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"Signora, sono cattolico anch´io!"
(papa Pacelli, Pio XII, rivolgendosi all'ambasciatrice americana Claire Booth
Luce, cattolica convertita, reazionaria, che esibiva in Vaticano la sua inflessibile
fede cattolica)



CORRIERE DELLA SERA
23 agosto 2005

Pera e i ciellini
La società meticcia e l?autogol del filosofo
Gian Antonio Stella

Dibattuto tra Karl Popper e Heriberto Herrera, avendo appreso dal primo «la
più penetrante critica epistemologica contro le "pretese" scientifiche di
Marx» e dal secondo l'arte del «movimiento » che lo spinge a ubriacanti piroette
impedendogli di stare un po' fermo sulle stesse idee, Marcello Pera è incorso
ieri in uno spiacevole infortunio: è riuscito a farsi bacchettare non solo
dalle sinistre ma perfino dai ciellini. I quali, costretti a scegliere tra
le parole del Papa e le sue, hanno precisato che sì, con l'apocalittico discorso
che ha tenuto aRimini «ci sono grandi punti di contatto, ma non c'è necessariamente
una totale identità di vedute».
Non avevano scelta. L'intemerata del presidente del Senato non solo contro
«i relativisti che scherzano con il fuoco» e la legge spagnola sulle coppie
gay e il laicismo e mille altri demoni ma anche contro un'Europa dove «si
apre la porta all'immigrazione incontrollata e si diventa meticci », è infatti
assai distante dalle posizioni della Chiesa. Sono anni che il cardinale Angelo
Scola, a esempio, insiste che l'identità non si difende preservandola «come
un fossile» e che «il popolo di Dio è una fusione di nazioni e di popoli
e per questo non dobbiamo aver paura di parlare del meticciato di civiltà.
Sottolineo la parola civiltà».
E sono anni che Joseph Ratzinger, a dispetto di Roberto Calderoli che lo
invoca contro «l'imbastardimento della nostra identità», ha chiarito che
la multiculturalità (che per Pera «genera apartheid, risentimenti e terroristi
di seconda generazione») è «una sfida da raccogliere». Di più: «L'interculturalità
mi pare oggi costituisca una dimensione indispensabile per la discussione
intorno alle questioni fondamentali sull'essere uomo, discussione che non
può essere condotta né solo all'interno del cristianesimo né solo nell'ambito
della tradizione occidentale della ragione». Non basta: prima dell'abbraccio
ai musulmani di Colonia aveva già spiegato che per lui è falso che non esista
un Islam moderato: «L'area culturale islamica è caratterizzata da analoghe
tensioni: dall'assolutismo fanatico di un Osama Bin Laden fino agli atteggiamenti
che sono aperti a una razionalità tollerante, si dispiega un ampio arco».
Per il presidente del Senato, del resto, siamo al replay. Un mese fa, dopo
le stragi di Sharm el Sheikh, aveva detto: «È uno scontro di civiltà.Èstata
dichiarata una guerra all'Occidente ».Esi era trovato già allora nel mirino.
Non solo della sinistra, che ieri gli ha ricordato che «dal paventare meticci
a sostenere la purezza etnica il passo può essere breve»,madegli stessi amici.
Da Fini («È sbagliato e deprecabile parlare di scontro di civiltà ») a Pisanu
(«Non possiamo confondere la minaccia del terrorismo con la religione, la
cultura e la civiltà dell'Islam»), da Casini («Bisogna abbassare i toni:
tra Occidente e Islam non c'è uno scontro di civiltà») fino allo stesso Benedetto
XVI: «Non sono bombe contro il Cristianesimo». Il fatto è che Pera, quando
sposa (volta per volta) una tesi, ci mette tanta enfasi da far dire a Francesco
Storace: «Sembra un concorrente dell'isola dei focosi».Èil suo guaio: le
piroette si notano di più.
Prima di essere più papista del Papa e più ciellino dei ciellini, il figlio
del vecchio ferroviere insofferente alla rigidità coerente dei binari è stato
il più giustizialista dei giustizialisti («Il garantismo, come ogni ideologia
preconcetta, è pernicioso») e poi il più laicista dei laicisti («Per esser
anticlericali bisogna sentir la dignità della propria identità») e il più
garantista dei garantisti.E poi il più fiero avversario dell'inserimento
delle radici cristiane nella carta Ue («Non dobbiamo infilare Dio nella Costituzione
europea o inseguire su tutto le posizioni della Chiesa») e il più fiero fustigatore
di chi non l'aveva infilata: «Abbiamo rimosso la nostra identità giudaico-cristiana».
E l'accanito teorico della fecondazione assistita («Davvero monsignor Sgreccia
vuol farci credere che prelevare il seme in unmodoo un altro è moralmente
rilevante? La morale dipende da come si eiacula?») e poi l'accanito censore
dei referendari sconfitti «che hanno provato a dare un violento colpo di
forbice ai valori e sono ancora lì che si accarezzano la guancia per lo schiaffo
ricevuto».
E insomma ha offerto ai suoi critici tutte le prove per accusarlo, carta
canta, di aver detto tutto e il contrario di tutto, a seconda di come gli
girava al momento. Fedele, in fondo, solo all'idea che aveva proposto anni
fa a un giornale. Quella di avere una rubrica dove «scrivere ciò che mi passava
per la testa». Propose pure il titolo: «Discorsi a Pera» ( ).
Gian Antonio Stella
23 agosto 2005









