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L'occhio critico e obiettivo di Sandro Magister in chiesa.com

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    Ratzigirl
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    00 13/03/2007 23:55
    Nella partita d’esordio, Bagnasco batte Scola 2 a 0


    Tra le primissime interviste rilasciate dal nuovo presidente della conferenza episcopale italiana fa spicco quella ad “Avvenire” di domenica 11 marzo.

    Al giornale della CEI, il neopresidente Angelo Bagnasco ha riaffermato quanto già disse mesi fa entrando a Genova come nuovo arcivescovo: “Desidero essere me stesso, senza impegnarmi a ‘copiare’ i miei predecessori”. Che per lui sono stati a Genova il cardinale Tarcisio Bertone e alla CEI il cardinale Camillo Ruini.

    Ma chi si illudesse che il nuovo presidente voglia cambiare rotta e abbassare la guardia metta il cuore in pace. Bagnasco ha promesso “serenità” ma ha subito tradotto: “Mai lo scontro, ma fermezza sui principi. Il papa ci dà l’esempio: garbato nel linguaggio, ma senza cedere su quello che conta”.

    E infatti nell’insieme dell’intervista egli non tace nessuno dei temi scottanti. Mite ma fermo, non arretra di un millimetro dalle posizioni affermate da Benedetto XVI o da Ruini, sempre esprimendosi con rara chiarezza e sinteticità. Leggere per credere. Sullo stesso numero di “Avvenire” c’è l’anticipazione di un libro del cardinale Angelo Scola: “Una nuova laicità, Temi per una società plurale”, Marsilio, pagine 186, euro 15,00. Quanto a chiarezza concettuale e comunicativa tra i due non c’è partita. Bagnasco batte Scola 2 a 0
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    emma3
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    00 15/05/2007 22:27
    Dal Brasile risuona una parola tagliente più di una spada

    Una parola che è una persona: Gesù. Lo stesso al quale Benedetto XVI ha dedicato il libro della sua vita. Per il papa il futuro della Chiesa in America latina e nel mondo è legato all'obbedienza a Lui. E ha sentito il dovere di ricordarlo ai vescovi

    di Sandro Magister

    ROMA, 15 maggio 2007 – Tra i dodici discorsi, omelie, messaggi, saluti pronunciati da Benedetto XVI nei quattro giorni del suo viaggio in Brasile, il più atteso era il discorso inaugurale della quinta conferenza dell'episcopato latinoamericano e dei Caraibi, ad Aparecida.

    Ma il discorso che sarà ricordato in futuro, come il più rivelatore degli obiettivi del papa, è stato un altro. È stato quello da lui rivolto ai vescovi del Brasile nella cattedrale di San Paolo, al termine dei vespri di venerdì 11 maggio .

    È il discorso riprodotto più sotto.

    Il papa lo comincia con parole "più taglienti di una spada": le parole del Nuovo Testamento sull'obbedienza perfetta al Padre di Gesù, salvatore di tutti proprio perché obbediente in tutto, fino alla croce. I vescovi – afferma – sono semplicemente "legati" a questa obbedienza: la loro missione è predicare la verità, battezzare, "salvare le anime una ad una" nel nome di Gesù.

    "Questa, e non altra, è la finalità della Chiesa", sottolinea Benedetto XVI. Quindi, dove latita la verità della fede cristiana e dove i sacramenti non sono celebrati "manca l’essenziale anche per la soluzione degli urgenti problemi sociali e politici".

    Le consegne date dal papa ai vescovi brasiliani nel seguito del discorso discendono tutte da questo fondamento. Il chiaro intento di Benedetto XVI è di ricentrare su Gesù vero Dio e vero uomo la vita della Chiesa latinoamericana: una Chiesa che a suo giudizio, negli ultimi decenni, s'è troppo decentrata sul terreno sociopolitico, sotto l'influsso della teologia della liberazione.

    Per Benedetto XVI, una forte evangelizzazione è la vera risposta agli attacchi alla famiglia, ai delitti contro la vita, all'abbandono del cattolicesimo a vantaggio dei nuovi culti "evangelical" e pentecostali. Anche il celibato del clero vacilla quando "la struttura della totale consacrazione a Dio comincia a perdere il suo significato più profondo". E anche ai poveri va offerto "il balsamo divino della fede, senza trascurare il pane materiale".

    Evangelizzare significa insegnare la verità cristiana integrale, come sintetizzata nel Catechismo. Significa celebrare i sacramenti, specialmente la Confessione e l'Eucaristia: la Confessione non collettiva ma individuale perché "il peccato costituisce un fatto profondamente personale" e l'Eucaristia con fedeltà alle norme perché essa "non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante né della comunità".

    Ai vescovi, il papa chiede di vigilare sulla produzione teologica, di curare la formazione dei preti, di praticare l'ecumenismo senza dimenticare che "l’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui".

    In ciascuna di queste consegne date da Benedetto XVI ai vescovi del Brasile è facile intuire le situazioni che le provocano: dallo sfrenato spontaneismo liturgico alle violazioni diffuse del celibato sacerdotale. Il papa non si è dilungato nel descrivere tali situazioni. Esattamente come non ha pronunciato nessuna parola esplicita – contrariamente alle attese di molti – sulla teologia della liberazione. Anche a un'analisi del successo dei culti pentecostali egli ha dedicato solo minimi cenni. E non ha incontrato nessuno dei leader di questi culti, nemmeno nel fuggevole saluto programmato a San Paolo con i capi di altre confessioni cristiane e religioni.

    Viceversa, Benedetto XVI ha centrato tutta la sua predicazione sul fondamento da cui è partito nel discorso ai vescovi: Gesù. Ha fatto cioè la stessa opera di concentrazione sull'essenziale che caratterizza la sua enciclica "Deus caritas est" e il suo libro "Gesù di Nazaret".

    Le analisi e le linee d'azione le affida ai vescovi e ai delegati della conferenza continentale da lui inaugurata ad Aparecida il 13 maggio. A loro ha semplicemente indicato l'obiettivo.

    Ad esempio, a proposito del "proselitismo aggressivo" dei culti pentecostali, egli non ha proposto una contro-propaganda dello stesso tipo. Ha detto invece, nell'omelia della messa di domenica 13 maggio:

    "La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per 'attrazione'. Come Cristo 'attira tutti a sé' con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce, così la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore".

    È un messaggio che Benedetto XVI rivolge non solo al Brasile o all'America latina, ma alla Chiesa di tutto il mondo.

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    Paparatzifan
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    00 28/06/2007 22:08
    Dal blog di Lella...

    Curia romana: la riforma che non c'è

    Nomine fatte col contagocce. Documenti inutili o continuamente rinviati. Uffici alla deriva. Perché il rinnovo della burocrazia vaticana non è una priorità per Benedetto XVI

    di Sandro Magister

    ROMA, 28 giugno 2007  Lultima grande riforma della curia vaticana la fece Paolo VI nellanno quinto del suo pontificato. Benedetto XVI è nel terzo, ma niente fa presagire che stia preparando qualcosa di simile.

    Le poche nomine sinora fatte in curia da papa Joseph Ratzinger, interpretate da quasi tutti come il preannuncio di una rivoluzione complessiva, sono rimaste quelle che erano: poche e isolate. La più clamorosa delle decisioni iniziali è stata addirittura revocata.

    Essa riguardava il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Il 15 febbraio del 2006 Benedetto XVI lo decapitò. Esiliò al Cairo, come nunzio, il suo presidente, linglese Michael Fitzgerald, giudicato troppo remissivo con lislam. E delegò la direzione del consiglio per il dialogo interreligioso al presidente del consiglio della cultura, il cardinale Paul Poupard.

    Oltre che un raddrizzamento di linea, quasi tutti videro in questa decisione del papa il preludio a una diminuzione di numero degli uffici curiali, eliminandone alcuni, accorpandone altri.

    Il parallelo congedo del cardinale Stephen Fumio Hamao e la conseguente unificazione dellufficio da lui presieduto, il pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, con il consiglio della giustizia e della pace capeggiato dal cardinale Renato Martino parvero confermare questa volontà di sfrondamento.

    Ma le cose non sono andate così. Allinizio di maggio, questanno, i nunzi vaticani nel mondo informarono gli episcopati dei vari paesi che il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso sarebbe ridiventato autonomo e avrebbe riavuto un suo presidente. Questo è stato nominato il 25 giugno nella persona del cardinale Jean-Louis Tauran, già ministro degli esteri con Giovanni Paolo II.

    Quanto al pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, esso resta accorpato con Iustitia et Pax ma continua come prima a macinare simposii e documenti che puntualmente cadono nel dimenticatoio: tutto lopposto dellattesa semplificazione. Lultimo suo prodotto è una specie di catechismo sul codice della strada presentato alla stampa il 19 giugno.

    Joseph Ratzinger ha vissuto in curia 24 anni, prima di essere eletto papa. La conosce più di chiunque altro. Vi arrivò con la diffidenza antiromana tipica dei tedeschi. Ma poi confessò di essersi ricreduto.
    "Una delle cose che a Roma ho capito bene è saper soprassedere", disse in un libro-intervista del 1985. "Saper soprassedere può rivelarsi positivo, può permettere alla situazione di decantarsi, di maturarsi, dunque di chiarirsi".

    Forse è proprio così che Benedetto XVI intende disciplinare la curia. Per le due nomine cruciali di ogni inizio di pontificato, quella del segretario di stato e quella del sostituto, egli ha temporeggiato fino a che le resistenze e le rivalità si sono smorzate per sfinimento.

    Da quando, poi, il segretario di stato è il cardinale Tarcisio Bertone, il papa pare ben felice che lopinione corrente attribuisca non più a lui ma allintraprendente cardinale il compito vero o presunto di riformare la curia.

    Un altro cardinale al quale il papa avrebbe dato mandato di ridisegnare la burocrazia vaticana è Attilio Nicora, presidente dellAPSA, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, nonché sovrintendente del governatorato della Città del Vaticano e dello IOR, Istituto per le Opere di Religione, la banca pontificia.

    Nicora è valido esperto in scienze amministrative, mentre Bertone ha fama di grande organizzatore. Sta di fatto che né luno nè l'altro sono venuti finora a capo di nulla.

    Nel terzo anno di regno, è ormai evidente che sullagenda di Benedetto XVI la riforma della curia non figura tra le priorità.

    Anche a motivo della sua età avanzata papa Ratzinger ha selezionato drasticamente le cose alle quali dedicarsi anima e corpo: in cima a tutte la predicazione, le celebrazioni liturgiche e il libro Gesù di Nazaret, di cui sta già scrivendo il secondo volume, quello sulla passione e risurrezione.

    Su queste sue priorità assolute Benedetto XVI non soprassiede, anzi, si dedica ad esse con passione inesausta, pari alla chiarezza cristallina con cui formula le sue tesi. Sulle questioni controverse che gli stanno a cuore papa Ratzinger non è mai equivoco. Dice chiaramente che cosa è giusto credere e fare: nel campo della liturgia come nel campo nelletica pubblica, ad esempio se fare o no la comunione quando nello stesso tempo si sostiene la liceità dellaborto. Ma alla fine il papa vuole che siano le coscienze a decidere. Più che emettere ordini e comminare sanzioni, mira a educare, a convincere.

    Con una curia indocile, a lui poco amica, Benedetto XVI adotta invece laltro stile: quello, appunto, del saper soprassedere.

    Il nuovo sostituto Fernando Filoni, luomo di curia a più assiduo contatto col papa, è stato insediato il 9 giugno di questanno dopo una lunghissima gestazione che è servita a far rientrare nei ranghi i troppi aspiranti alla carica.

    Non solo le nomine, anche i documenti possono subire ritardi finalizzati a smussare le resistenze.

    La lettera del papa ai cattolici cinesi che era stata promessa per Pasqua è slittata fino allestate, per trovare una formulazione che accontentasse sia i diplomatici realisti, più accondiscendenti con le autorità di Pechino, sia i neoconservatori tipo il cardinale di Hong Kong, Joseph Zen Ze-kiun, molto più battaglieri.

    Un altro documento ripetutamente annunciato ma più volte rinviato è quello che autorizza un uso più largo del messale romano in latino in vigore fino al 1962. Qui gli oppositori sono sia dentro la curia che fuori, e a tutti il papa ha dato ascolto.

    A consigliargli questa cautela preventiva sono anche le bordate di critiche che certe ardite innovazioni di Paolo VI in materia di curia e di conclave continuano a subire a distanza di quarantanni.

    Invece che aggredire lapparato, Benedetto XVI si limita a collocare qua e là nella curia uomini a lui fidati: dal singalese Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, fatto segretario della congregazione per il culto divino, al suo ex braccio destro alla congregazione per la dottrina della fede, Bertone. Oppure a chiamare da fuori personalità di spicco: come il cardinale brasiliano Cláudio Hummes e lex arcivescovo di Bombay Ivan Dias.

    Intanto, però, interi settori curiali continuano ad andare alla deriva, compreso quello nevralgico delle comunicazioni. L'ufficio che dovrebbe occuparsene ha dal 27 giugno un nuovo presidente, Claudio Maria Celli, che ha preso il posto dell'americano John P. Foley, divenuto pro-gran maestro dell'ordine equestre del Santo Sepolcro. Ma il cambio non promette nulla di buono: il pontificio consiglio delle comunicazioni sociali è campione di improduttività e ha la carica di segretario sguarnita da anni. Anche LOsservatore Romano è lombra delle sue glorie passate e si trascina nellattesa di un nuovo direttore che non arriva mai.

    Molto più che le nomine in curia, a Benedetto XVI stanno a cuore le nomine dei vescovi.

    Ad esse egli dedica unattenzione di gran lunga maggiore di quella che a loro dedicava Giovanni Paolo II. Prima di dare il via libera, il papa trattiene sulla propria scrivania anche due, tre settimane i dossier dei designati. E qualche volta li boccia, senza dar spiegazione al competente dicastero curiale presieduto dal cardinale Giovanni Battista Re.

    Papa Ratzinger è molto esigente, vuole vescovi di qualità e non sempre ne trova. Il ritmo delle nomine vescovili è con lui calato di un quarto, rispetto al precedente pontificato.

    Per dire alla curia romana che cosa non doveva essere, Paolo VI la descrisse nel 1967, lanno della sua riforma, come "una burocrazia pretenziosa e apatica, solo canonista e ritualista, una palestra di nascoste ambizioni e di sordi antagonismi".

    Ma nemmeno Benedetto XVI è tenero. Il 7 maggio del 2006, ordinando in San Pietro 15 nuovi preti della diocesi di Roma, nellomelia ricordò che Gesù dice di sé, poco prima di definirsi buon pastore: Io sono la porta. E proseguì:

    "È attraverso di Lui che si deve entrare nel servizio di pastore. Gesù mette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: 'Chi sale da un'altra parte è un ladro e un brigante' (Giovanni 10, 1). Questa parola 'sale'  'anabainei' in greco  evoca l'immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. Nel 'salire' si può quindi vedere anche l'immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare 'in alto', di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l'immagine dell'uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l'immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l'umile servizio di Gesù Cristo. Ma l'unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la vera ascesa, è questa la vera porta".

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    TERESA BENEDETTA
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    00 29/06/2007 00:56
    MI SCUSA, SIGNOR MAGISTER, MA....
    Questa volta, l'occhio critico e un tanto sbagliato e non e del tutto obiettivo pero!

    Va benissimo la seconda parte - che Benedetto ha delle priorita piu importante da preoccuparsi troppo della burocrazia vaticana. Ma non e che non si preoccupa.

    Anzitutto, Magister ha dovuto scrivere qualcosa breve sulle vicende della Curia Romana fin da Pio XII, diciamo, per mostrarci quali sono i problemi piu gravi di questa burocraciza e che hanno tentato di fare tutti i Papi da Giovanni XXIII - e quanto ei sono riusciti o non. Che ha potuto fare Paolo VI dentro 15 anni (secondo Magister, abbia effetuato un 'grade riforma' nel quinto anno del suo Pontificato - ebbene, che e capitato con questa riforma?). E poi, Giovanni Paulo II che ha avuto 23 anni per farlo - che e successo? Giovanni Paulo, chi non tocco la Curia di Paulo VI se non dopo 3 anni del suo Pontificato!

    Se tre Papi nell'arco di 47 anni (ottobre 1958 con Giovanni XXIII all'aprile 2005 con GPII) non hanno potuto fare quasi nulla con la Curia se non creare nuove agenzie, com'e che Benedetto dovesse avuto gia fatto riforme grandi dope 26 mesi?????

    E poi, ci sono piccoli sbagli che mi preoccupa vedere in un giornalista cosi prestigioso:
    1) Ha detto che il Cardinale Hamao e stata congedato- ma non lo e per niente! Ha compiuto 80 anni e si e ritirato!

