personaggi extrapolitici che Romano Prodi gradirebbe molto poter inserire in lista. Eco sorride. Neanche la prospettiva di sedere su un banco accanto a Giulio Andreotti, come è accaduto poco prima nella sala della presentazione bibliofila, lo smuove. «Ognuno faccia il suo mestiere. Se lei va in giro dicendo che io sono un ladro, non vuol dire che io sia un ladro; vuol dire soltanto che lei lo dice». Candidatura adieu, se c’avevate sperato. A meno che non si voglia accreditare il Professore di capacità di convincimento da rabdomante vero. Partito democratico o meno, candidatura o no, il 9 aprile si avvicina. Che impressione ha Umberto Eco di questa campagna elettorale? I sondaggi danno il centrosinistra in grande vantaggio, ma la competizione sembra ancora molto aperta. «Mah», allarga le braccia, masticando il sigaro. «L’altro giorno ho incontrato Piepoli in treno, e ha confidato anche a me questi numeri, ho ancora qui il suo biglietto da visita che stasera ho usato come segnalibro... è una situazione molto difficile, un clima bruttissimo. Adesso il centrosinistra è davanti di molto, se spunta fuori un’altra telefonata con Fassino... non lo so... siamo come sospesi a eventi così». Sono le sette e trentacinque di sera, Eco deve congedarsi. Uscendo, sfila via da piazza Venezia, svolta in piazza Plebiscito, passa davanti a Palazzo Grazioli. No, tranquilli: non è entrato dove avete temuto.
INES TABUSSO