( )
La lunga marcia del presidente fai da te
di Stefania Rossini
L'Espresso, 5 dicembre 2002


Siede sullo scranno più alto del potere politico, subito sotto a quello
del presidente della Repubblica. Sta a suo agio, come se fosse proprio questo
il traguardo cui aspirava quando, da bambino, puntò i piedi e pretese di
studiare, di diventare almeno ragioniere, per staccarsi da una famiglia
povera e da quella che viveva come una condanna di classe.
Comincia da lontano la storia di Marcello Pera, presidente del Senato, intellettuale
di lungo corso, studioso di filosofia, docente universitario prestato a
Forza Italia e, oggi, alle istituzioni repubblicane. Lo incontriamo in piena
bufera Rai, poco propenso a mescolare gli affari correnti con questo colloquio
personale che un po' lo attira e un po' lo insospettisce («Siete proprio
sicuri che la mia vita interessi a qualcuno?»). Ma abbastanza immerso nel
conflitto intorno alla Rai per non lasciarsi andare almeno ad un commento:
«Bastava accettare la mia ricetta e tutto questo non sarebbe accaduto».

Quale ricetta, presidente?

«Quella della privatizzazione, naturalmente. Non c'è altra soluzione, dato
che il concetto di servizio pubblico è diventato elusivo».

Elusivo?

«Sì, sfuggente, inafferrabile. Il festival di Sanremo è un servizio pubblico?
I quiz sono un servizio pubblico? Le natiche delle vallette sono un servizio
pubblico? L'unico servizio pubblico è il telegiornale. Ma per farlo diventare
veramente tale, è necessario privatizzare. Solo allargando il mercato delle
opinioni si ottiene la pluralità e quindi un servizio diretto al pubblico.
Che è cosa ben diversa da un gestore pubblico».

Lei ha parlato di cavilli e astuzie personali. È rimasto deluso dal comportamento
di quel fine giurista che è il suo amico Baldassarre?

«Ho solo dichiarato che trovavo inopportune le sue nomine affrettate e avallate
da un solo consigliere, mentre un altro stava furbescamente a bagnomaria
dietro la porta. Conosco bene Baldassarre, e lo stimo, ma dire amico è un
po' troppo. Si tratta infatti di una conoscenza recente. L'amicizia è un'altra
cosa».

Che cos'è?

«È quella, per esempio, che mi univa a Lucio Colletti, la cui morte ancora
mi fa soffrire. O quella che mi legò a Vittorio Saltini, intellettuale di
gran prestigio oggi un po' dimenticato, che un giorno lontano mi strappò
dalla mia calda cuccia accademica e mi butto nell'arena dei media».

Come fece?

«Parlò di me a Livio Zanetti, quel vostro straordinario direttore che, negli
anni Settanta, rese "L'espresso" un vero laboratorio di idee. Zanetti aveva
sentito parlare di Popper e voleva qualcuno che lo divulgasse. Ne parlammo
al telefono e mi chiese di scrivere un numero imprecisato di cartelle».

Quante ne scrisse?

«Venti, e uscirono tutte. Le concordai con Paolo Mieli, allora caposervizio
della cultura. Ci incontrammo come due cospiratori alla stazione di Firenze».


Cospiravate su Popper?

«Non ci eravamo mai visti e, per poterci riconoscere, ci comunicammo dei
segni distintivi. Curiosamente erano simili per entrambi: cappotto di loden
e "la Repubblica" sotto il braccio. Ci trovammo all'edicola in fondo ai
binari e diventammo amici al ristorante Sabatini, di fronte alla stazione.
Così si diventava amici a quei tempi».