    2) Quello di dire, "quasi tutti videro in questa decisione del papa il preludio a una diminuzione di numero degli uffici curiali, eliminandone alcuni, accorpandone altri".

    Ma quella e la conclusione che ne hanno attinto i giornalisti soltanto perche le due vicende (il pensionamento di Hamao, il trasferimento a Cairo di Fitzgerald) si sono accaduti quasi insieme, e che, per caso, la consequenza di ambedue e stata nominare il Presidente d'un altro Consiglio a fare il Presidente di un secondo Consiglio [Martino della 'Justitia et Pax', per 'Migranti', e Poupard della 'Cultura' per "Dialogo'].

    Ma infatti, le situazioni non sono state pari. Quella con Martino, sembra che si, e stato un accorpamento. Ma quanto alla 'Cultura' e 'Dialogo - il Cardinal Poupard ha detto a ogni occasione che qualcuno vorrebbe ascoltarlo, che non sono mai accorpato i due consigli, hanno mantenuto ognuno le sue strutture, uffizi e personale proprie, e che il cambiamento era soltanto che lui e presidente delle 2 consigli. [I giornalisti anglofoni sono peggio - dicono additirittura che Benedetto abbia abolito il consiglio per 'Dialogo', e che percio Benedetto 'ancora una volta doveva corrigersi'] - ma che c'e da corrigere se non ha mai fatto lo che gli attribuiscono?]

    3) Come puo dire Magister su Bertone e Nicora che "Sta di fatto che né l'uno nè l'altro sono venuti finora a capo di nulla"?

    Bertone e stato gia Arcivescovo di Vercelli e poi di Genova; e Magister ha appena detto nel paragrafo precedente che Nicora e "presidente dell'APSA, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, nonché sovrintendente del governatorato della Città del Vaticano e dello IOR, Istituto per le Opere di Religione, la banca pontificia." Adesso sono nullita queste organizzazioni????

    4) E ancora: "Il nuovo sostituto Fernando Filoni, l'uomo di curia a più assiduo contatto col papa....". Da quando avra il Sostituto 'il piu assiduo contatto col Papa' nel Curia? Non lo ha il Segretario di Stato, chi - amico o non del papa - deve avere un'incontro ogni sera con lui?

    Che passa adesso con Magister????




    [Modificato da TERESA BENEDETTA 29/06/2007 01:00]
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    Paparatzifan
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    00 10/07/2007 23:16
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    Compito per l'estate: ristudiare la dottrina sulla Chiesa

    È ciò che prescrive un nuovo documento della congregazione per la dottrina della fede. Ortodossi e protestanti sono avvertiti: la Chiesa cattolica è l'unica in cui sussistono gli "elementi costitutivi essenziali" della Chiesa voluta da Cristo. Perturbazioni in vista, nel dialogo ecumenico

    di Sandro Magister

    ROMA, 10 luglio 2007  Partito ieri per la sua vacanza sulle Alpi, Benedetto XVI ha lasciato un compito alla congregazione per la dottrina della fede: il compito di far ripassare a vescovi, fedeli e soprattutto teologi alcuni punti controversi della dottrina sulla Chiesa, per fugare "errori e ambiguità".

    La congregazione ha assolto a questo compito col documento pubblicato oggi, riportato qui sotto integralmente.

    Il documento è formulato in cinque domande e risposte. Le prime tre ribadiscono che la Chiesa cattolica "governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui" è l'unica che si identifica pienamente con la Chiesa istituita da Gesù Cristo su questa terra.

    La quarta e la quinta risposta spiegano in che misura le Chiese ortodosse d'Oriente e le "comunità ecclesiali" protestanti mancano  le seconde più delle prime  di "elementi costitutivi essenziali" della Chiesa voluta da Cristo.

    Su questi temi, toccati dal Concilio Vaticano II, nei passati decenni "sono scorsi fiumi di inchiostro". La congregazione per la dottrina della fede lo fa notare, in un articolo di commento diffuso assieme al documento di oggi.

    Ma che il documento ottenga di chiudere la discussione, dentro e fuori la Chiesa cattolica, è improbabile. Basti pensare alle polemiche seguite a un precedente documento emesso dalla congregazione per la dottrina della fede con la medesima finalità di fare chiarezza su un punto essenziale dell'insegnamento della Chiesa, la dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000.

    La controversia inciderà soprattutto sul dialogo ecumenico tra cattolici, ortodossi e protestanti. La congregazione per la dottrina della fede ne è consapevole, e lo scrive.

    Ma scrive anche  riflettendo in pieno il pensiero di Benedetto XVI  che "perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre allapertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica".

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    Paparatzifan
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    00 06/09/2007 21:06
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    Nuove tendenze: il ritorno al confessionale

    I segnali sono timidi ma costanti. L'ultimo è venuto da Loreto, dove dodicimila giovani hanno ricevuto il sacramento del perdono, incoraggiati dal papa. E nei seminari ricompaiono i testi su cui studiare i "casi di coscienza"

    di Sandro Magister

    ROMA, 6 settembre 2007 – Nei due giorni dell'incontro tra Benedetto XVI e i giovani accorsi a Loreto in centinaia di migliaia dall'Italia e da molti paesi del mondo, è accaduto un fatto inatteso per intensità e dimensione: un accesso di massa alla confessione sacramentale.

    Tra sabato 1 e domenica 2 settembre, nella grande spianata sotto la cittadina e il santuario della Madonna, 350 sacerdoti hanno confessato ininterrottamente dalle 2 del pomeriggio fino alle 7 del mattino, assediati da dodicimila giovani in attesa di perdono.

    Ma anche prima della venuta del papa il rito della penitenza ha fatto parte per numerosi giovani della preparazione all'evento. I percorsi di pellegrinaggio che convergevano su Loreto comprendevano quasi tutti la tappa della confessione sacramentale. È stato così all'Abbazia di Fiastra, divenuta a momenti un immenso confessionale. È stato così al santuario di Canoscio, sui monti dell'Appennino. Ogni volta con decine e decine di preti impegnati contemporaneamente ad amministrare il sacramento.

    Non si tratta di una novità assoluta. Anche nelle Giornate Mondiali della Gioventù tenute a Roma nel 2000 i giovani si confessarono in gran numero: centoventimila in tre giorni, nell'immenso stadio della Roma pagana, il Circo Massimo, trasformato in confessionale a cielo aperto.

    Ma quella che allora parve una fiammata effimera si è poi rivelata una tendenza duratura. E in espansione, specie nei santuari e nei grandi raduni. Certo, in percentuale le quote di chi tra i giovani cattolici si confessa sono tuttora minime. A Loreto meno del 5 per cento dei presenti. Ma l'inversione di tendenza è in atto, rispetto alla quasi scomparsa, anni fa, della pratica del sacramento.

    E poi, più che i numeri, parlano i segni. Il vedere che tanti giovani si confessano per loro libera scelta, dentro un evento religioso che è sotto l'osservazione di tutti, trasmette il messaggio che la confessione non è più un sacramento in disuso ma torna ad essere praticata ed amata.

    Benedetto XVI risolutamente incoraggia questa ripresa della confessione, specie tra i giovani. È stata sua la scelta di dedicare un intero pomeriggio, il giovedì precedente la scorsa Settimana Santa, alla celebrazione del sacramento della penitenza in San Pietro, scendendo lui stesso nella basilica a guidare la celebrazione, a predicare e a confessare.

    Confessione individuale, non collettiva. Perchè, in effetti, fu questa la prassi che si diffuse spontaneamente all'indomani del Concilio Vaticano II, soprattutto in Centroeuropa, nel Nordamerica, in America latina, in Australia: quella di impartire assoluzioni generali a interi gruppi di fedeli, dopo un loro "mea culpa" altrettanto collettivo.

    Questo non è mai stato l'indirizzo di Roma. L'unica assoluzione collettiva autorizzata – anche dopo l'aggiornamento del rito nel 1974 – è in pericolo di morte, ad esempio per un battaglione in guerra, oppure in assenza drammatica di sacerdoti rispetto al numero dei penitenti presenti; sempre però con l'obbligo a chi ha beneficiato dell'assoluzione collettiva di presentarsi "quanto prima, massimo entro un anno" da un sacerdote, per confessargli individualmente i propri peccati gravi.

    Nonostante ciò, la pratica dell'assoluzione collettiva è continuata in numerose diocesi del globo. L'intento dichiarato dei suoi promotori, anche vescovi, era di salvare il sacramento da un abbandono in massa. Ma il risultato fu proprio di accelerare tale abbandono.

    Anche nei seminari e nelle facoltà teologiche la confessione collettiva ha avuto e ha i suoi fautori. Un teologo moralista che se ne è fatto paladino è Domiciano Fernandez, spagnolo, claretiano, in un libro stampato in Italia dall'editrice Queriniana, "Dio ama e perdona senza condizioni", con la prefazione partecipe del liturgista Rinaldo Falsini, francescano.

    Il calo della pratica di questo sacramento è andato di pari passo, nei seminari, con l'abbandono di un insegnamento mirato alla preparazione pratica di buoni confessori. Da alcuni decenni i "casi di coscienza" hanno cessato di essere materia di studio.

    Anche qui, però, vi sono oggi dei segnali di inversione di tendenza. Questa estate è uscito in Italia, edito da Ares, un libro di uno stimato teologo moralista, Lino Ciccone, consultore del pontificio consiglio per la famiglia, dal titolo: "L'inconfessabile e l'inconfessato. Casi e soluzioni di 30 problemi di coscienza".

    Come il titolo fa intuire, nel libro sono elencati 30 "casi di coscienza", seguiti da altrettante linee di soluzione. I casi, molto calati nella vita reale, spaziano dall'aborto alla pratica omosessuale, dal divorzio alla corruzione finanziaria. Il volume è espressamente scritto per chi si prepara al sacerdozio, come "libro di esercizi" da affiancare ai testi di morale generale.
    Ma vale anche per chi è già sacerdote e già confessa. E ha in animo di confessare di più e meglio.

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    Paparatzifan
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    00 12/09/2007 22:48
    Dal blog di Lella...

    Da Vienna una lezione. Su come cantar messa

    La polifonia di Haydn e le antifone gregoriane del messale antico hanno accompagnato la messa del papa nella capitale dell'Austria, tutta celebrata con lo "sguardo verso Dio". Un modello per le liturgie cattoliche di rito latino, in tutto il mondo

    di Sandro Magister

    ROMA, 12 settembre 2007 – Tra le molte cose dette e fatte da Benedetto XVI nei suoi due viaggi d'inizio settembre, a Loreto e in Austria, ve ne sono due che contrassegnano in modo inconfondibile il suo pontificato.

    Entrambe hanno a che fare con la visibilità della Chiesa, con la sua capacità di comunicare: non se stessa ma "le cose di lassù".

    A Loreto, nella veglia di sabato 1 settembre, il papa ha mostrato come intende farsi visibile e udibile al mondo, in particolare al mondo dei giovani.

    In Austria, con la messa nella cattedrale di Vienna di domenica 9 settembre, Benedetto XVI ha fatto capire come vuole che la Chiesa appaia agli uomini, nel suo momento più alto di riconoscibilità: la celebrazione dell'eucaristia.


    * * *

    A Loreto, la veglia con i giovani venuti dall'Italia e dal mondo si è svolta in due tempi: il primo, nel pomeriggio, di riflessione e di preghiera; il secondo, in serata, tipicamente musicale, con celebri stelle della canzone.

    Questa serata musicale, trasmessa in diretta dal primo canale della televisione di stato italiana, era ideata da Bibi Ballandi, manager di artisti famosi e grande organizzatore di eventi televisivi, lo stesso che nel 1997, in un'analoga serata durante il congresso eucaristico internazionale di Bologna, aveva portato Bob Dylan e Adriano Celentano a cantare davanti a Giovanni Paolo II, presente sul palco per l'intera durata dello spettacolo.

    Questa volta, a Loreto, c'erano Claudio Baglioni, Lucio Dalla e il gruppo rock "Vibrazioni". Non c'era però il papa. Mentre i cantanti facevano spettacolo, lui era ritirato in preghiera nel santuario, davanti alla reliquia della Santa Casa di Nazaret.

    Nel corso della serata un solo collegamento televisivo ha mostrato il papa, per pochi minuti. Lo ha mostrato in ginocchio davanti alla statua della Madonna col bambino Gesù, mentre devotamente leggeva una preghiera.

    Da Joseph Ratzinger c'era da aspettarselo. Su quanto era accaduto nel 1997 al congresso eucaristico di Bologna egli aveva reso noto il suo disaccordo in uno scritto pubblicato l'anno seguente: "Bob Dylan e gli altri avevano un messaggio completamente diverso da quello per cui il papa si impegna"; e quindi "c'era ragione di dubitare se davvero fosse giusto far intervenire questo genere di profeti", portatori di un messaggio "invecchiato e povero" se appena messo a confronto con quello comunicato dal papa.

    Benedetto XVI, a Loreto, ha invece partecipato di persona all'incontro pomeridiano con i giovani, organizzato dai responsabili per la pastorale giovanile della conferenza episcopale italiana.

    Anche qui, però, con un suo distacco evidente dal copione. Da un lato c'erano dei giovani attori che si avvicendavano a recitare con bravura teatrale, ma pur sempre artefatta, i brani predisposti dalla regia, molti dei quali tratti dalla Bibbia. Dall'altro lato c'era il papa che metteva da parte i testi preparati per lui dagli uffici della curia e rispondeva alle domande dei giovani con parole spontanee, improvvisate, inconfondibilmente sue, ma anche per questo capaci di penetrare nei cuori.

    Mentre egli parlava e diceva cose profonde, impegnative, toccanti, il silenzio e l'attenzione dei trecentomila giovani che l'ascoltavano erano impressionanti.

    Benedetto XVI non appariva comunque isolato. Erano in piena sintonia con lui i giovani e le giovani che raccontavano le loro storie di vita, alcune drammatiche, e gli ponevano domande. Era con lui il missionario Giancarlo Bossi, da poco liberato da un sequestro ad opera di islamici nelle Filippine. Padre Bossi ha detto poche e semplici cose: ma capaci di far capire a tutti cosa vuol dire essere un genuino missionario del Vangelo di Gesù, e non un operatore sociale o un attivista no global.


    * * *

    Altra musica anche a Vienna, letteralmente. Con la messa celebrata nella cattedrale di Santo Stefano domenica 9 settembre Benedetto XVI ha ridato vita a una tradizione musicale e liturgica che era rimasta interrotta da molti decenni.

    A memoria d'uomo, infatti, l'ultima celebrazione papale accompagnata dall'esecuzione integrale – Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei – di una grande messa polifonica risale al lontano 1963. Quella messa fu celebrata in San Pietro e l'autore prescelto fu Giovanni Pierluigi da Palestrina, caposcuola della polifonia romana del Cinquecento.

    Questa volta la messa è stata celebrata a Vienna e l'autore è stato giustamente l'austriaco Franz Joseph Haydn: con la stupenda "Mariazeller Messe" del 1782, per coro, soli e orchestra.

    Anche il canto gregoriano ha fatto una ricomparsa importante nella messa papale del 9 settembre. Durante la comunione il coro ha cantato più volte l'antifona "Vovete", propria di questa domenica nel messale di rito antico, alternata a versetti del salmo 75 anch'essi cantati in latino: "Offrite voti e scioglieteli al Signore vostro Dio, voi tutti che intorno a Lui vi avvicendate con doni: a Lui, terribile, che dispone della vita dei principi, che incute timore ai re della terra".

    Un critico musicale avrebbe promosso a pieni voti la splendida esecuzione, diretta da Markus Landerer, maestro di cappella del duomo di Vienna. Ma di una messa si è trattato, non di un concerto. E Benedetto XVI ha impartito a questo proposito una chiara lezione, in due successivi momenti della giornata.

    All'Angelus, pochi minuti dopo il termine della messa, ha così esordito:

    "È stata per me, questa mattina, un’esperienza particolarmente bella poter celebrare con tutti voi il giorno del Signore in modo così degno nel magnifico duomo di Santo Stefano. Il rito eucaristico realizzato col dovuto decoro ci aiuta a prendere coscienza dell’immensa grandezza del dono che Dio ci fa nella santa messa. Proprio così ci avviciniamo anche a vicenda e sperimentiamo la gioia di Dio. Sono grato pertanto a quanti, mediante il loro contributo attivo alla preparazione ed allo svolgimento della liturgia o anche mediante la loro partecipazione raccolta ai santi misteri, hanno creato un’atmosfera in cui la presenza di Dio era veramente percepibile".

    E nel pomeriggio, nel monastero di Heiligenkreutz dove ogni giorno 80 monaci cistercensi celebrano l'ufficio divino in puro gregoriano e integralmente in latino, ha detto:

    "Nella bellezza della liturgia, [...] là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità. [...] In ogni forma di impegno per la liturgia criterio determinante deve essere sempre lo sguardo verso Dio. Noi stiamo davanti a Dio: Egli ci parla e noi parliamo a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è opus Dei, opera di Dio, con Dio come specifico soggetto, o non è. In questo contesto io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini".

