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LA PADANIA
29 novembre 2005
IL COMMENTO DEI POLITICI ALLA SENTENZA CHE HA ASSOLTO I PRESUNTI TERRORISTI
Il rito ambosiano ha colpito ancora
Il ministro Calderoli: «Speriamo che il ricorso in Cassazione venga dibattuto fuori da Milano»

«Sono sconcertato dell’esito della sentenza della Corte di Appello di Milano che ha assolto i tre imputati dall’accusa di terrorismo internazionale derubricando il reato in associazione per delinquere semplice». Lo afferma, in una nota, il ministro delle Riforme, Roberto Calderoli.
«Le motivazioni con cui si richiedevano condanne dai 6 ai 10 anni risultavano estremamente precise e fondate - sostiene Calderoli -. Il rito ambrosiano ha colpito ancora: non c'è che da attendere, purtroppo, il ricorso in Cassazione, che mi auguro la Procura vorrà presentare immediatamente, per fare sì che il giudizio venga espresso in una città diversa rispetto a Milano».
«Un episodio che va approfondito». Con questa frase secca Niccolò Ghedini, di Forza Italia, ha commentato le affermazioni di Mohamed Daki, che ha rivelato di essere stato interrogato da agenti americani senza difensore e senza che fosse redatto un verbale. «Premetto che non conosco molto sulla vicenda - afferma l'esponente azzurro - comunque in casi eccezionali i colloqui investigativi senza difensore sono possibili, anche se a me non piacciono, perché la presenza del difensore è una garanzia sia per l'indagato che per lo Stato, affinché si abbia la certezza che le procedure siano state seguite correttamente. L’ordinamento - prosegue l’avvocato Ghedini - non consente che i colloqui investigativi siano condotti da agenti stranieri, a meno che non ci sia un accordo tra le autorità italiane e quelle straniere». Sono due, dunque, gli episodi da chiarire: «In primo luogo - spiega Ghedini - se ricorrevano quei requisiti di eccezionalità tali da consentire colloqui investigativi; e, se questi sono stati condotti da agenti stranieri, se c'era un accordo con le autorità italiane. È un episodio che va approfondito - conclude il legale - a garanzia dei diritti individuali, della difesa e costituzionali». Ferma condanna per quanto è accaduto da parte di Paolo Cento, vicepresidente della Commissione di Giustizia della Camera: «È molto grave: una conferma della violazione della sovranità territoriale. È uno scandalo che agenti americani possano intervenire». Cento ritiene che «sia necesario accertare come sia potuto accadere» e anticipa che sarà presentata una interpellanza al ministro della Giustizia.
Giuseppe Fanfani (Margherita) invita tutti alla prudenza: «Non sono in grado di esprimere un giudizio motivato. Posso solo dire che in questi casi occorre molta prudenza e attendere che si faccia chiarezza, perché dietro questi episodi ci può essere la verità ma si può anche nascondere il falso o il depistaggio».
Non sembra prestare molta attenzione alle parole del marocchino il senatore di An Luigi Bobbio, che per questo dichiara di voler essere cauto: «Francamente mi paiono accuse tutte da verificare, vista la inattendibilità del personaggio. Se anche fosse vero e Daki fosse stato interrogato dall’autorità giudiziaria legittimata a farlo, o alla presenza di forze di polizia giudiziaria accreditate, insieme a soggetti autorizzati di un Paese amico e alleato, non ci vedrei nulla di male. Quanto all’assenza di un avvocato, può capitare che non vi sia un difensore». In merito alla sentenza di assoluzione per Mohamed Daki, Bobbio aggiunge che «si possono fare le migliori leggi possibili contro il terrorismo, ma c'è sempre il rischio interpretativo, per cui l’esito di un processo può risultare funzionale ad una tesi precostituita».
Guido Rossi, vice presidente della Lega Nord a Montecitorio, evidenzia i rischi di una possibile anarchia giudiziaria: «Questa sentenza mi fa pensare che, nonostante l'esistenza di strumenti legislativi adeguati, siamo di fronte a un'anarchia giudiziaria che stronca sul nascere ogni tentativo di dare risposte repressive e preventive a un fenomeno così sfuggente come è quello del terrorismo internazionale di matrice islamica. In alternativa devo pensare, ma ci credo poco, che abbiamo strutture investigative - prosegue Rossi - che costruiscono castelli accusatori che non stanno in piedi e che non reggono alla prova dei fatti».
Or. Sac.





sette arresti a palermo
Terroristi islamici mimetizzati tra i clandestini degli sbarchi in Sicilia