Erano i tempi in cui Cesare Musatti, commentando un altro suo articolo su
"L'espresso", scrisse che finalmente capiva l'origine del detto "un ragionamento
a pera".

«Musatti si risentiva per alcune mie posizioni sulla non scientificità della
psicoanalisi, ma non era l'unico a fare dello spirito sul mio cognome. Io
stesso, molti anni dopo, collaborando al "Messaggero", proposi al direttore
Giulio Anselmi una rubrica dal titolo "Discorsi a pera". Con quell'etichetta
sarei stato libero di scrivere ciò che mi passava per la testa. Ma lui non
accettò».

La psicoanalisi non falsificabile e quindi non verificabile: siamo sempre
a Popper. Davvero questo filosofo è un suo secondo padre?

«Non esageriamo. Questo mio legame con Popper è una cosa che la stampa ripete
sempre, che forse mi è rimasta addosso perché sono stato il primo a parlare
di lui in Italia. Ma non sono mai stato pienamente d'accordo con le sue
teorie. La mia figura di riferimento, il filosofo che ho studiato per tutta
la vita, è semmai Kant. E poi di padre ne ho avuto solo uno, quello vero,
che se ne è andato presto».

Quando?

«Non so più l'anno, non riesco a ricordarlo. Era ancora abbastanza giovane,
aveva solo 61 anni, ma era stato molto provato dalla vita».

Quindi non ha fatto in tempo a vedere i suoi successi. È un rammarico per
lei non potergli mostrare dove è arrivato?

«No, perché ci sarebbe rimasto male».

Male? Lei è la seconda carica dello Stato.

«Vedermi qui avrebbe smentito tutte le sue certezze, il suo fatalismo immobile,
la sua rassegnazione di classe. Gli avrebbe dimostrato che il suo accontentarsi
di un lavoro qualunque, senza altre ambizioni, era stato un errore. Per
la mia famiglia, che era veramente povera, la sola regola era infatti quella
di fare il proprio dovere. Senza chiedere o pretendere niente. L'unica volta
che osai chiedere qualcosa, mia madre mi diede il primo e ultimo ceffone
della mia vita. Ancora mi brucia».

Che cosa le aveva chiesto?

«Un premio, perché avevo preso un bel voto a scuola. Fu una lezione memorabile.
Non ho più chiesto nulla».

Ma ha ottenuto molto. Come ha fatto?

«Con la testardaggine che mi ha sempre distinto. Volli per esempio andare
alle scuole medie e non a quelle di avviamento professionale, come si usava
allora per chi non poteva proseguire gli studi. Ma bisognava superare un
esame di ammissione con nozioni di latino e analisi logica. Mi aiutarono
dei vicini di casa, che pagarono le ripetizioni. Poi alle medie, aiutai
mio padre a fare, anche lui, un esame per passare dalla condizione di manovale
delle ferrovie a quella di operaio. Alla sera gli davo una mano a scrivere
meglio e a capire le radici quadrate».

È una storia da libro "Cuore".

«È una storia della Lucca degli anni Cinquanta e Sessanta, dove la società
era ancora rigidamente divisa in ceti sociali. Io abitavo fuori dalle mura,
in un quartiere popolare. Dentro le mura c'era la borghesia colta e i benestanti.
Tra loro, un ragazzo un po' più vecchio di me che si chiamava Giuliano Amato.
Lo incontravo spesso in un cineclub che frequentavamo entrambi».

Com'era Giuliano Amato all'epoca?

«Identico ad oggi. Già allora di lui si poteva dire che era "nato imparato".
Ricordo una lunga discussione dopo il film "Sabato sera, domenica mattina»,
affresco memorabile dell'Inghilterra proletaria di quei tempi. Giuliano
diceva che il protagonista, interpretato da Albert Finney, faceva la rivolta
e non la rivoluzione. Io non ero d'accordo sulle categorie in campo. Del
resto, a 17 anni, mi sentivo un buon esperto di cinema e di morale. Specie
dopo l'esperienza de "La dolce vita", che fu per me un momento iniziatico».

Le piacque così tanto?

«Ci fu qualcosa di più del piacere nel mio incontro con il film di Fellini.
Lo vidi molte volte e, nel buio della sala, presi appunti frenetici sul
congegno della storia e sull'ideologia che la ispirava. Credo di poter dire
che "La dolce vita" mi insegnò a pensare e mi spinse a scrivere. Anche se
ciò che scrissi ancora oggi mi imbarazza».