    Ha detto ancora Benedetto XVI ai monaci di Heiligenkreutz: "Una liturgia che dimentica lo sguardo a Dio è, come tale, al lumicino". Haydn, cattolico di profonda spiritualità, non era lontano da questa visione del bello nella liturgia cristiana quando annotava al termine di ogni sua composizione musicale: "Laus Deo", lode a Dio.

    Quando nel Credo della "Mariazeller Messe" il solista intona l'"Et incarnatus est" e nel Sanctus si canta il "Benedictus" lì davvero irrompono lampi di eternità. La grande musica liturgica comunica più di mille parole il mistero di "Colui che viene nel nome del Signore", del Verbo che si fa carne, del pane che si fa corpo di Gesù.

    La liturgia che ha ispirato a Haydn – come ad altri grandi compositori cristiani – queste melodie sublimi, scintillanti di teologica letizia, era quella antica, tridentina: tutto l'opposto di quel "senso di chiuso" a cui taluni l'associano. È la liturgia che Benedetto XVI ha voluto preservare nelle sue ricchezze col motu proprio "Summorum Pontificum", del 7 luglio 2007, assieme al rito moderno da lui osservato nella messa di Vienna.

    Dilatate in mondovisione, le messe papali sono un paradigma per le liturgie della Chiesa latina in tutto il mondo.

    Quella di Vienna del 9 settembre ha voluto esserlo in un modo particolare. E Benedetto XVI l'ha rimarcato.

    Peccato che delle peculiarità di questa messa hanno fatto scempio talune reti televisive incaricate di ritrasmetterla. Nella diretta della televisione italiana di stato, ad esempio, le melodie gregoriane della comunione sono state trattate come immeritevoli d'ascolto. Sostituite da un vacuo chiacchiericcio sulle presunte "grandi questioni" della Chiesa e dell'Austria.

    In Vaticano, l'evento liturgico di Vienna sarà seguito tra breve dalla sostituzione del maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie. Prenderà il posto di Piero Marini – che andrà a presiedere il pontificio comitato per i congressi eucaristici internazionali – l'attuale cerimoniere dell'arcidiocesi di Genova, Guido Marini. Vicino al predecessore nel nome, ma a papa Ratzinger nella sostanza.

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    [Modificato da Paparatzifan 12/09/2007 22:49]
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    00 03/10/2007 22:00
    Dal blog di Lella...

    In Olanda inventano un'altra messa. Col copyright dei domenicani

    La sperimentazione è già in corso. Al posto del prete ci sono uomini e donne designati dai fedeli. E tutti assieme pronunciano le parole della consacrazione, anch'esse variate a volontà. A giudizio dei domenicani olandesi, è questo ciò che vuole il Concilio Vaticano II

    di Sandro Magister

    ROMA, 3 ottobre 2007 – Nel ridare piena cittadinanza al rito antico della messa, con il motu proprio “Summorum Pontificum”, Benedetto XVI ha detto di voler reagire anche a quell'eccesso di "creatività" che nel rito nuovo "ha portato spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile".

    Stando a quel che accade in alcune aree della Chiesa, questa creatività incide non solo sulla liturgia ma sugli stessi fondamenti della dottrina cattolica.

    In Olanda, a Nimega, nella chiesa dei frati agostiniani, ogni domenica la messa è presieduta assieme da un protestante e da un cattolico, che a turno curano uno la liturgia della Parola e il sermone, l’altro la liturgia eucaristica. Il cattolico è quasi sempre un semplice laico, e spesso è una donna. Per la preghiera eucaristica, ai testi del messale si preferiscono i testi composti dall’ex gesuita Huub Oosterhuis. Il pane e il vino sono condivisi da tutti.

    Nessun vescovo ha mai autorizzato questa forma di celebrazione. Ma padre Lambert van Gelder, uno degli agostiniani che la promuove, è sicuro d'essere nel giusto: "Nella Chiesa sono possibili diverse forme di partecipazione, noi siamo parte della comunità ecclesiale a tutti gli effetti. Non mi considero affatto scismatico".

    Sempre in Olanda, i domenicani hanno fatto di più, con il consenso dei provinciali dell'ordine. Due settimane prima dell'entrata in vigore del motu proprio "Summorum Pontificum" hanno distribuito in tutte le 1300 parrocchie cattoliche un opuscolo di 38 pagine intitolato “Kerk en Ambt”, Chiesa e ministero, nel quale propongono di trasformare in regola generale ciò che in vari luoghi già si pratica spontaneamente.
    La proposta dei padri domenicani è che, in mancanza di un prete, sia una persona scelta dalla comunità a presiedere la celebrazione della messa: “Non fa differenza che sia uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe”. La persona prescelta e la comunità sono esortati a pronunciare insieme le parole dell'istituzione dell'eucaristia: “Pronunciare queste parole non è una prerogativa riservata al prete. Tali parole costituiscono la consapevole espressione di fede dell’intera comunità”.

    L'opuscolo si apre con l'esplicita approvazione dei superiori della provincia olandese dell'ordine dei frati predicatori e dedica le prime pagine a una descrizione di ciò che accade di domenica nelle chiese d'Olanda.
    Per la scarsità di preti, non in tutte le chiese si celebra la messa. Dal 2002 al 2004 il numero complessivo delle messe domenicali in Olanda è calato da 2200 a 1900. Viceversa, nello stesso periodo è aumentato da 550 a 630 il numero dei "servizi di Parola e comunione": cioè le liturgie sostitutive, senza il prete e quindi senza celebrazione sacramentale, nelle quali la comunione si fa con ostie consacrate in precedenza.
    In alcune chiese la distinzione tra la messa e il rito sostitutivo è percepita con chiarezza dai fedeli. Ma in altre no, le due cose sono considerate di eguale valore, interscambiabili in tutto. Anzi, il fatto che sia un gruppo di fedeli a designare l'uomo o la donna che guida la liturgia sostitutiva consolida negli stessi fedeli l'idea che la loro scelta "dal basso" sia più importante dell'invio di un sacerdote da fuori e "dall'alto".
    E lo stesso accade per la formulazione delle preghiere e per l'ordinamento del rito. Si preferisce dar libero campo alla creatività. Le parole della consacrazione, nella messa, sono spesso sostituite da "espressioni più facili da capire e più in sintonia con la moderna esperienza di fede". Nel rito sostitutivo, capita di frequente che alle ostie consacrate si aggiungano ostie non consacrate e si distribuiscano tutte assieme per la comunione.
    In questi comportamenti i domenicani olandesi individuano tre aspettative diffuse:

    – che siano scelti "dal basso" gli uomini e le donne ai quali affidare la presidenza della celebrazione eucaristica;

    – che auspicabilmente "la scelta di queste persone sia seguita da una conferma, o benedizione, o ordinazione da parte dell'autorità della Chiesa";

    – che le parole della consacrazione "siano pronunciate sia da coloro che presiedono l'eucaristia, sia dalla comunità di cui essi sono parte".

    A giudizio dei domenicani olandesi, queste tre aspettative hanno pieno fondamento nel Concilio Vaticano II.

    La mossa decisiva del Concilio, a loro giudizio, è stata quella di introdurre nella costituzione sulla Chiesa il capitolo sul "popolo di Dio" prima di quello su "l'organizzazione gerarchica costituita dall'alto al basso dal papa e dai vescovi".
    Questo implica sostituire a una Chiesa "piramide" una Chiesa "corpo", con il laicato protagonista.
    E questo implica anche una visione diversa dell'eucaristia.

    L'idea che la messa sia un "sacrificio" – sostengono i domenicani olandesi – è anch'essa legata a un modello "verticale", gerarchico, nel quale solo il sacerdote può pronunciare validamente le parole della consacrazione. Un sacerdote maschio e celibe, come prescritto da "un'antiquata teoria della sessualità".

    Dal modello della Chiesa "popolo di Dio" deriva invece una visione dell'eucaristia più libera e paritaria: come semplice "condivisione del pane e del vino tra fratelli e sorelle in mezzo a cui c'è Gesù", come "tavola aperta anche a gente di differenti tradizioni religiose".
    L'opuscolo dei domenicani olandesi termina esortando le parrocchie a scegliere "dal basso" le persone alle quali far presiedere l'eucaristia. Se per motivi disciplinari il vescovo non confermasse tali persone – perché sposate, o perché donne – le parrocchie procedano ugualmente per la loro strada: "Sappiano che esse sono comunque abilitate a celebrare una reale e genuina eucaristia ogni volta che si riuniscono in preghiera e condividono il pane e il vino".
    Gli autori dell'opuscolo sono i padri Harrie Salemans, parroco a Utrecht, Jan Nieuwenhuis, già direttore del centro ecumenico dei domenicani di Amsterdam, André Lascaris e Ad Willems, già professore di teologia all'università di Nimega.
    Nella bibliografia da essi citata spicca un altro, più famoso teologo domenicano olandese, Edward Schillebeeckx, 93 anni, che negli anni Ottanta finì sotto l’esame della congregazione per la dottrina della fede per tesi vicine a quelle ora confluite nell’opuscolo.
    La conferenza episcopale olandese si riserva di replicare ufficialmente. Ma ha già fatto sapere che la proposta dei domenicani appare “in conflitto con la dottrina della Chiesa cattolica”.

    Da Roma, la curia generalizia dei frati predicatori ha reagito flebilmente. In un comunicato del 18 settembre – non pubblicato nel sito dell'ordine – ha definito l'opuscolo una "sorpresa" e ha preso le distanze dalla "soluzione" proposta. Ma ha detto di condividere "l'inquietudine" dei confratelli olandesi sulla scarsità di preti: "Può darsi che sentano che l'autorità della Chiesa non abbia trattato sufficientemente questa questione e, di conseguenza, spingano per un dialogo più aperto. [...] Crediamo che a questa inquietudine si debba rispondere con una riflessione teologica e pastorale prudente tra la Chiesa intera a l'ordine domenicano".
    Dall'Olanda, i domenicani hanno annunciato una prossima ristampa dell'opuscolo, le cui prime 2500 copie sono andate presto esaurite.

    Il testo integrale dell'opuscolo, in traduzione inglese:

    > The Church and the Ministry

    Gli sviluppi della vicenda, in lingua olandese, nel sito dei domenicani d'Olanda:

    > Dominicaans Nederland - Nieuws

    Delle questioni sollevate dai domenicani olandesi ha trattato il sinodo dei vescovi del 2005 sull'eucaristia, traendo indicazioni radicalmente diverse.
    Nell'esortazione apostolica postsinodale "Sacramentum caritatis" Benedetto XVI ha dedicato alle "assemblee domenicali in assenza di sacerdote" il paragrafo 75. Eccolo:

    "Riscoprendo il significato della Celebrazione domenicale per la vita del cristiano, è spontaneo porsi il problema di quelle comunità cristiane in cui manca il sacerdote e dove, di conseguenza, non è possibile celebrare la santa Messa nel Giorno del Signore. Occorre dire, a questo proposito, che ci troviamo di fronte a situazioni assai diversificate tra loro. Il Sinodo ha raccomandato innanzitutto ai fedeli di recarsi in una delle chiese della Diocesi in cui è garantita la presenza del sacerdote, anche quando ciò richiede un certo sacrificio. Là dove, invece, le grandi distanze rendono praticamente impossibile la partecipazione all'Eucaristia domenicale, è importante che le comunità cristiane si radunino ugualmente per lodare il Signore e fare memoria del Giorno a Lui dedicato. Ciò dovrà tuttavia avvenire nel contesto di un'adeguata istruzione circa la differenza tra la santa Messa e le assemblee domenicali in attesa di sacerdote. La cura pastorale della Chiesa si deve esprimere in questo caso nel vigilare perché la liturgia della Parola, organizzata sotto la guida di un diacono o di un responsabile della comunità al quale tale ministero sia stato regolarmente affidato dall'autorità competente, si compia secondo un rituale specifico elaborato dalle Conferenze episcopali e a tale scopo da esse approvato. Ricordo che spetta agli Ordinari concedere la facoltà di distribuire la comunione in tali liturgie, valutando attentamente la convenienza di una certa scelta. Inoltre, si deve fare in modo che tali assemblee non ingenerino confusione sul ruolo centrale del sacerdote e sulla componente sacramentale nella vita della Chiesa. L'importanza del ruolo dei laici, che vanno giustamente ringraziati per la loro generosità al servizio delle comunità cristiane, non deve mai occultare il ministero insostituibile dei sacerdoti per la vita della Chiesa. Pertanto, si vigili attentamente a che le assemblee in attesa di sacerdote non diano adito a visioni ecclesiologiche non aderenti alla verità del Vangelo e alla tradizione della Chiesa. Piuttosto dovrebbero essere occasioni privilegiate di preghiera a Dio perché mandi santi sacerdoti secondo il suo cuore. Toccante, a questo proposito, quanto scriveva il Papa Giovanni Paolo II nella Lettera ai Sacerdoti per il Giovedì Santo 1979, ricordando quei luoghi dove la gente, privata del sacerdote da parte del regime dittatoriale, si riuniva in una chiesa o in un santuario, metteva sull'altare la stola ancora conservata e recitava le preghiera della liturgia eucaristica fermandosi in silenzio 'al momento che corrisponde alla transustanziazione', a testimonianza di quanto 'ardentemente essi desiderano di udire le parole che solo le labbra di un sacerdote possono efficacemente pronunciare'. Proprio in questa prospettiva, considerato il bene incomparabile derivante dalla celebrazione del Sacrificio eucaristico, chiedo a tutti i sacerdoti una fattiva e concreta disponibilità a visitare il più spesso possibile le comunità affidate alla loro cura pastorale, perché non rimangano troppo tempo senza il Sacramento della carità".

    Per una lettura complessiva dell'esortazione postsinodale "Sacramentum caritatis" vedi in www.chiesa:

    > "Sacramentum caritatis": alla domenica tutti alla messa (14.3.2007)

    www.chiesa


    Questo si chiama "Chiesa fai da te"? Sì, è proprio così!!! I vescovi non autorizzano però lasciano fare. Perché? [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826] [SM=g27826]


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    00 08/10/2007 23:18
    Dal blog di Lella...

    Gli Angelus sconosciuti di papa Benedetto

    Sconosciuti nel senso che i media li ignorano in ciò che sono principalmente: la spiegazione del Vangelo della messa del giorno. All'infuori dei presenti, quasi nessuno lo sa. Eccone un assaggio: le ultime sette "piccole omelie" papali della domenica mezzogiorno

    di Sandro Magister

    ROMA, 8 ottobre 2007 – Le parole che Benedetto XVI pronuncia ogni domenica mezzogiorno prima e dopo la preghiera dell'Angelus – nel tempo pasquale il "Regina Coeli" – sono tra le più seguite dai media.
    Quasi sempre, però, i media rilanciano, delle parole del papa, solo quelle che hanno attinenza con situazioni od eventi di attualità, specie politici.
    Ad esempio, domenica 30 settembre, la Birmania, le due Coree e l'Africa subsahariana. La domenica precedente i giudizi sul capitalismo e la "logica del profitto". La domenica precedente ancora il protocollo di Montreal sul buco dell'ozono...

    Da ciò che dicono e scrivono i media, gli ascoltatori e i lettori ricavano l'impressione che il papa abbia dedicato l'intero suo messaggio al tema citato.
    Ma non è così. Quasi sempre alle questioni d'attualità poi enfatizzate dai media Benedetto XVI dedica solo pochi rapidi cenni, nei saluti in più lingue che rivolge ai fedeli terminata la preghiera dell'Angelus.

    Il vero e proprio messaggio è prima della preghiera. Ed è – salvo rare eccezioni – una breve omelia sul Vangelo e le altre letture della messa del giorno.
    È questa piccola omelia ciò che principalmente ascoltano i fedeli che accorrono ogni volta numerosi all'appuntamento di domenica mezzogiorno col papa, a Roma in piazza San Pietro e d'estate a Castel Gandolfo.
    Sono testi inconfondibilmente pensati e scritti da papa Joseph Ratzinger. In alcuni casi è facile notare delle similitudini con il suo libro "Gesù di Nazaret", là dove questo parla del medesimo brano del Vangelo.

    Come nelle catechesi del mercoledì Benedetto XVI sta descrivendo man mano la vita della Chiesa impersonata dagli Apostoli ai Padri, così negli Angelus della domenica egli presenta ai fedeli la figura di Gesù.

    Ma c'è di più. La via scelta ogni domenica dal papa per accedere a Gesù è la stessa che ogni fedele cattolico percorre partecipando alla messa di quella stessa domenica.
    È una scelta chiaramente voluta, tipica della visione di questo papa. Il Vangelo commentato da Benedetto XVI all'Angelus non è "sola Scriptura", non è un libro nudo. È il Verbo che prende carne – il corpo e il sangue di Gesù – nella liturgia del giorno.