Palermo - La Sicilia degli sbarchi clandestini sarebbe da tempo utilizzata dal terrorismo internazionale come una testa di ponte per l’ingresso in Italia e in Europa.
La preoccupante notizia arriva da Palermo, dove un’organizzazione di cittadini pachistani, tutti residenti da diversi anni nel capoluogo regionale, avrebbe fornito documenti e appoggio logistico a una cellula del terrore islamico. La struttura, scoperta dagli agenti della Digos palermitana, riusciva ad agevolare l’ingresso di immigrati, soprattutto pachistani ma anche di altre nazionalità, grazie all’appoggio determinante di alcuni insospettabili, tra cui un ispettore della polizia e un’impiegata dell’ufficio provinciale del lavoro.
L’indagine, coordinata dal Pubblico Ministero del Dipartimento Antiterrorismo Antonio Ingroia, ha finora portato all’arresto di sette persone, la cui posizione sarà sottoposta nei prossimi giorni all’esame del Giudice per le Indagini Preliminari. La procura, comunque, chiederà la convalida di ciascun provvedimento di custodia.
Al di là del ruolo rivestito dai singoli, quel che emerge abbastanza chiaramente dall’inchiesta è la funzione strategica attribuita all’isola dagli accoliti di Bin Laden. La Sicilia, infatti, sarebbe stata individuata come una porta d’accesso continentale ideale per gli immigrati clandestini “inseriti in organizzazioni criminali”. Secondo quanto riferito dagli inquirenti, la struttura scoperta a Palermo veniva utilizzata, oltre che per l’appoggio logistico, anche per l’aiuto economico garantito ai militanti delle organizzazioni dell’integralismo islamico”. Di più. Per i magistrati “le risultanze ottenute dimostrano che la Sicilia ha costituito negli ultimi anni un luogo di ingresso, passaggio e smistamento di soggetti in transito verso le regioni settentrionali dell’Italia e dell’Europa”.
Capire le ragioni per cui i terroristi hanno scelto la Sicilia non è certo difficile. L’isola offriva loro diversi vantaggi strategici, permettendogli di confondersi e mimetizzarsi fra le migliaia di disperati che ogni settimana approdano sulle coste via mare e di sfruttare una struttura di servizio già collaudata e in grado di gestire lo smistamento nel resto d’Italia e d’Europa. Proprio per sottolineare il ruolo strategico assegnato alla Sicilia, l’operazione è stata denominata “Passepartout”.
Quel che stupisce di più, però, è che a spalleggiare i terroristi fossero pure dei cittadini italiani. Oltre al 37enne Sarfraz Agha Muhammad, al 47enne Ismail Muhammad, al 34enne Ghazanfar Hussain e al 45enne Ayub Muhammad, sono infatti finiti in cella anche tre nostri connazionale: la palermitana Elisabetta Chianello, 46 anni, responsabile per i flussi migratori dell’Ufficio Provinciale del Lavoro, Antonino La Barbera, 54enne ispettore di polizia dell’ufficio Immigrazione della Questura e il 47enne Domenico Grasso. Tutti e sette si dovranno difendere dall’accusa di associazione per delinquere, violazione delle norme sull’immigrazione, falso e concussione.
Dal punto di vista operativo, l’organizzazione regolarizzava illegalmente gli extracomunitari che, subito dopo avere ottenuto il permesso di soggiorno dalla Questura di Palermo, veniva spostati o si spostavano in diverse città italiane ed europee. Al vertice dell’organizzazione, secondo gli inquirenti, c’era Sarfraz Agha. L’uomo manteneva contatti con il Pachistan e in Italia sfruttava alcune conoscenze in uffici chiave della pubblica amministrazione. Il reclutamento degli stranieri disposti a pagare per ottenere i documenti di soggiorno era invece curato da Muhammed Ismail (alias Khan) e Muhammed Ayub, rispettivamente fratello e cognato di Sarfraz, e da Hussain Ghazanfar. I tre facevano la spola tra il Pakistan e l’Italia, dove restavano fino alla conclusione dell’iter della pratica burocratica con la complicità dei tre italiani.
I magistrati hanno ricostruito anche il ruolo degli italiani. La Chianello avrebbe fornito un “apporto tecnico”, istruendo in prima persona le pratiche e dando priorità, se non addirittura l’esclusiva, alle richieste segnalate dai pakistani. L’ispettore La Barbera si occupava invece di sollecitare e sveltire la pratica di rilascio di autorizzazioni all’ingresso e di permessi di soggiorno. Grasso, infine, si sarebbe occupato di reperire soggetti disponibili a firmare, dietro compenso, una dichiarazione fittizia di assunzione degli immigrati, salvo concordare anticipatamente il loro licenziamento.







INES TABUSSO