Perché?

«Perché compilai un saccente saggetto sul degrado morale della borghesia,
sulla lascivia del bagno nella fontana e sul mondo in disfacimento di Fellini.
Poi spudoratamente lo inviai a Guido Aristarco, mitico direttore di "Cinema
Nuovo"».

Non ci dica che venne pubblicato.

«Naturalmente no. Dopo qualche tempo Aristarco mi fece pervenire una inevitabile
bocciatura che io, onoratissimo, incorniciai. Ma non mollai. In seguito,
quando avevo già percorso qualche sentiero filosofico, gli mandai un altro
scritto sull'estetica del cinema, che fu pubblicato».

Certo non mancava di iniziativa. Una virtù che ha conservato?

«Penso di sì. È la caratteristica che mi aiutò a lasciare quell'impiego
in banca che, dopo il diploma in ragioneria, avevo dovuto accettare per
aiutare la mia famiglia. Di giorno lavoravo allo sportello dei conti correnti
e di notte studiavo per prendere la maturità classica. Ce la feci in tre
anni. Continuai, da solo, con l'università. Fino alla laurea, a 29 anni,
e al primo incarico accademico che mi aprì altre strade».

Quindi lei è un vero autodidatta. Chi studia da solo fino ai suoi livelli,
ha qualcosa di più o di meno degli altri?

«Ha molto di più. Conosce la determinazione, la fatica e anche la misura
dei propri limiti».

Invece un intellettuale che fa il politico?

«Quello ha parecchie cose in meno rispetto al professionista. Gli manca
la malizia, il cinismo, la capacità di titillare la verità a proprio comodo,
l'amore per il potere».

Mettiamo in pratica: Casini è il politico, lei l'intellettuale.

«Non scherziamo. Casini è più bravo, più bello, più politico, più tutto.
Ho grande ammirazione e anche rispetto per lui».

Lei ogni tanto ha delle uscite strabilianti. Alla fine del discorso di insediamento
al Senato ha gridato "Viva la libertà". Come le è venuto?

«In quel momento ho pensato a Gosti, il mio nonno Costante».

Era un anarchico?

«No, era solo il mio grandissimo nonno, la figura forte della famiglia.
Viveva con noi, cioè eravamo noi a vivere con lui, come si usava nelle famiglie
povere dell'epoca. Quando di notte mi sentivo triste, mi infilavo nel letto
dei nonni, mica in quello dei genitori. Era un operaio, faceva i sigari
nelle manifatture di Lucca e sapeva raccontare storie straordinarie, come
la sua prigionia in Austria durante la prima guerra mondiale, quando lo
misero a spaccare pietre in una cava. Ogni sera alle sei, si inginocchiava
vicino a una sedia, chiamava tutta la famiglia e ci faceva dire il rosario».

Eppure lei sembra un campione di laicismo. Quando ha smesso di essere religioso?


«Non ho mai cominciato. Nonostante i rosari, sono sempre stato un non credente».


Come mai ha caldeggiato il crocefisso nelle aule scolastiche?

«La nostra cultura è stata fecondata dal cristianesimo e quindi il crocefisso
è un simbolo della nostra identità. Ciò non vuol dire che dobbiamo infilare
Dio nella Costituzione europea o inseguire su tutto le posizioni della Chiesa.
Da quando non c'è più la Democrazia cristiana, che era un grande partito
laico, vedo troppi politici che cercano in tutti i modi di lusingare un
eventuale elettorato cattolico».

A proposito di identità dell'Occidente, fu lei a suggerire a Berlusconi
quell'infelice uscita sulla superiorità della nostra cultura?

«Perché me lo chiede?»

Perché il giorno prima, in un'intervista al "Foglio", lei aveva detto le
stesse parole.

«Mi lasci allora la soddisfazione di avere convinto almeno un lettore».

Presidente, lei ha una moglie?

«Certo, si chiama Antonia Tomei. L'ho conosciuta in banca e l'ho sposata
nel '68. Ha continuato a fare la bancaria fino a poco tempo fa. Ora è in
pensione e mi ha seguito a Roma».

E dov'è? Com'è che non la si vede mai?

«Perché è, se possibile, ancora più riservata di me».

Invece è noto che non ha figli. Le dispiace di non lasciare una discendenza?

«Niente affatto. E poiché il mio unico fratello ha due figlie femmine, a
consolazione di chi mi vuole male, posso tranquillamente annunciare la fine
dei Pera».

INES TABUSSO