    Per elevare a livelli accettabili la qualità media dei milioni di omelie pronunciate ogni domenica in tutto il mondo, i preti cattolici non avrebbero di meglio che mettersi alla scuola degli Angelus di Benedetto XVI.

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    00 09/10/2007 14:40
    Re: Dal blog di Lella...
    Paparatzifan, 08/10/2007 23.18:


    Gli Angelus sconosciuti di papa Benedetto

    Sconosciuti nel senso che i media li ignorano in ciò che sono principalmente: la spiegazione del Vangelo della messa del giorno. All'infuori dei presenti, quasi nessuno lo sa. Eccone un assaggio: le ultime sette "piccole omelie" papali della domenica mezzogiorno

    di Sandro Magister

    ROMA, 8 ottobre 2007 – Le parole che Benedetto XVI pronuncia ogni domenica mezzogiorno prima e dopo la preghiera dell'Angelus – nel tempo pasquale il "Regina Coeli" – sono tra le più seguite dai media.
    Quasi sempre, però, i media rilanciano, delle parole del papa, solo quelle che hanno attinenza con situazioni od eventi di attualità, specie politici.
    Ad esempio, domenica 30 settembre, la Birmania, le due Coree e l'Africa subsahariana. La domenica precedente i giudizi sul capitalismo e la "logica del profitto". La domenica precedente ancora il protocollo di Montreal sul buco dell'ozono...

    Da ciò che dicono e scrivono i media, gli ascoltatori e i lettori ricavano l'impressione che il papa abbia dedicato l'intero suo messaggio al tema citato.
    Ma non è così. Quasi sempre alle questioni d'attualità poi enfatizzate dai media Benedetto XVI dedica solo pochi rapidi cenni, nei saluti in più lingue che rivolge ai fedeli terminata la preghiera dell'Angelus.

    Il vero e proprio messaggio è prima della preghiera. Ed è – salvo rare eccezioni – una breve omelia sul Vangelo e le altre letture della messa del giorno.
    È questa piccola omelia ciò che principalmente ascoltano i fedeli che accorrono ogni volta numerosi all'appuntamento di domenica mezzogiorno col papa, a Roma in piazza San Pietro e d'estate a Castel Gandolfo.
    Sono testi inconfondibilmente pensati e scritti da papa Joseph Ratzinger. In alcuni casi è facile notare delle similitudini con il suo libro "Gesù di Nazaret", là dove questo parla del medesimo brano del Vangelo.

    Come nelle catechesi del mercoledì Benedetto XVI sta descrivendo man mano la vita della Chiesa impersonata dagli Apostoli ai Padri, così negli Angelus della domenica egli presenta ai fedeli la figura di Gesù.

    Ma c'è di più. La via scelta ogni domenica dal papa per accedere a Gesù è la stessa che ogni fedele cattolico percorre partecipando alla messa di quella stessa domenica.
    È una scelta chiaramente voluta, tipica della visione di questo papa. Il Vangelo commentato da Benedetto XVI all'Angelus non è "sola Scriptura", non è un libro nudo. È il Verbo che prende carne – il corpo e il sangue di Gesù – nella liturgia del giorno.

    Per elevare a livelli accettabili la qualità media dei milioni di omelie pronunciate ogni domenica in tutto il mondo, i preti cattolici non avrebbero di meglio che mettersi alla scuola degli Angelus di Benedetto XVI.

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    Paparatzifan
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    00 29/11/2007 23:38
    Dal blog di Lella...

    "L'Osservatore Romano" messo a nuovo. Tutti i cambiamenti

    Più interviste. Più spazio alle donne. Collaboratori anche non cattolici. Notizie internazionali e sulla vita delle Chiese e delle religioni. Grandi temi di cultura. Per far pensare e discutere anche fuori dei confini cattolici

    di Sandro Magister

    ROMA, 29 novembre 2007 – Ai cardinali di tutto il mondo riuniti a porte chiuse col papa, nel concistoro di venerdì 23 novembre, il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone ha raccomandato più di tutto una cosa: leggere “L’Osservatore Romano”. E lo stesso ha fatto con i commensali di una cena di festeggiamento per un neoporporato, la sera di domenica 25.
    Da un mese “L’Osservatore Romano” ha un nuovo direttore, il professor Giovanni Maria Vian, 55 anni, specialista in letteratura cristiana antica e in storia della Chiesa. E da un mese l’editore di questo stesso giornale dà segno di tenere moltissimo al suo rilancio.

    Il primo editore è il papa. Giovedì 8 novembre, gesto raro per lui, Benedetto XVI ha invitato a pranzo Vian e il suo vice Carlo Di Cicco, anch’egli nominato di fresco, sorseggiando con loro al dessert un bicchierino di Porto, altro segno di confidenza.

    Ma dopo il grande azionista, il papa, c’è l’amministratore delegato, Bertone. La consegna che il segretario di stato ha dato a Vian e Di Cicco fin dallo scorso inverno, quando la loro nomina l’aveva già decisa, è stata di imprimere a “L’Osservatore Romano” una svolta netta, appena insediati al comando.
    Infatti. Da domenica 28 ottobre “L’Osservatore Romano” ha di colpo cambiato faccia.
    Meno pagine e più testo. Da 12 o 16 che erano, le pagine sono calate a 8, mentre il testo è aumentato del 10 per cento. L’impaginato s’è fatto sobrio ed elegante, e lo sarà ancora di più con una nuova riforma grafica che è allo studio. Sono spariti i titoli cubitali e le foto a tutta pagina delle ultime annate.
    La scansione è più ordinata: in prima e ultima pagina le parole del papa e i grandi avvenimenti, con una nota di commento e i comunicati ufficiali. In seconda e terza la politica internazionale, Italia compresa. In quarta e quinta la cultura. In sesta e settima i fatti della Chiesa cattolica nel mondo, delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni.

    Azzerate le precedenti collaborazioni e rubriche, sono nuove anche le firme dei commentatori esterni. Non tutti cattolici. L’ebrea Anna Foa, ad esempio, docente di storia all’Università di Roma “La Sapienza”, è intervenuta su un tema scottante, sul perché centinaia di migliaia di arabi abbandonarono le terre occupate da Israele nella prima guerra del 1948.

    Un’altra novità sono i commenti in prima pagina affidati a donne: la giurista Patrizia Clementi, la femminista non cattolica Eugenia Roccella, la storica Lucetta Scaraffia. Quest’ultima, con fortunata premonizione, in un suo articolo ha dato rilievo alle tesi di una docente di diritto internazionale a Harvard, Mary Ann Glendon, designata pochi giorni dopo nuova ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede.

    L’ambizione dichiarata del nuovo direttore Vian è di far scrivere su “L’Osservatore Romano” intellettuali di prim’ordine “che sappiano far pensare e discutere anche fuori del perimetro della Chiesa”.
    Il biblista Gianfranco Ravasi, neopresidente del pontificio consiglio della cultura, è uno di questi. Poi c’è il grande specialista di letteratura cristiana antica Manlio Simonetti, un’autorità mondiale nell’affrontare questioni come il rapporto tra i Vangeli canonici e gli scritti apocrifi e gnostici, oggi tornati prepotentemente di moda. Poi c’è Inos Biffi, impareggiabile conoscitore della teologia medievale. Poi ci sono le stelle emergenti della curia ratzingeriana: Nicola Bux e l’anglotedesco Uwe Michael Lang. Poi c’è Valentino Miserachs Grau, preside del pontificio istituto di musica sacra, una cui requisitoria contro i moderni disastri musicali e a difesa del canto gregoriano ha occupato un’intera pagina dell’”Osservatore”.

    Il frequente uso dell’intervista è un’altra novità introdotta da Vian.

    Ha fatto colpo quella al metropolita Cirillo, numero due della Chiesa ortodossa russa, insolitamente benevolo con la Chiesa di Roma. Così come ha sorpreso il commento di prima pagina affidato al protestante francese Jean-Arnold de Clermont, presidente della Conferenza delle Chiese europee, alla vigilia del concistoro dei cardinali che dovevano discutere proprio di ecumenismo.
    Altri articoli hanno avuto per autori esponenti delle Chiese ortodosse. Così come l’onore della prima pagina è andato a una personalità di confine: fratel Alois Loser, priore della comunità ecumenica internazionale di Taizé.

    La segreteria di stato fornisce a “L’Osservatore” i comunicati ufficiali e i testi del papa. In questo il giornale ha autorità: una nomina, ad esempio, diventa esecutiva quando è lì stampata. Ma per il resto “L’Osservatore” ha vita autonoma. Il responsabile degli articoli è il direttore, che non è affatto tenuto a farli controllare in anticipo.
    È prassi però che la segreteria di stato abbia voce in capitolo sugli articoli che toccano temi sensibili: il Medio Oriente, il nucleare, la Cina, l’islam. Capita che dei testi vengano bloccati, oppure riscritti.
    Un prodotto di questo lavoro a più mani è stato, ad esempio, il modo con cui “L’Osservatore” ha dato conto della visita in Vaticano del re dell’Arabia Saudita, Abdallah.
    A fianco della foto del re col papa, sotto il titolo “Nel segno del dialogo e della collaborazione”, il servizio dominante di prima pagina riguardava la richiesta del rappresentante vaticano all’Onu di “una nuova risoluzione sulla libertà di religione”, col titolo su quattro colonne: “La credibilità delle Nazioni Unite dipende dal rispetto tangibile dei diritti dell’uomo”. Chi ha orecchi per intendere intenda.

    In segreteria di stato il responsabile dell'ufficio che sovrintende a "L'Osservatore Romano" è monsignor Carlo Maria Polvani. Il diplomatico che si occupa del Medio Oriente è Franco Coppola. Per l'Italia c'è monsignor Antonio Guido Filipazzi. Ma per le questioni di rilievo si attivano anche i dirigenti di grado superiore, l'assessore per gli affari generali Gabriele Caccia e il sottosegretario per i rapporti con gli stati Pietro Parolin.

    "L'Osservatore" esce dalle rotative ogni pomeriggio, tranne che nelle domeniche e nelle feste, con la data del giorno successivo. È in vendita dopo le 17 nell'edicola dietro il colonnato destro di piazza San Pietro, vicino al Portone di Bronzo. In tutte le altre edicole è venduto invece la mattina dopo. Essendo un giornale del pomeriggio, in redazione il lavoro comincia all'alba. La prima riunione col direttore è alle 8.15. La redazione e la tipografia sono nella "zona industriale" della Città del Vaticano, non lontano dalla Porta di Sant'Anna. L'ipotesi di spostare alla sera la chiusura del giornale, come avviene per quasi tutti i quotidiani, è stata esaminata. Ma si scontra col fatto che i principali atti del papa si svolgono di mattina: e quindi l'uscita pomeridiana è per questi atti la più tempestiva.

    Il nuovo corso a “L’Osservatore” è comunque solo all’inizio. Già adesso la sua lettura è obbligata, per capire il pontificato di Benedetto XVI. Intanto però continua a vendere troppo poche copie: alcune centinaia in edicola e alcune migliaia in abbonamento. Un po’ meglio vanno le edizioni settimanali in italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e l'edizione mensile in polacco, con una selezione di articoli. È prevista una campagna per ampliare la diffusione.

    Ma la vera svolta sarà internet, da cui oggi "L'Osservatore Romano" è praticamente assente. Quando, tra pochi mesi, sarà tutto e subito leggibile in rete, in più lingue, questo giornale specialissimo farà il salto della sua vita, da Roma al mondo.


    Pagine italiane, addio

    In un mese l’Italia ha conquistato la prima pagina una volta sola, nel nuovo “Osservatore Romano” diretto da Giovanni Maria Vian. Ma non ha avuto risalto nemmeno nelle pagine interne, quelle del notiziario internazionale: una ventina di articoli in tutto, molto più striminziti di quanti ne abbiano avuti la Birmania, o l’Iran, o la Somalia.
    Fino a un mese fa, col precedente direttore, Mario Agnes, era tutto diverso. Non solo l’Italia ma anche la città di Roma avevano una pagina intera ciascuna. Gli articoli andavano in stampa senza che la segreteria di stato vaticana li vedesse in anticipo. Con puntuale scompiglio quando i grandi giornali ne riproducevano degli stralci come fossero la quintessenza del pensiero della Santa Sede, non le idee personali del sanguigno direttore.
    Dei venti articoli sull’Italia pubblicati da “L’Osservatore” nell’ultimo mese, la maggior parte hanno riguardato l’immigrazione, il volontariato, la scuola, la famiglia, l’aborto, i bambini: tutte questioni di società.
    Alla politica strettamente intesa sono andate le briciole: una scarna nota d’agenzia sull’approvazione della legge finanziaria in senato e un articolo sulla costituzione del nuovo Partito democratico. Sull’annuncio di un nuovo grande nuovo partito di centro destra, fatto da Silvio Berlusconi, neppure una riga.
    Pochissimo spazio per la politica italiana, e meno ancora per i politici. Quando due di questi, Francesco Rutelli e Pierferdinando Casini, sono corsi a presentare un libro del vescovo Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università del Laterano, “L’Osservatore” è riuscito a riempire una colonna e mezza sull’evento senza fare il nome né dell’uno né dell’altro. L’unica eccezione a questo generale riserbo è stato un editoriale in prima pagina, l’11 novembre, intitolato: “Sui presunti privilegi alla Chiesa cattolica in Italia”.
    Alle richieste di chiarimento fatte all’Italia dalla Commissione europea, in materia di esenzione dall’imposta di molti immobili di proprietà della Chiesa, sia la conferenza episcopale italiana sia il Vaticano hanno deciso di non stare zitti. E hanno affidato la risposta, su “L’Osservatore Romano”, a una giurista dalla penna affilata, Patrizia Clementi, che ha demolito punto per punto le accuse.
    Un solo articolo di battaglia in un mese, sull’Italia, può sembrare poco. Ma ha lasciato il segno. Grazie al nuovo “Osservatore Romano” ora si sa con chiarezza che, sul punto, il Vaticano e la CEI non cederanno di un millimetro.

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    00 28/01/2008 22:15
    Dal blog di Lella...

    La curia romana si sveglia e batte tre colpi

    Grazie a pochi e oculati cambiamenti negli uffici vaticani Benedetto XVI sta ottenendo ciò che desiderava. Lo provano tre recenti decisioni dei responsabili del clero, delle cause dei santi, della liturgia

    di Sandro Magister

    ROMA, 28 gennaio 2008 – Quella riforma generale della curia romana che molti si aspettavano come uno "tsunami" non c'è stata né ci sarà. Ma procedendo a piccoli passi e con nomine dosate e oculate, Benedetto XVI è andato ugualmente dritto allo scopo. Oggi la curia corrisponde alle attese del papa e ne mette in pratica le indicazioni più efficacemente che uno o due anni fa.

    Nuovo è anche lo strumento con cui la curia dice e spiega quello che fa. Questo strumento è "L'Osservatore Romano". Da tre mesi, da quando il giornale del papa ha come direttore il professor Giovanni Maria Vian e ha cambiato radicalmente faccia, quasi ogni giorno esso pubblica un'intervista con l'uno o l'altro dirigente vaticano. Da queste interviste non solo si apprende ciò che un determinato ufficio ha fatto, ma anche, talvolta, si ha l'annuncio in anteprima di ciò che farà. E perché.

    In questo inizio d'anno sono almeno tre i segnali di efficace rilancio delle indicazioni papali che la curia ha dato. Provengono uno dalla congregazione per il clero, un altro dalla congregazione delle cause dei santi e un altro ancora dai responsabili della liturgia.

    * * *

    1. Su "L'Osservatore Romano" del 5 gennaio il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della congregazione per il clero, ha annunciato di aver inviato a vescovi, parroci, superiori religiosi e rettori di seminari di tutto il mondo una lettera per sollecitare che in ogni diocesi nascano dei "cenacoli" di adorazione perpetua dell'eucaristia finalizzati a "santificare" i sacerdoti con la preghiera.

    Nel motivare l'iniziativa, Hummes ha fatto esplicito riferimento ai "peccati" sessuali commessi da una parte "minima" ma pur sempre incidente del clero:

    "Chiediamo a tutti di fare l'adorazione eucaristica per riparare davanti a Dio quello che di grave è stato fatto e per accogliere di nuovo la dignità delle vittime. Sì, abbiamo voluto pensare alle vittime affinché esse ci sentano vicini. Ci riferiamo soprattutto a loro, è importante dirlo".

    C'è in questo l'eco del memorabile mea culpa per la "sporcizia nella Chiesa e proprio tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Gesù" incluso dall'allora cardinale Joseph Ratzinger nella Via Crucis papale del Venerdì Santo del 2005.

    Ma c'è anche un'applicazione pratica di quel ritorno all'adorazione dell'eucaristia incoraggiato da Benedetto XVI in più occasioni, la prima volta con la sua silenziosa preghiera in ginocchio davanti all'ostia consacrata nella Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia dell'agosto 2005, un'altra volta assieme ai bambini della Prima Comunione di Roma e del Lazio riuniti in piazza San Pietro e da ultimo nella basilica di San Pietro lo scorso 31 dicembre, quando aggiunse per la prima volta al Te Deum di fine anno l'adorazione e la benedizione eucaristica.

    La lettera del cardinale Hummes ha trovato una fattiva risposta in molti luoghi. In Italia, le diocesi che per prime hanno istituito dei cenacoli di adorazione eucaristica "per la santificazione dei sacerdoti" sono state, oltre a Roma, quelle di Macerata, Torino, Siracusa, Ragusa, Oristano.
    "Avvenire", il quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha dedicato all'iniziativa di Hummes l'editoriale di prima pagina del giorno dell'Epifania, scritto dal teologo PierAngelo Sequeri:

    "È l'ora, finalmente, di un cristianesimo adorante. È l'ora di un cristianesimo che crede nel corpo del Signore e punta tutto sull'appassionata potenza del Figlio, che proprio nel suo Corpo regge le impotenze della storia. [...] Quando il ministero ecclesiastico, essenzialmente ordinato al corpo del Signore, perde colpevolmente rispetto del corpo dei figli affidati alla custodia della sua fede, è giusto che si riconosca lo scandalo e che si invochi, accettando la responsabilità della ferita e la debolezza del nostro limite, la cura del Signore".

    * * *

    2. In un'intervista a "L'Osservatore Romano" del 9 gennaio e in una nota non firmata di quattro giorni dopo sullo stesso giornale, il cardinale José Saraiva Martins, prefetto della congregazione delle cause dei santi, ha annunciato che sarà presto presentata al pubblico, nella seconda metà di febbraio, l'istruzione "Sanctorum Mater" sull'avvio delle cause di beatificazione, istruzione finora nota solo agli addetti ai lavori.
    Il documento – datato 17 maggio 2007 e il cui testo italiano è stato stampato nel n. 6 del 1 giugno 2007 degli "Acta Apostolicae Sedis", pp. 465-510 – traduce in norme precise le indicazioni date da Benedetto XVI alla congregazione delle cause dei santi in un messaggio del 27 aprile 2006.
    Cautela ed accuratezza: sono questi i criteri che il papa e la congregazione vogliono siano più osservati.

    In particolare, l'istruzione esige che "sia salvaguardata la serietà delle inchieste" riguardo ai presunti miracoli, "le cui procedure di esame hanno fatto emergere negli ultimi vent'anni elementi problematici".

    Maggiori garanzie sono fissate anche riguardo la "fama di santità". Senza di essa, cioè senza un'esemplarità di vita cristiana già riconosciuta come tale da un gran numero di fedeli, non sarà più avviato nessun processo di beatificazione. In altre parole: non bastano l'orgoglio e l'intraprendenza di una famiglia religiosa nei confronti di un fondatore o di un confratello.
    Altre norme stringenti riguardano la raccolta dei documenti e delle testimonianze. Le domande andranno rivolte ai testi in modo semplice e puntuale, così "da sollecitare risposte che evidenzino la conoscenza di fatti concreti e le fonti della sua conoscenza". Saranno perciò da evitare formulazioni "capziose, subdole, suggerenti le risposte".
    Fermo restando che perché la causa proceda "deve risultare l'assoluta assenza di elementi contro la fede e i buoni costumi", è fatto obbligo di mettere nel giusto rilievo "eventuali ritrovamenti contrari alla fama di santità".
    Il documento raccomanda inoltre ai vescovi di evitare "qualsiasi atto che possa indurre i fedeli a ritenere a torto" che l'inchiesta intrapresa comporti necessariamente la beatificazione o la canonizzazione. Prima della chiusura della causa diocesana, anzi, va assicurato e certificato che il servo di Dio "non sia già oggetto di culto indebito".
    È facile leggere in queste norme una correzione rispetto a una prassi tendenzialmente "inflazionistica" di beatificazioni e canonizzazioni invalsa negli ultimi decenni.

    Una delle primissime decisioni di Joseph Ratzinger, dopo la sua elezione a papa, fu quella di riservare a sé solo le canonizzazioni e di delegare ad altri le beatificazioni, generalmente nei paesi d'origine del nuovo beato.

    * * *

    3. "L'Osservatore Romano" di lunedì 14 gennaio, nel riferire della messa e dei battesimi celebrati da Benedetto XVI nella Cappella Sistina la domenica precedente, festa del Battesimo del Signore, ha sottolineato che "per la prima volta dall'inizio del suo pontificato" il papa "ha celebrato la messa in pubblico dall'altare tradizionale" (vedi foto in alto).

    E ha spiegato:

    "Si è ritenuto di celebrare dall'antico altare per non alterare la bellezza e l'armonia di questo gioiello architettonico, preservando la sua struttura dal punto di vista celebrativo e usando una possibilità contemplata dalla normativa liturgica. In alcuni momenti il papa si è così trovato con le spalle rivolte ai fedeli e con lo sguardo alla Croce, orientando in questo modo l'atteggiamento di tutta l'assemblea".

    Pochi giorni dopo, in un'intervista del 20 gennaio alla Radio Vaticana, il nuovo maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, Guido Marini, ha dato queste ulteriori spiegazioni:

    "Credo sia importante, anzitutto, considerare l’orientamento che la celebrazione liturgica è chiamata sempre ad avere: mi riferisco alla centralità del Signore, il Salvatore crocifisso e risorto da morte. Tale orientamento deve determinare la disposizione interiore di tutta l’assemblea e, di conseguenza, anche la modalità celebrativa esteriore. La collocazione della croce sull’altare al centro dell’assemblea ha la capacità di trasmettere questo fondamentale contenuto di teologia liturgica. Si possono, poi, verificare particolari circostanze nelle quali, a motivo delle condizioni artistiche del luogo sacro e della sua singolare bellezza e armonia, divenga auspicabile celebrare all’altare antico, dove tra l’altro si conserva l’esatto orientamento della celebrazione liturgica. Nella Cappella Sistina è avvenuto esattamente questo. Si tratta di una prassi consentita dalla normativa liturgica, in sintonia con la riforma conciliare".

    Quanto al "voltare le spalle ai fedeli":

    "Nelle circostanze in cui la celebrazione avviene secondo questa modalità, non si tratta tanto di volgere le spalle ai fedeli, quanto piuttosto di orientarsi insieme ai fedeli verso il Signore. Da questo punto di vista non si chiude ma si apre la porta all’assemblea, conducendola al Signore. Nella liturgia eucaristica non ci si guarda, ma si guarda a Colui che è il nostro Oriente, il Salvatore".

    E a proposito del motu proprio "Summorum Pontificum" che ha liberalizzato l'uso del rito antico della messa:

    "La liturgia della Chiesa, come d’altronde tutta la sua vita, è fatta di continuità: parlerei di sviluppo nella continuità. Ciò significa che la Chiesa procede nel suo cammino storico senza perdere di vista le proprie radici e la propria viva tradizione: questo può esigere, in alcuni casi, anche il recupero di elementi preziosi e importanti che lungo il percorso sono stati smarriti, dimenticati e che il trascorrere del tempo ha reso meno luminosi nel loro significato autentico. Mi pare che il Motu proprio vada proprio in questa direzione: riaffermando con molta chiarezza che nella vita liturgica della Chiesa c’è continuità, senza rottura. Non si deve parlare, dunque, di un ritorno al passato, ma di un vero arricchimento per il presente, in vista del domani".

    Del motu proprio è comunque in preparazione un'istruzione "che ne fissi bene i criteri di applicazione": così ha annunciato il cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone in un'intervista a "Famiglia Cristiana" del 6 gennaio.

    Inoltre, sarà presto pubblicata una nuova formulazione della preghiera per gli ebrei contenuta nel rito del Venerdì Santo del messale "tridentino" del 1962 liberalizzato dal motu proprio. Scomparirà il riferimento alla condizione di "tenebre" e di "accecamento" del popolo ebraico, pur restando ferma la preghiera per la loro conversione. "Perché nella liturgia preghiamo sempre per la conversione, di noi stessi per primi e poi di tutti i cristiani e di tutti i non cristiani", ha spiegato in un'intervista ad "Avvenire" l'arcivescovo Angelo Amato, segretario della congregazione per la dottrina della fede.

    Tornando all'orientamento della celebrazione, per capire quanto le parole del maestro delle celebrazioni pontificie Guido Marini riflettano il pensiero di Benedetto XVI, basti notare quanto ha detto il papa in questo passaggio della sua ultima udienza generale del mercoledì, lo scorso 23 gennaio:

    "Nella liturgia della Chiesa antica, dopo l'omelia, il vescovo o il presidente della celebrazione, il celebrante principale, diceva: 'Conversi ad Dominum'. Quindi egli stesso e tutti si alzavano e si volgevano verso Oriente. Tutti volevano guardare verso Cristo".

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    00 07/03/2008 22:23
    Dal blog di Lella...

    Un vescovo e un rabbino difendono la preghiera per la salvezza degli ebrei

    Il vescovo è Gianfranco Ravasi. Il rabbino è Jacob Neusner. La preghiera è quella del Venerdì Santo in rito antico. Ecco perché Benedetto XVI ha voluto cambiarne il testo

    di Sandro Magister

    ROMA, 7 marzo 2008 – Alcuni esponenti di rilievo del mondo ebraico avevano protestato vivacemente contro la nuova formulazione voluta da Benedetto XVI della preghiera per i giudei nella liturgia del Venerdì Santo, secondo il rito antico.

    A queste proteste è ora arrivata una risposta autorevole, in una breve nota pubblicata sull'ultimo numero della "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il controllo previo, riga per riga, della segreteria di stato vaticana.

    In più, nei giorni scorsi sono intervenuti in difesa della nuova formulazione anche personalità importanti della Chiesa cattolica e del mondo ebraico: da una parte l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cutlura, e dall'altra il rabbino Jacob Neusner (nella foto), professore di storia e teologia del giudaismo al Bard College di New York, autore ampiamente citato da Benedetto XVI, con reciproca stima, nel suo libro "Gesù di Nazaret".

    In breve, questi sono gli antefatti.

    Fino a un anno fa nella liturgia del Venerdì Santo di rito antico – il cui uso è stato liberalizzato da papa Joseph Ratzinger con il motu proprio "Summorum Pontificum" del 7 luglio 2007 – si invitava in latino a pregare per i giudei "affinché Dio e Signore nostro tolga il velo dai loro cuori, perché anch’essi riconoscano Gesù Cristo, nostro Signore".

    E subito dopo l'orazione era così formulata:

    "Dio onnipotente ed eterno, che non respingi dalla tua misericordia neppure la perfidia giudaica, esaudisci le nostre preghiere che ti presentiamo per l’accecamento di quel popolo; affinché, riconosciuta la verità della tua luce, che è Cristo, siano liberati dalle loro tenebre. Per lo stesso Cristo Signore nostro, Amen".

    Benedetto XVI, con una nota della segreteria di stato pubblicata il 6 febbraio 2008 su "L'Osservatore Romano", ha cambiato le parole sia dell'invito alla preghiera che dell'orazione.

    Il papa ha disposto che, nella liturgia di rito antico, si inviti a pregare per gli ebrei "affinché Dio e Signore nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini".
    E poi si pronunci questa orazione:

    "Dio onnipotente ed eterno, che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi nella tua bontà che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo. Per Cristo nostro Signore. Amen".

    In latino il nuovo testo dell'invito è il seguente:

    “Oremus et pro Iudaeis. Ut Deus et Dominus noster illuminet corda eorum, ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum".

    E quello dell'orazione:

    “Omnipotens sempiterne Deus, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad agnitionem veritatis veniant, concede propitius, ut plenitudine gentium in Ecclesiam Tuam intrante omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen”.

    Stando alla nota pubblicata su "La Civiltà Cattolica", questa sarebbe stata la ragione del cambiamento:

    "Nell’attuale clima di dialogo e di amicizia tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico è sembrato giusto e opportuno al papa [fare questo cambiamento], per evitare ogni espressione che potesse avere anche la più piccola apparenza di offesa o comunque dispiacere agli ebrei".

    Le parole della precedente formulazione che a molti – sia ebrei che cattolici – apparivano offensive erano soprattutto "perfidia" (che propriamente in latino significa "incredulità") e "accecamento". Entrambe sono sparite dal nuovo formulario.

    Ma ciò non ha impedito che dal mondo ebraico si levassero nuove proteste.

    La più aspra è venuta dall'assemblea dei rabbini italiani. In un comunicato firmato dal loro presidente, Giuseppe Laras, hanno detto che la nuova preghiera costituisce "una sconfitta dei presupposti stessi del dialogo" ed è "solo apparentemente meno forte" della precedente. Essa "legittima anche nella prassi liturgica un’idea di dialogo finalizzato, in realtà, alla conversione degli ebrei al cattolicesimo, ciò che è ovviamente per noi inaccettabile". E quindi, "in relazione alla prosecuzione del dialogo con i cattolici, si impone quanto meno una pausa di riflessione che consenta di comprendere appieno gli effettivi intendimenti della Chiesa cattolica circa il dialogo stesso".

    Altre comunità ebraiche, specie americane, hanno reagito in modo meno duro, negando che la nuova preghiera metta in pericolo il dialogo con la Chiesa.

    Un dialogo che di per sé – ha rimarcato "La Civiltà Cattolica" – "non è finalizzato alla conversione degli ebrei al cristianesimo, ma si propone l’approfondimento della mutua conoscenza in campo religioso, la crescita della reciproca stima e della collaborazione nei settori della pace e del progresso, oggi messi in grave pericolo".

    Quanto alla nuova formulazione della preghiera, la nota della "Civiltà Cattolica" così conclude, con un periodare un po' contorto:

    "Essa non ha nulla di offensivo per gli ebrei, perché in essa la Chiesa chiede a Dio quello che san Paolo chiedeva per i cristiani: che, cioè, 'il Dio del Signore nostro Gesù Cristo [...] possa illuminare gli occhi della mente' dei cristiani di Efeso perché possano comprendere il dono della salvezza che essi hanno in Gesù Cristo (cfr Efesini 1,18-23). La Chiesa infatti crede che la salvezza sia soltanto in Gesù Cristo, come è detto negli Atti degli Apostoli (4,12). È chiaro d’altra parte che la preghiera cristiana non può non essere che 'cristiana', fondata, cioè, sulla fede – che non è di tutti – che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini. Perciò gli ebrei non hanno motivo di offendersi se la Chiesa chiede a Dio che li illumini affinché riconoscano liberamente Cristo, unico Salvatore di tutti gli uomini, e siano anch’essi salvati da Colui che l’ebreo Shalom Ben Chorin chiama il Fratello Gesù".

    Naturalmente, la nuova formulazione della preghiera vale solo per la liturgia di rito antico. E quindi nella quasi totalità delle chiese cattoliche il prossimo Venerdì Santo si continuerà a pregare per gli ebrei con il formulario del messale di Paolo VI del 1970.

    Secondo questo formulario universalmente più diffuso, si prega per gli ebrei affinché Dio “li aiuti a progredire sempre nell'amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza”.

    Parole ineccepibili – e in effetti mai contestate – ma anche meno ricche di rimandi biblici, all'Antico e al Nuovo Testamento, di quelle introdotte da Benedetto XVI con la sua variante del testo antico della preghiera.

    Col nuovo formulario, infatti, papa Ratzinger ha non attenuato, ma molto rafforzato la preghiera con più pregnanti contenuti cristiani.
    Da questo punto di vista, quindi, la nuova preghiera per gli ebrei nella liturgia in rito antico non impoverisce ma postula un arricchimento di senso della preghiera in uso nel rito moderno.

    Esattamente come in altri casi è il rito moderno a postulare un'evoluzione arricchente del rito antico. In una liturgia perennemente viva come quella cattolica, è questo il senso della coabitazione tra i due riti antico e moderno voluta da Benedetto XVI con il motu proprio "Summorum Pontificum".

    Una coabitazione non destinata a durare ma a comporsi in futuro "di nuovo in un solo rito romano", prendendo il meglio da entrambi. Questo scrisse nel 2003 l'allora cardinale Ratzinger – svelando un suo recondito pensiero – in una lettera a un colto esponente del tradizionalismo lefebvriano, il filologo tedesco Heinz-Lothar Barth.

    Tornando alla nuova formulazione della preghiera per gli ebrei nel rito antico, ecco qui di seguito come l'arcivescovo Gianfranco Ravasi – presidente del pontificio consiglio della cutlura ma anche biblista di fama mondiale – ne ha spiegato la stupefacente ricchezza in un articolo su "L'Osservatore Romano" del 15 febbraio 2008.

    Con subito dopo uno scritto del rabbino americano Jacob Neusner, pubblicato in Germania il 23 febbraio 2008 su "Die Tagespost" e in Italia su "il Foglio" del 26 febbraio, anch'esso in difesa della nuova formulazione della preghiera.

    1. "Oremus et pro Iudaeis"

    __________


    2. Anche Israele chiede a Dio di illuminare il cuore dei gentili

    di Jacob Neusner

    Israele prega per i gentili. Perciò anche le altre religioni monoteistiche, compresa la Chiesa cattolica, hanno il diritto di fare la stessa cosa, e nessuno dovrebbe sentirsi offeso. Qualsiasi altro atteggiamento nei confronti dei gentili impedirebbe a questi ultimi l’accesso all’unico Dio rivelato a Israele nella Torah.
    La preghiera cattolica manifesta lo stesso spirito altruista che caratterizza la fede del giudaismo. Il regno di Dio apre le proprie porte a tutta l’umanità: quando pregano e chiedono il rapido avvento del regno di Dio, gli israeliti esprimono lo stesso grado di libertà di spirito che impregna il testo papale della preghiera per gli ebrei (meglio: il “Santo Israele”) da pronunciare al venerdì santo.

    Mi spiego. Per la teologia del giudaismo nei confronti dei gentili mi baso sulla liturgia standard della sinagoga, ripetuta tre volte al giorno.

    Il testo cui mi riferisco è l’Authorised Daily Prayer Book delle United Hebrew Congregations of the British Empire (London, 1953), che contiene la traduzione inglese di una preghiera per la conversione dei gentili, recitando la quale si conclude il rito pubblico eseguito tre volte al giorno in ogni singolo giorno dell’anno.
    In questo testo Israele, in quanto popolo sacro (da non confondere con lo stato di Israele), ringrazia Dio per averlo reso diverso dalle altre nazioni, e chiede che il mondo sia portato fino alla perfezione, quando tutta l’umanità invocherà il nome di Dio inginocchiandosi davanti a Lui.

    Il testo della preghiera inizia con le parole “È nostro dovere lodare il Signore di tutte le cose” e ringrazia Dio per avere creato Israele diverso dalle altre nazioni del mondo. Israele ha il proprio “destino”, che consiste proprio nell’essere diverso da tutte le altre nazioni. A Dio viene chiesto di “eliminare gli abominii della terra”, quando il mondo giungerà alla perfezione sotto il regno dell’Onnipotente.

    Questa preghiera per la conversione di “tutti gli empi della terra” – che sono “tutti gli abitanti del mondo” – viene recitata non una volta all’anno ma ogni giorno. Ha un parallelo in un passo delle Diciotto Benedizioni, nel quale si domanda a Dio di spazzare via “il dominio dell’arroganza”.

    Possiamo quindi affermare che nel giudaismo si chiede a Dio di illuminare le nazioni e di accoglierle nel suo regno. Proprio per sottolineare ulteriormente questa aspirazione la preghiera “È nostro dovere” è seguita dal seguente Kaddish: “Possa Egli stabilire il suo regno durante la vostra vita e nei giorni e nella vita di tutta la casa di Israele”.
    Questi passi tratti dalla liturgia quotidiana del giudaismo non lasciano alcun dubbio sul fatto che, quando Israele si riunisce in preghiera, chiede a Dio di illuminare il cuore dei gentili. La visione escatologica trova il proprio nutrimento nei Profeti e nella loro visione di una singola umanità riunita, nonché in una libertà di spirito che si estende a tutta l’umanità. La condanna dell’idolatria non concede molto sollievo al cristianesimo o all’islam, che non vengono menzionati. Le preghiere chiedono a Dio di affrettare l’avvento del suo regno.

    Queste preghiere ebraiche sono il corrispettivo di quella voluta da Benedetto XVI che chiede la salvezza di tutto Israele quando il tempo avrà raggiunto la propria pienezza e tutta l’umanità entrerà nella Chiesa. Le preghiere di proselitismo ebraiche e cristiane hanno in comune lo stesso spirito escatologico e tengono la porta della salvezza aperta per tutti gli uomini.

    Tanto la preghiera “È nostro dovere” quanto quella cattolica "Preghiamo anche per gli ebrei” sono la concreta espressione della logica del monoteismo e della sua speranza escatologica.

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    00 25/03/2008 22:27
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    Settimana santa: le omelie nascoste di papa Benedetto

    Nascoste tranne ai fedeli che le hanno potute ascoltare dal vivo: poche migliaia su 1,2 miliardi di cattolici nel mondo. Eccone i testi integrali. Una lettura d'obbligo per capire questo pontificato

    di Sandro Magister

    ROMA, 25 marzo 2008 – Delle sei omelie pronunciate da Benedetto XVI durante i riti della settimana santa di quest'anno, solo due hanno avuto un'estesa risonanza e sono arrivate all'orecchio di milioni di persone.

    La prima è quella letta al termine della Via Crucis del venerdì santo e l'altra è il messaggio "urbi et orbi" della domenica di Pasqua. Entrambe trasmesse in diretta radiofonica e televisiva in numerosi paesi del globo.

    Ma le altre quattro no. Sono arrivate a pochi. Cioè soltanto alle poche migliaia di fedeli che erano presenti ai riti celebrati dal papa e capivano la lingua italiana (perché molti tra essi erano stranieri). Ai quali andrebbero aggiunti coloro, anch'essi pochi, che le hanno poi lette sui media cattolici, nei giorni successivi.
    Se si pensa che i cattolici nel mondo superano abbondantemente il miliardo, il numero di quelli che hanno ascoltato o letto le omelie del papa nella trascorsa settimana santa appare ancor più microscopico.

    Eppure queste omelie sono uno dei tratti più rivelatori del pontificato di Joseph Ratzinger. Sono una vetta del magistero di questo papa teologo e pastore.

    Sono inconfondibilmente scritte di suo pugno. E sono inscindibilmente legate alla celebrazione liturgica nella quale sono pronunciate. Nel loro genere, dei capolavori.

    Il paragone che viene più naturale è con le omelie dei Padri della Chiesa, ad esempio di Leone Magno, il primo papa di cui sia stata conservata la predicazione liturgica. di sant'Ambrogio. di sant'Agostino.

    È un paragone illuminante anche sotto il profilo comunicativo. Perché anche le omelie di un Leone Magno, all'epoca, furono ascoltate da pochi e lette da pochissimi. Lo stesso si può dire di sant'Agostino. Ma l'influsso che la predicazione di questi Padri ha avuto sulla Chiesa è stato ugualmente grande e si è prodotto lungo l'arco di secoli.

    Non è impossibile che per le omelie di Benedetto XVI accada qualcosa di analogo. Occorre solo che vi siano, nella Chiesa, persone che riconoscano l'originalità e la profondità della predicazione liturgica di questo papa. E agiscano per propagarne l'ascolto.

    Di Benedetto XVI hanno fatto notizia il libro su Gesù, le encicliche, i grandi discorsi su fede e ragione. Da qualche tempo si è acceso un interesse anche sulle sue udienze del mercoledì, dedicate prima agli Apostoli e ora ai Padri della Chiesa.

    Sulle sue omelie, invece, manca ancora un'attenzione almeno pari. Ma basta leggere quelle della settimana santa di quest'anno – riprodotte qui sotto – per capire quanto siano centrali, nel magistero di papa Benedetto.

    Stupisce che la macchina comunicativa della Santa Sede le abbia fin qui trascurate. "L'Osservatore Romano" le pubblica con tempestività, ma per una cerchia troppo limitata di lettori, mancando finora questo giornale di un'adeguata presenza in internet. Quanto alla Libreria Editrice Vaticana, non ha finora prodotto alcun libro che raccolga le omelie di Benedetto XVI nel loro insieme o nei vari tempi liturgici, ad esempio le omelie natalizie, o quelle pasquali, meglio ancora se corredate dei testi delle liturgie di cui sono parte.

    Qui sotto, eccone un'assaggio illuminante: i testi integrali delle sei omelie di Benedetto XVI nella settimana santa del 2008.

    1. Domenica delle Palme

    2. Giovedì Santo. Messa del Crisma

    3. Giovedì Santo. Messa "in coena Domini"

    4. Venerdì Santo. Via Crucis

    5. Veglia pasquale

    6. Domenica di Pasqua


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    00 21/04/2008 20:48
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    Il rabbino Neusner e Benedetto XVI si scrivevano da quindici anni senza mai vedersi

    Il Papa della Regola d'oro

    Jacob Neusner è soddisfatto dell’entusiasmo con cui Papa Benedetto XVI, il suo amico, è stato accolto nel suo Paese. “Il Santo Padre è stato ricevuto con grande entusiasmo non solo dai cattolici, ma anche da protestanti, dagli ebrei, dagli induisti, dai musulmani e dalle altre comunità religiose. In questa visita negli Stati Uniti è stato il Papa di tutti”.

    Se da una parte il rabbino professore di storia e teologia del giudaismo al Bard College è rimasto felicemente colpito dall’accoglienza dei suoi connazionali, dall’altra non si è meravigliato del livello degli interventi del Pontefice tedesco: “Mi aspettavo che il Papa avrebbe suscitato serie discussioni e posto questioni cruciali riguardo all’ordine sociale mondiale. E non sono rimasto deluso. Le sue parole sono state solide e stimolanti, ci ha consegnato un messaggio denso di fede, ragione e verità. Mi viene da dire che il Papa esercita un’autorità morale per tutte le persone ragionevoli”.

    L’emozione con cui Neusner parla di questa visita rispecchia la perfetta sintonia che il rabbino sente verso il Papa e il suo magistero. “Sono rimasto molto colpito dal fatto che durante l’udienza del mercoledì in cui Benedetto XVI ha annunciato la visita negli Stati Uniti, abbia parlato della Regola d’oro — fai agli altri ciò che vorresti gli altri ti facessero — dicendo che essa, se pur data dalla Bibbia, è valida per tutta l’umanità, essendo iscritta nel cuore dell’uomo. Proprio pochi giorni or sono, nell’attesa dell’incontro con il Santo Padre, ho tenuto una conferenza nell’Università di Bard, dove insegno, sulla Regola d’oro nelle religioni del mondo. Così questa questione è piacevolmente ritornata a incalzarmi e ora direi che è ancora più urgente per me. In quella conferenza ho evidenziato che la Regola d’oro, la regola della reciprocità, è contenuta in tutte le religioni del mondo. È parte della legge morale naturale.

    Il Santo Padre ha attinto alla sua cultura per offrire una guida morale: ciò che ha detto è corretto e giusto”.

    Ma la felicità maggiore Neusner l’ha avuto quando giovedì a Washington, nell’incontro con la comunità ebraica, il Santo Padre ha ritagliato uno spazio tutto per lui e la sua famiglia. Si trattava infatti di un incontro speciale, tra due amici che non si erano mai incontrati. “È stato un momento toccante. Il Santo Padre mi ha salutato dicendo: “dopo quindici anni di lettere finalmente ci incontriamo”.

    Ha parlato in un eccellente inglese ma mi sono reso conto che per lui era un sforzo. Allora gli ho detto che l’avrei potuto intendere tranquillamente in italiano e lui mi ha risposto con un grande sorriso. Così abbiamo proseguito in italiano, lingua che anche mia moglie ha studiato. Gli ho proposto di scrivere un libro insieme, sui punti di convergenza tra giudaismo e cristianesimo nei primi secoli”.

    Singolare ma bella questa storia di amicizia tra due persone divise da un oceano e da due fedi differenti, ma unite nella stima e nell’affetto, oltre che nell’afflato verso il dialogo e la comunione, pur nel rispetto delle diversità e della verità.

    Da questo legame è nata un’amicizia intellettuale e spirituale che risale a quindici anni fa, quando Neusner pubblicò un saggio breve intitolato “A Rabbi talks with Jesus” che impressionò profondamente il cardinale Joseph Ratzinger, il quale a distanza di tanti anni (nel frattempo era cominciata una corrispondenza epistolare tra i due) ha dedicato diverse pagine e grandi elogi al rabbino nel suo libro Gesù di Nazaret, scritto lo scorso anno. Ora l’oceano è stato attraversato, i due amici si sono potuti abbracciare personalmente e il calore di quell’incontro ha contagiato tutto l’evento di Washington.

    “Una delegazione numerosa di ebrei è venuta a salutare il Papa a Washington — osserva Neusner — e il Papa ha anche visitato una sinagoga a New York. Solo del bene può scaturire da questa visita. Le relazioni tra i cattolici e le comunità ebraiche sono costruttive e calorose”.

    Non c’è nessuna traccia, nel ragionamento di Neusner, dell’episodio controverso della preghiera per gli Ebrei del Venerdì santo, che tanto ha fatto discutere in Italia. “Questo argomento non è emerso nell’incontro che ho avuto a Washington”, taglia corto Neusner (che tra l’altro ha pubblicato di recente su diversi quotidiani europei una sua riflessione sulla “reciprocità di preghiera”, smorzando ogni eventuale pretesto di polemica), “né ho sentito discussioni su questo punto all’interno della delegazione ebraica. Sono sicuro che la commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo e la International Jewish Committee on Interreligious Consultations risolverà questa questione in modo soddisfacente. Ora abbiamo bisogno di reciproca fiducia e pazienza. Il cardinale Kasper ci ha mostrato la via. Questo non è un aspetto che dovrebbe intralciare gli attuali progressi, che partono da così lontano. Le comunità degli ebrei e quella della Chiesa cattolica hanno lavorato insieme per diverse generazioni e hanno ottenuto molti risultati. La controversia di questi giorni passerà”.

    Per Neusner le controversie su questioni piccole passeranno, devono passare, perché la posta in gioco è grande. “I popoli devono fare la pace perché l’alternativa è perire. Persone di fede diverse possono vivere in pace e armonia: questa è l’aspirazione sia degli ebrei che dei cristiani. Soprattutto da Giovanni XXIII in poi la Chiesa cattolica è diventata una forza per la pace tra le nazioni. I resoconti dell’incontro tra il Papa e il presidente Bush e della visita alle Nazioni Unite mostrano come la sua parola sia rispettata nel consesso delle nazioni”.

    Quindi, nessuna chiusura o pregiudizio nei confronti del Papa da parte degli ebrei americani; semmai, osserva Neusner, qualche vecchia ruggine sussiste ancora tra i cristiani. “Esiste ancora un pregiudizio contro la Chiesa cattolica — afferma il rabbino teologo — da parte delle Chiese evangeliche, che per attaccare Roma usano un linguaggio offensivo che risale al periodo della riforma protestante.

    C’è infine anche un pregiudizio espresso da alcuni cattolici contro la Chiesa e il Papa perché non viene loro concesso di ‘modellare’ a piacimento la loro fede. Il fermo e costruttivo messaggio del Papa in questa visita negli Stati Uniti ha offerto un grande contributo per vincere questo pregiudizio. Ad esempio le sue parole sugli scandali sessuali, e il suo incontro, nella fede, con le vittime degli abusi, ha guarito ferite profonde. Per questo dico che questa in America è stata la settimana del Papa di tutti. Ha mostrato se stesso come un vero Papa nel suo ministero verso la Chiesa americana”.

    (©L'Osservatore Romano - 20 aprile 2008)

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    00 07/08/2008 21:26
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    Radio vaticana e web, felicemente sposi

    Da quando si è congiunta a internet, la radio del papa ha allargato in modo impressionante il suo raggio d'azione. È diventata un fenomeno multimediale unico al mondo, in 45 lingue e 13 alfabeti. Al quale si aggiunge un centro di produzione tv

    di Sandro Magister

    ROMA, 7 agosto 2008

    Stando al rendiconto annuale che la Santa Sede fornisce sulle proprie entrate ed uscite, la Radio vaticana costa un’occhio della testa. Nel 2007 il passivo è stato all'incirca di 12 milioni di euro.

    Ma ai vertici della Chiesa sono arciconvinti che si tratta di soldi benissimo spesi. Perché non c’è niente che eguagli la Radio vaticana per ampiezza di diffusione delle notizie e degli eventi cattolici. Senza questa sua radio la Chiesa si ritroverebbe imbavagliata e muta.

    Va detto però che la Radio vaticana non è più quella eroica di una volta, la radio prediletta dai capi della resistenza antitedesca, la radio ad onde corte captata in segreto al di là della cortina di ferro. In un mondo divenuto sempre più globale, ha fatto senza clamori la sua rivoluzione telematica. Si è sposata al web e ormai non c’è angolo remoto del pianeta dove in un modo o nell’altro non arrivi, negli idiomi più impensati. Fra i suoi 400 dipendenti le nazionalità sono 60. Le lingue utilizzate regolarmente sono 45. Basta questo per caratterizzarla come un caso unico al mondo.
    I suoi primordi risalgono al 1931. Pio XI chiamò a realizzarla Guglielmo Marconi e ne affidò la direzione ai gesuiti. Appartiene alla Compagnia di Gesù anche l’attuale direttore, Federico Lombardi, che è al tempo stesso direttore del Centro televisivo vaticano e della sala stampa della Santa Sede.

    Ma questo accentramento è più apparente che reale. I media di proprietà della Santa Sede, compreso “L’osservatore Romano”, non rispondono a un unico comando. Ciascuno vive di una logica propria, con un diverso grado di ufficialità.

    La Radio vaticana, ad esempio, ha poco di ufficiale. Il suo compito è di diffondere, amplificare, commentare. Non è centralizzata nemmeno al suo interno. Le sue trasmissioni in più lingue non traducono uno stesso testo uguale per tutti. Ogni redazione linguistica ha una sua autonomia e produce programmi misurati sulla propria platea di ascoltatori.
    Inoltre, solo in parte la Radio vaticana è ascoltata direttamente. In un gran numero di casi i suoi servizi sono ritrasmessi da radio cattoliche locali all’interno dei rispettivi programmi. Sono più di un migliaio, in tutto il mondo, le radio che fanno da ponte e questo ha aumentato verticalmente gli ascolti. In spagnolo, in portoghese, in polacco, le trasmissioni della Radio vaticana arrivano ormai a molti milioni di uomini. Ad ascoltarla non sono soltanto i cattolici. Nelle lingue slave sono parecchi gli ascoltatori di religione ortodossa. Ma questo vale a maggior ragione per le trasmissioni in lingua araba, o indiana, o cinese.
    In Cina, in India, in Vietnam, come anche in molti paesi africani, le trasmissioni in onde corte conservano la loro insostituibile efficacia. Ma la vera novità della Radio vaticana è il suo ricorso ai satelliti e ad internet. Uno apre il sito www.radiovaticana.org e può accedere a 38 sezioni in altrettante lingue e 13 alfabeti, dove non solo può ascoltare in diretta o riascoltare “on demand” tutte le trasmissioni che vuole, ma trova una grande quantità di testi scritti, di foto, di video.

    Grazie a questo sito web la Radio vaticana funziona anche come un’agenzia di informazione, che in alcuni paesi totalizza accessi impensati: ad esempio in Giappone, dove la sua pagina web è la più frequentata in assoluto per le ricerche sul Vaticano.

    Difficile trovare un sito più multilingue di questo. Oltre che nell’alfabeto latino, ha sezioni in cirillico, in cinese, in giapponese, in arabo. Per l’India le sezioni sono tre, con le rispettive scritture in hindi, tamil e malayalam (in quest’ultima lingua è stata inauguratada poche settimane anche un’edizione locale de “L’Osservatore Romano”, con una tiratura di 30 mila copie). Poi ci sono l’urdu e il vietnamita. E sono quasi pronte nuove pagine in coreano, etiopico ed armeno.

    Il tutto senza un briciolo di pubblicità. Gli unici introiti sono la cessione dei diritti di ritrasmettere i servizi: introiti comunque modesti perché alle molte radio locali dei paesi poveri la cessione dei diritti è gratuita. Perché la logica che presiede alla Radio vaticana è proprio quella di far arrivare la voce della Chiesa sino ai confini del mondo, pagando i costi necessari. L’integrazione col web ha aperto nuove possibilità, poiché consente con poco aggravio di spesa di aprire nuove pagine anche nelle lingue per le quali la trasmissione radio sarebbe troppo impegnativa e costosa.
    In più, la Radio vaticana funziona anche come archivio sonoro della voce dei papi. Non c’è discorso dei successori di Pietro che non sia stato registrato e conservato. Ai suoi uomini fanno ricorso la segreteria di stato e il corpo diplomatico vaticano ogni volta che hanno bisogno di interpreti e traduttori fidati.
    L’equilibrio e la misura sono altre due virtù che contraddistinguono la Radio vaticana. Nello stile non ha nulla di battagliero; niente di paragonabile con una Radio Maria o, in Spagna, una Radio Cope. Durante le guerre nei Balcani o in Africa i suoi redattori appartenevano a parti l’una contro l’altra armata, ma i resoconti erano esemplari per imparzialità. Il gesuita padre Lombardi, il direttore, celebre per l’abilità di smussare e sopire, va fiero anche di questo.

    E questo è il CTV

    A differenza della radio, il Vaticano non ha una propria emittente televisiva. Ha però un centro di produzione che fornisce alle televisioni di tutto il mondo le dirette degli eventi papali, più uno sterminato archivio di riprese registrate.

    Con soli nove tecnici a tempo pieno e un paio di registi, il Centro Televisivo Vaticano ha l’esclusiva delle riprese nel territorio pontificio e nelle altre zone extraterritoriali come Castel Gandolfo. Anche quando il papa è in trasferta il CTV lo segue. Nelle cerimonie maggiori a Roma e in Italia esso opera in coproduzione con la tv di stato italiana, la RAI, e all’estero con le tv del luogo.
    A Sydney, ad esempio, erano della tv australiana le riprese del viaggio papale, in particolare quelle magnifiche della Via Crucis. Il CTV paga questi apporti esterni in natura: offre in cambio le immagini esclusive che i suoi cameramen riprendono seguendo passo passo il papa al di fuori degli eventi pubblici.

    Quando sullo schermo compare la sigla CTV, è segno che le riprese sono del centro vaticano. Chi le ritrasmette le paga: a prezzo di mercato le aziende maggiori come la RAI, la CNN, la Reuters, a prezzi ridotti le tv minori e a prezzo zero le emittenti cattoliche del Terzo Mondo. Il risultato finale è che il CTV chiude i conti in pareggio o con un piccolo attivo, nel 2007 poco meno di mezzo milione di euro.
    Dirige il CTV il gesuita Federico Lombardi, che è anche il direttore della Radio Vaticana. In molti casi tv e radio si integrano: la prima fornisce le immagini col rispettivo sonoro, la seconda il commento in più lingue. E c’è chi compra il pacchetto completo. Ad esempio, EWTN, il colosso radiotelevisivo fondato in Alabama da madre Angelica, acquista e ritrasmette le dirette del CTV con i commenti della Radio vaticana, nelle quattro lingue del suo pubblico internazionale.

    Altre volte, invece, il commento è curato dalla tv che ritrasmette il servizio. Per la RAI è la regola, con risultati che però fanno spesso rizzare i capelli ai dirigenti vaticani.

    Monsignor Piero Marini, per più di vent’anni regista delle liturgie papali, una volta non si tenne più e dalle pagine della “Civiltà Cattolica” elevò una fiera protesta contro la “sciatteria” e le “chiacchiere gettate là alla rinfusa” dei commentatori della RAI, grazie ai quali la trasmissione “è ridotta alla stregua di un programma di intrattenimento che si colloca parassitariamente a ridosso di un evento liturgico presieduto dal pontefice”.

    Ma anche quando a curare il commento è una tv come Sat 2000, di proprietà della conferenza episcopale italiana, l’imperizia può ugualmente far danni. La Via Crucis di Sydney insegna. A vederla era un capolavoro di rappresentazione scenica, con una regia televisiva semplicemente superba. Ma per chi in più la ascoltava su Sat 2000, il commento era puro disturbo, un’offesa alle immagini.

    Il peggio avviene – denunciò ancora Marini – quando anche le telecamere “girovagano senza meta, sospese a mezz’aria”.

    È il rischio temuto in Vaticano quando la RAI si accolla le riprese. Se il regista prescelto è Marco Aleotti, focolarino, nei sacri palazzi tirano un sospiro di sollievo. Altrimenti, alzano gli occhi al cielo.

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    00 03/09/2008 21:22
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    Ratzinger professore, raccontato dai suoi antichi scolari

    Esce un libro sugli anni d'università di Benedetto XVI. Proprio nei giorni in cui a Castel Gandolfo egli tiene un seminario con i suoi ex allievi di teologia, per meglio preparare il secondo e conclusivo volume del suo "Gesù di Nazareth"

    di Sandro Magister

    ROMA, 3 settembre 2008

    Nella quiete di Castel Gandolfo (vedi foto) Benedetto XVI ha passato lo scorso weekend assieme a 40 suoi ex alunni di teologia appartenenti al cosiddetto Ratzinger Schülerkreis.
    Da papa è la quarta volta che il professor Joseph Ratzinger incontra il circolo dei suoi antichi allievi. Alcuni di loro hanno fatto strada: Christoph Schönborn è arcivescovo di Vienna e cardinale; Hans-Jochen Jaschke è vescovo ausiliare di Amburgo. Gli altri sono professori universitari, parroci, religiosi, suore, semplici laici.

    A organizzare gli incontri è Stephan Horn, tedesco, 72 anni, salvatoriano, ultimo assistente del professor Ratzinger all'università di Ratisbona. Il tema è deciso ogni volta con un anno d'anticipo. Nel settembre del 2005 l'argomento fu l'islam, con relazioni introduttive di due islamologi gesuiti: l'egiziano Samir Khalil Samir e il tedesco Christian Troll. Come sempre, l'incontro si svolse a porte chiuse, ma le indiscrezioni di uno degli ex allievi, il gesuita americano Joseph Fessio, fecero scoppiare un caso sulle idee del papa a proposito di islam e democrazia. Per evitare equivoci, si decise di pubblicare gli atti dei successivi incontri. Quelli del settembre 2006 sono in un libro dal titolo "Creazione ed evoluzione", uscito in tedesco e in italiano.

    L'incontro dei giorni scorsi ha avuto per tema la rispondenza del Gesù dei Vangeli al Gesù "della storia", con particolare riguardo al racconto della Passione.

    Il colloquio è stato introdotto da due grandi esegeti invitati "ad hoc", i tedeschi Martin Hengel e Peter Stuhlmacher, protestanti, entrambi professori a Tubinga, molto stimati da Ratzinger.

    Le loro relazioni si potranno leggere nel libro che pubblicherà gli atti. Ma enormemente più atteso è un altro libro: il secondo e conclusivo volume del "Gesù di Nazareth" scritto dallo stesso Benedetto XVI. Un secondo volume al quale il papa sta lavorando. E che si fonda proprio – come già il primo – sull'identità tra il Gesù dei Vangeli, vero Dio e vero uomo. e il Gesù "storico".

    * * *

    Intanto è arrivato nelle librerie italiane, all'inizio di questo mese di settembre, un nuovo interessante volume biografico sull'attuale papa: "Ratzinger professore", scritto da Gianni Valente e pubblicato dalle edizioni San Paolo.

    Il libro ripercorre gli anni dello studio e dell'insegnamento di Ratzinger nella natia Baviera e poi nelle università di Bonn, Münster, Tubinga e Ratisbona, tra il 1946 e il 1977. Lo fa grazie alle testimonianze inedite di numerosi suoi docenti, colleghi ed allievi.

    Un cammino non facile quello percorso dal professor Ratzinger nelle turbolente università tedesche di quegli anni, tra Concilio e postconcilio. Con qualche sbandata. Ad esempio quando nel 1969 egli aggiunse la sua firma a quella dei teologi ribelli Hans Küng e Herbert Haag sotto un articolo-manifesto che voleva abolire la durata a vita dell'episcopato a pro di un incarico a tempo per i vescovi residenziali.

    Di fronte alle turbolenze, però, il comportamento ricorrente di Ratzinger era quello di non gettarsi nella mischia ma di tenersi appartato, sperabilmente conservando la stima di amici e nemici, di colleghi ed allievi. Se poi la situazione gli appariva non più sostenibile, rapidamente usciva di scena e cambiava università. I critici dell'attuale pontificato – come lo storico Alberto Melloni, della scuola di Bologna, sul "Corriere della Sera" del 28 agosto – hanno subito fatto leva su questa "nonchalance" del Ratzinger professore per rinfacciargliela anche da papa. Assieme all'altra accusa di "caricaturare" i propri avversari del momento: i teologi della liberazione come l'islam.

    In realtà "Ratzinger professore" è la conferma della coerenza del percorso del suo protagonista, come ben prova il libro "Introduzione al cristianesimo" pubblicato da Ratzinger nel 1969, in piena contestazione, e divenuto un "long seller" tuttora di fresca attualità.

    Il libro:

    Gianni Valente, "Ratzinger professore", Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, pp. 210, euro 17.

    L'edizione italiana degli atti dell'incontro del 2006 del Ratzinger Schülerkreis:

    "Creazione ed evoluzione. Un convegno con papa Benedetto XVI a Castel Gandolfo", Edizioni Dehoniane, Bologna, 2007, pp. 210, euro 17,50.

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    00 12/11/2008 21:43
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    Dio non è cattolico, parola di cardinale

    Carlo Maria Martini pubblica un libro "sul rischio della fede" e invita a diffidare delle definizioni dottrinali, perché Dio "è al di là". Ma così il rischio è che svaniscano gli articoli del Credo, obietta il professor Pietro De Marco. E spiega perché

    di Sandro Magister

    ROMA, 12 novembre 2008

    L'ultimo libro del cardinale Carlo Maria Martini uscito in Italia, come già qualche mese fa in Germania e ora anche in Spagna, ha subito conquistato l'alta classifica dei più venduti. È intitolato "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede", ed è in forma di intervista, col gesuita tedesco Georg Sporschill.

    Le volte in cui Benedetto XVI ha parlato in pubblico del cardinale Martini – famoso biblista e arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002 – lo ha sempre elogiato come "un vero maestro della 'lectio divina', che aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura".

    In questo suo libro, però, il cardinale non appare altrettanto magnanimo, nel giudicare gli atti di governo e di magistero degli ultimi papi, da Paolo VI in poi.

    In un precedente servizio, www.chiesa ha già riferito dell'attacco frontale portato da Martini contro l'enciclica "Humanae Vitae".

    Ma nel libro c'è di più. C'è una ricorrente accusa alla Chiesa di "involuzione". Mentre all'opposto Martini reclama una Chiesa "coraggiosa" e "aperta", come dicono i titoli di due capitoli del libro.

    C'è soprattutto una descrizione di Gesù legata a un'ideale di giustizia molto terreno. La distanza tra questo Gesù e il "Gesù di Nazaret" del libro di Benedetto XVI è impressionante.

    Il quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", nel dare notizia del libro di Martini in occasione del suo lancio alla Fiera del Libro di Francoforte, il 17 ottobre, ha scritto che "molte delle considerazioni ivi espresse, comprensibilmente, faranno discutere".
    Ma non ha aggiunto altro. "Avvenire" non ha sinora recensito il libro e nessuno si aspetta che lo farà in futuro. Silenzio assoluto anche a "L'Osservatore Romano".

    In privato, ai gradi alti della gerarchia, le critiche all'autore del libro sono severe e preoccupate. Ma in pubblico la regola è di tacere. Il timore è che contestare pubblicamente le tesi di questo libro aggiunga danno a danno.

    Ma qual è, più analiticamente, il "rischio della fede" che il cardinale Martini evoca?

    Pietro De Marco, professore all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale, lo porta alla luce e lo sottopone a critica nel commento che segue.

    Per De Marco il messaggio del cardinale appare "reticente quanto a completezza della confessione di fede". C'è in esso molta frequentazione delle Sacre Scritture, ma gli articoli del Credo "vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli".

    Un'evanescenza dei fondamenti della dottrina che ha contrassegnato non solo il percorso di un grande leader di Chiesa come Martini, ma larga parte della Chiesa cattolica degli ultimi decenni.

    Osservazioni sulle "conversazioni notturne" di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill

    di Pietro De Marco

    La forma di questo libro, una ben costruita intervista scandita in capitoli introdotti da brevi testi, spesso domande, di "giovani", ne fa un testimone importante della mente del cardinale Carlo Maria Martini. E di quanti lo seguono dentro e fuori i confini ecclesiali.
    Del libro sottolineerò quello che non mi sento di approvare e specialmente quella che mi appare l'intima contraddizione, una contraddizione che segna forse l’intera vicenda pubblica del gesuita, già arcivescovo di Milano. Ma rendo omaggio, anche filiale, alla personalità grande che si rivela, ancora una volta, in queste pagine, scritte assieme a Georg Sporschill, anch’egli un religioso della Compagnia di Gesù.

    Parto dalla risposta del cardinale alla domanda: "come dovrebbe essere oggi l’educazione religiosa?" (p.19). Che equivale a: come educare qualcuno a essere un "buon cristiano"? Il cardinale aveva poco prima detto: un buon cristiano si distingue "perché crede in Dio, ha fiducia, conosce Cristo, impara a conoscerlo sempre meglio e lo ascolta".

    Nello stile del libro, che sembra risolvere tutto nella dimensione quotidiana, nella verità dei "mondi vitali", Martini inizia con l'evocare scene familiari e "semplici usanze".
    Tra queste ultime fa impressione vedere indicati anche il Natale e la Pasqua. Ci tornerò su. L'educazione religiosa proposta dal cardinale è di "ascoltare le domande e le scoperte dei giovani e accettarle", per arrivare al suo fondamento, la Bibbia: "Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi, non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio" (p.20).
    Va certamente apprezzato tale fiducioso e ragionato primato dato alla Scrittura, in anni in cui c'è chi propone nel cristianesimo una “religione della ragione", ovvero una ricerca di Dio che elimina la Bibbia quale coacervo di falsità. Ma quando il cardinale va a spiegare in che cosa si esprime la "ampiezza della visione di Dio" dischiusa dalla Scrittura, la indica in Gesù che si meraviglia della fede dei pagani e accoglie in cielo il ladrone, o in Dio che protegge Caino che ha ucciso il fratello. "Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli", prosegue il cardinale. E con ciò slitta nel troppo detto, nel sermone, che prosegue nella risposta alla domanda successiva: "Dobbiamo imparare a vivere la vastità dell’essere cattolico. E dobbiamo imparare a conoscere gli altri. [...] Per proteggere questa immensità non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia. [...] Se ascoltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, [...] Dio ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto". Si coglie qui un compendio di pensiero che merita un commento.
    Intanto, se la fede/fiducia in Dio e la conoscenza/ascolto di Cristo sono l’essenza della condizione cristiana, questa bella formula non può essere usata come già per sé sufficiente. Il solo rimando a un leggere/pensare biblico e ad una "apertura" di cuore resta del tutto indeterminato. L'unica, minima determinatezza nelle parole del cardinale è quella che procede dalla “apertura agli altri” alla Scrittura, per ritrovare in questa quella medesima apertura. Una simile circolarità, per quanto importante, è veramente poco rispetto all’immensità del tesoro scritturistico. Che ne è della conoscenza delle cose divine? Del timore e dell'amor di Dio? Della economia trinitaria? Se la Rivelazione ci trasforma è perché essa implica “infinitamente” di più che un pensare "in modo aperto" alla maniera dei moderni; un "aperto" che si oppone a ciò che Sporschill liquida come "mentalità ristretta".
    Questo orizzonte, che tanto piace all’intelligencija laica e cattolica, spiega anche la riduzione che Martini fa delle grandi festività dell’anno liturgico a "semplici usanze". Riduzione forse involontaria, eppure rivelatrice.
    Quando mai nel pensoso e spesso profondo ragionare del cardinale si intravvedono la "lex orandi" e la pienezza del mistero liturgico? A lui sfugge il legame tra l’immensità del "pensare in modo biblico" e l’immensità del culto cristiano che davvero ci apre a una liturgia cosmica, anche se non siamo né diventiamo per questo degli "spiriti aperti" alla maniera moderna. Non è questione da poco né recente. I cattolici e ancor più gli ortodossi sono in questo su sponde opposte rispetto alle comunità protestanti, alle quali non è bastato, per far fronte alla modernità, il frequentare la Scrittura e "pensare in modo biblico".

    Il "vivere la vastità dell’essere cattolico" non si compie neppure nel guardare "i poveri, gli oppressi, i malati". Quello che il cardinale chiama il "rischio" della Chiesa di porsi come un assoluto non mi pare evocato in maniera pertinente. L’assolutezza della incarnazione del Logos nel cosmo e nella storia non è un "rischio" ma è il fondamento di quella "vastità", è ciò che davvero ci fa "aperti".

    Senza sottovalutare i "mondi vitali" che il cardinale predilige, è nell’assolutezza che si radicano da sempre universalità e responsabilità cristiane. Solo qualche pensatore laico insiste ancora, specialmente in Italia, sull'equazione tra "pretesa di verità" e "chiusura" intellettuale e morale.

    Mi preoccupa il passaggio in cui Martini dice: "Gli uomini si allontanano dai [...] dieci comandamenti e si costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio, ma non dobbiamo confonderli con Dio".

    Mi preoccupa perché è rischiosissima l’idea che una religione positiva sia in sé allontanamento da un fondamento indeterminato che la precede e le è superiore. Anche dal punto di vista della scienza delle religioni non sussiste per sé un religioso indeterminato, comune e primario. Solo le religioni sono religione.

    Trovo infelice anche la formula del "Dio cattolico", quasi che le teologie su Dio della "Catholica Ecclesia" rappresentino un’indebita appropriazione e perdita del divino, invece che l’amorosa e gelosa sollecitudine spirituale e gerarchica per quanto è rivelato in Cristo. Certamente Dio è al di là delle nostre definizioni; ma non è "per la vita", cioè per motivi di praticità, che noi stabiliamo delle "definizioni"; infatti è molto più pratico non definire, come preferiscono tanti moderni e postmoderni. La mirabile teologia trinitaria dei concili e le "summae" teologiche sono più e altro che contingenze. Sono monumenti di lode al Dio di Gesù Cristo eretti dalla ragione cristiana. Forse è difficile per l’esegeta moderno, anche cattolico e della generazione di Martini, capirlo.
    Tutto il percorso di queste conversazioni notturne nasconde molti passaggi rischiosi. Forse l’antica perizia da rocciatore di Martini li predilige, li cerca. Per restare nel capitolo primo, a p. 18 il cardinale dice: "Gesù si è battuto in nome di Dio perché viviamo secondo giustizia". E a p. 24: "Gesù ha osato intervenire e mostrare che l’amore di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce. La sua abnegazione, però, la vediamo già in precedenza. [...] Credo che questo sia il suo amore, che sento nella comunione, nella preghiera, con i miei amici, nella mia missione". Non ho alcun timore di impopolarità nel dire che questa cristologia di taglio liberazionista sarà anche pastoralmente utile con alcuni giovani aperti al progresso, ma mi appare seriamente lacunosa. È inutile che io ricordi a un grande conoscitore dei testi del Nuovo Testamento quanto sia criticamente infondato, oltre che profondamente riduttivo del significato della Rivelazione, affermare che Gesù "si è battuto in nome di Dio" come uno dei tanti ribelli religiosi, ed è morto sulla croce per cambiare il mondo secondo le contingenti istanze del mondo (pace e giustizia secondo chi e per chi?). Ammettiamo che la lettura che Martini fa di Gesù implichi un antagonismo più spirituale e meno “politico”; non vi scorgo, comunque, quasi niente della tradizione trinitaria e cristologica.

    Tradizione che innerva invece profondamente il "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger, sul quale il padre Sporschill ironizza (“il buon Gesù di Ratzinger”) con scarsa intelligenza.

    Inappropriati sul terreno ecclesiologico sono, poi, diversi passaggi del capitolo quinto dedicato all'enciclica di Paolo VI "Humanae vitae", che hanno naturalmente fatto scalpore. Anche il sincero dispiacere che il cardinale mostra per quella che egli considera una disavventura nel pontificato di papa Montini finisce con una coda polemica. Il papa pubblicò l’enciclica "con un solitario senso del dovere e mosso da profonda convinzione personale", dice Martini, marcandone fortemente il volontario isolamento. Ma ci si domanda: di chi Paolo VI poteva fidarsi, fuori di Roma, nel 1968? Di episcopati travolti dalle crisi del postconcilio? O di teologi trasformati in intelligencija ribelle? Appare poco accorto anche lasciar scrivere provocatoriamente a padre Sporschill: "Supponiamo che Benedetto XVI si scusi e ritiri l’enciclica Humanae Vitae".

    Sbaglia Martini a coprire con la sua autorità la propensione di correnti ecclesiali a "chiedere scusa", naturalmente non dei propri errori ma di quelli della gerarchia: uno sport irresponsabile e senza discernimento.

    Anche la metafora dei quarant’anni trascorsi dopo la "Humanae Vitae", da intendere come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93), è ambigua. Chi avrebbe guidato chi, in questa traversata costellata di infedeltà? Pensa il cardinale Martini, come si pensa negli sparsi focolai della contestazione, che sia il popolo di Dio a guidare alla Terra Promessa una gerarchia resistente al richiamo dello Spirito? O riconosce che è avvenuto il contrario: la profonda conferma della insostituibilità della Chiesa "madre e maestra"? Il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua coscienza del ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare, come possiamo valutare oggi, dopo decenni di disorientamento e presunzione modernizzante.

    Insomma, anche apprezzando in queste pagine tante osservazioni misurate e di grande delicatezza pastorale, trovo nel cardinale una troppo debole consapevolezza di ciò che è in gioco nell'attuale passaggio di civiltà.

    Prevale in lui l’ascolto delle opinioni, delle preoccupazioni e delle proteste, interne ed esterne alla Chiesa, e una programmatica sintonia con esse, tipica dell'intellettuale.

    Valga la considerazione, davvero eccessiva, che riserva alle tesi del filosofo tedesco Herbert Schnädelbach in un saggio del 2000 sulle "colpe del cristianesimo".

    Trovo rivelatrice anche la risposta di Martini alla domanda se ha mai avuto paura di prendere decisioni sbagliate (p. 64): "Per paura delle decisioni ci si può lasciar sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. [...] Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa. Mi angustiano, invece, le persone che non pensano. [...] Vorrei individui pensanti. [...] Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti. Chi riflette sarà guidato nel suo cammino. Ho fiducia in questo".
    Intravedo in queste formule un metodo talvolta adottato da uomini di Chiesa e in particolare dalla Compagnia di Gesù: attrarre le persone che pensano, non importa se credenti; non smarrirsi per le passate o presenti defezioni dall’istituzione; avere fiducia nella guida e nella correzione di Dio in questo genere di impresa. Questo coraggio spesso appare efficace, anche se non sappiamo cosa ne scaturirà di più profondo e decisivo per la formazione alla fede e per la Chiesa stessa. Ma c'è qualcosa di essenziale che sfugge. Chi giudica delle "persone pensanti"? E pensanti che cosa? Cosa intende esattamente il cardinale, se andiamo oltre le generali e generose formule educative ed entriamo nel cuore dell’istruzione cristiana?

    È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del postconcilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Così, però, si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso "non clericale".

    L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che, dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli.

    Una contraddizione simile segna paradossalmente anche le pagine di Carlo Maria Martini sugli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Essi sono per il cardinale "esercizi pratici e semplici che mantengono vivo l’amore. È un po’ come nella vita familiare [...]. Anche l’amore per Gesù e l’intimità con Dio vivono di una condotta quotidiana. Non riesco ad immaginare la mia vita senza l’acquasanta ecc.". Accolgo queste formule delicate, e alla base di esse la distinzione tra gli esercizi "nella loro forma completa, solo per pochi", e i "numerosi esercizi facili" per tutti (p. 88). Però perché riservare ai semplici la prima settimana, dedicata (dico per semplicità) all’esame di coscienza, e non farli accedere almeno alla seconda? Nel testo italiano del 1555, che traduce la cosiddetta "vulgata", si legge: "La seconda settimana è contemplare il regno di Iesù Christo per similitudine de uno re terreno il quale chiama li suoi soldati alla guerra". L’autografo di Ignazio è più secco: "El llamamiento del rey temporal ayuda a contemplar la vida del rey eternal", ma non muta la sostanza. La regalità di Cristo e la sua chiamata sono forse irrilevanti per il "buon cristiano" e per la sua vita di fede?

    Evidentemente per il cardinale Martini non è essenziale, anzi è imbarazzante "considerare Christum vocantem omnes suos sub vexillum suum", salvo forse in una versione tutta spirituale. Ma credo che anche parte della Chiesa abbia troppo offuscato i propri "vexilla" e si sia autolimitata al domestico, sia familiare sia comunitario. Ne hanno sofferto i suoi necessari profili universali e pubblici. Ne ha sofferto la sua stessa dedizione e chiamata alla Verità; poiché se a una famiglia possono bastare la consuetudine privata del Pater Noster e la lettura dei Vangeli o dei Salmi, questo non basta alla fede e alla missione. Né può bastare, penso, alla Compagnia di Gesù, ai suoi uomini, alla sua ragione di vita.

    È stato necessario che fosse la cattedra di Pietro a fare attiva e autorevole memoria di tutto questo, negli ultimi decenni.

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    00 23/12/2008 16:30
    Il discorso del Papa alla Curia: commento del vaticanista Sandro Magister


    La Chiesa “non può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza”, deve “proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso”: è uno dei passaggi forti del discorso di ieri di Benedetto XVI alla Curia Romana, in occasione degli auguri natalizi. Un intervento articolato in cui il Papa ha sviluppato un’approfondita riflessione sulla presenza dello Spirito Santo nella vita della Chiesa. Per un commento su questo discorso, che ha destato ampia eco, Fabio Colagrande ha intervistato il vaticanista del settimanale “L’Espresso”, Sandro Magister:

    R. – Il Papa si è riferito a due fatti dell’anno passato: la Giornata mondiale della Gioventù, a Sydney, e il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, e li ha unificati in una trattazione sullo Spirito Santo. Un po’ inattesa, forse, ma molto, molto pertinente, da come egli ha cercato di far capire. Lo Spirito Santo anzitutto come Spirito creatore: infatti, c’è stata nel discorso di Benedetto XVI questa visione grandiosa, molto positiva della Creazione nel suo insieme, dell’uomo e del cosmo, con la formulazione di una sorta di ecologia dell’uomo che è un po’ uno dei passaggi centrali di questo discorso.


    D. – Questo discorso prenatalizio di Benedetto XVI è davvero intriso di gioia e speranza. E’ d’accordo con questa analisi?


    R. – Sì. Senza dubbio. Anche se questa gioia è una cifra costante di questo Pontificato: la sua predicazione non è mai una predicazione a tinte fosche, anzi: è una predicazione molto luminosa, che si prefigge esattamente proprio di portare luce dove c’è tenebra e da questo punto di vista, questo discorso è un discorso molto esemplare dell’orientamento complessivo di questo Pontificato.


    D. – Ecco, veniamo al Sinodo sulla Parola di Dio. Un evento che Papa Benedetto XVI ha vissuto con molta intensità …


    R. – Benedetto XVI ha partecipato non soltanto come spettatore e ascoltatore, ma anche come protagonista. Ha fatto un intervento, circa a metà dei lavori, molto breve ma estremamente chiaro nella sua formulazione. Un intervento che – tra l’altro – echeggiava proprio quello che è stato lo spirito con cui lui ha scritto e sta scrivendo nella seconda parte, quel libro straordinario che è “Gesù di Nazaret”, cioè della lettura della Parola di Dio come parola umana e, nello stesso tempo, la sua comprensione come espressione di un disegno che Dio compie nell’umanità stessa.


    D. – Uno dei temi centrali di questo discorso alla Curia è stata la Gmg dello scorso luglio in Australia. Qual è stata la lettura del Papa di questo avvenimento?


    R. – Ha dato una lettura, un’interpretazione di queste giornate indirettamente o implicitamente polemica nei confronti di quella sottovalutazione, di quella squalifica quasi snobistica che tanti ceti intellettuali cattolici – il Papa l’ha detto quasi esplicitamente – hanno fatto, criticando queste forme di aggregazione giovanile. Il Papa ha sottolineato degli aspetti che, in realtà, sono quelli che hanno sostanziato questa Giornata mondiale della gioventù: la grande Via Crucis di Sydney, ha detto, è stata veramente il momento emblematico di quelle giornate. Io non esiterei a dire che effettivamente quella è stata una grande e moderna sacra rappresentazione. Ma in più, il Papa ha aggiunto che oltre alla Via Crucis c’è stata la grande liturgia e lì, nella grande liturgia la Parola diventa fatto: quello che noi non siamo capaci di fare, lo fa Dio.


    D. – Benedetto XVI si è anche soffermato sull’Enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI. Cosa l’ha colpita di questo passaggio?


    R. – Confesso che questo riferimento all’Enciclica “Humanae vitae” è arrivato in modo fulminante e abbastanza sorprendente, al termine di questo sviluppo che il Papa ha fatto nel primo punto della sua sostanziale catechesi sullo Spirito Santo, quella riferita appunto allo Spirito Santo come Spirito creatore. Ed è interessante ‘come’ il Papa ci è arrivato a questa rivalutazione positiva dell’intenzione profonda della “Humanae vitae”. Ci è arrivato praticamente in nome di una ecologia dell’uomo che difenda non soltanto le foreste tropicali, gli animali, le piante, le acque da qualsiasi offesa, ma che difenda l’uomo stesso dal pericolo di autodistruggersi, e dice che l’uomo, appunto, deve avere la capacità di riconoscere nella Creazione quell’ordine che non può essere sconvolto, e quell’ordine comprende l’uomo e la donna, comprende il maschio e la femmina. La teoria del ‘gender’, aggiunge il Papa, la moderna teoria del ‘gender’ secondo cui la sessualità è una creazione personale e culturale, è qualcosa che – dice il Papa – distrugge proprio l’essenza dell’uomo e da questa distruzione dobbiamo proteggere l’uomo e l’“Humanae vitae” – e qui interviene il Papa – è esattamente un richiamo a questa importanza di difesa che l’uomo esige.


    www.radiovaticana.org







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