il deserto dei tartari

florinda49
00lunedì 17 dicembre 2007 19:40

Il deserto dei Tartari











Pantaleo Lonigro lavorava, senza entusiasmo, in banca.
S’intuiva il lui una vita sotterranea, segreta, inaccessibile. Guardandolo, infatti,
non era infrequente scorgergli sul volto, come una piccola aurora, un cenno di sorriso, cui faceva seguito un’espressione incupita, e poi un’altra ancora, segni che accompagnano le vite fantastiche degli inseguitori di sogni.
Pantaleo era assillato da una sola idea: scrivere.
Nel volgere degli anni si era radicato nella convinzione che fosse quello il motivo per cui era stato chiamato a vivere: riempire fogli bianchi della sua grafia minuta.
Pantaleo era un tipo taciturno e sottomesso, con molti dubbi sulla consistenza della propria vita.
-Sono vivo ? sarà vero ? – si domandava tastandosi le braccia, spiando i movimenti del corpo e i flussi vari della mente.
Il tormento più intenso era che un altro vivesse al suo posto.
Scrivere allora diventava la sicurezza di esistere, una traccia tangibile e verificabile del suo passaggio.
Inoltre la scrittura rendeva incisiva la sua vita: quando disseminava di segni minuti il foglio bianco, ecco che da quel mucchietto informe di cancellature, segnacci, da quel groviglio emergevano paesaggi e animali, figure umane e città.
E dal labirinto dei segni si profilavano nuove possibilità, che prendevano forma, crescevano e infine riuscivano a vivere di vita propria.
Trasmettendo emozioni e sentimenti che dapprima erano solo specchio dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, poi piano piano iniziavano a brillare di luce propria, e a guidargli la mano nel verso che a loro stava bene, oltre la sua volontà.
Era tuttavia conscio della illusorietà della scrittura, bastava chiudere il quadernetto fitto di segni per cancellare ogni movimento di quella illusione.
Però le emozioni erano reali, e quello che restava era il piacere di vivere tante esperienze semplicemente strascicando la penna sul foglio nella direzione che quelle emozioni richiedevano.
Era davvero il più grande piacere della vita, la sua vera ricchezza.
Per anni scrisse senza organizzare minimamente l’impulso a dirigere i segni sul foglio. Superati i vent’anni sentì giunto il momento di strutturare un edificio scrittorio, di dare uno stile ai suoi racconti.
Lesse e studiò quel tanto.
Una sera Pantaleo Lonigro parlava dei suoi progetti letterari con un amico, e di come procedessero le sue fatiche.
Michele Desiderio l’ascoltava attento, perché nutriva una passione complementare a quella di Pantaleo: era infatti un divoratore di libri.
-E’ da tempo che sto pensando a un libro sull’attesa, un libro scarno di avvenimenti, dove tutto è in funzione di qualcosa che deve accadere, non so spiegarmi bene, ma dall’infinito possibile si aspetta qualcosa che avverrà.
Per esempio un attacco nemico, e tutto è in funzione di questo evento.
Si verifica una sorta di sospensione globale per questo attacco, e non si pensa, non si parla d’altro.
Naturalmente va ambientato in una zona limite, in una fortezza ai margini di un deserto, una zona resa inaccessibile da alte catene montuose.
Il protagonista è un giovane ufficiale di belle speranze, che da questo attacco aspetta di dare un senso alla sua vita.
E’ già un po’ che ci penso, vorrei strutturarlo attraverso uno stile molto asciutto, fantastico, un linguaggio essenziale e preciso -.
Michele Desiderio tenne per sé le perplessità che l’avevano agitato nel corso del racconto, si limitò a chiederne in lettura i primi stralci, non appena li avesse abbozzati.
Di lì a tre giorni Desiderio poté visionare il lavoro dell’amico.
Il piccolo studio di Pantaleo era malmesso, in contrasto col resto della casa, molto grande, signorile, con tracce ancora tangibili di un fasto di provinciale solidità.
Nello studio campeggiava una brutta scrivania di legno chiaro, proveniente dallo sgombero di uno di quei locali siti negli ampi portoni nobiliari dove si tenevano i registri della contabilità, si impartivano disposizioni al curatolo per i raccolti dell’indomani, si facevano i conti col massaro, si ricevevano le lamentele di un bracciante che si accalorava tenendo rispettosamente il cappello in mano.
Pantaleo esibì un’agenda scura, dell’anno in corso, e alla pagina del 22 gennaio gli mostrò l’inizio del racconto.
Una grafia irregolare fluiva lungo la pagine, non priva di ripensamenti e di cancellature.
L’inizio del racconto era il seguente:
- Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la fortezza Bastiani, sua prima destinazione -.
- Ma è il Deserto dei Tartari - saltò su Michele.
Anche Pantaleo ebbe un moto di sincero stupore.
- Ma è proprio il titolo che avevo pensato, devo avertene parlato, allora -.
Ma la sorpresa dell’amico fu per lui un atroce presentimento.
- Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa da tenente -.
Non c’era dubbio, era l’attacco del Deserto dei Tartari.
Michele non lo sospettò neanche un attimo di plagio.
Però volle essere convinto, e corse a casa a prendere il libro di Buzzati.
I primi due capitoli erano praticamente identici, c’erano delle correzioni incredibili.
Per esempio il secondo capitolo cominciava: -Le livide folate della notte invadevano la valle -.
Quella frase era completamente sbarrata, e l’attacco era: - Il buio lo raggiunse ancora in cammino -.
Come è nella realtà. Michele riscontrò alcune leggere differenze, ma veramente minime. Negli aggettivi, o nella strutturazione di una frase.
La cosa aveva dell’incredibile.
Pantaleo presagì quella sera il suo amaro destino di autore di libri già scritti.
Dopo aver rinunciato a terminare Il deserto dei Tartari, si diede ai racconti, ma ahimé, sebbene meravigliosi, pervasi di mistero, disegnati sul filo di una lingua cristallina, quei racconti appartenevano ai Sette messaggeri, al Crollo della Baliverna, al Colombre, erano cioè drammaticamente già scritti.
Pantaleo Lonigro fu vinto dal terrore di questa sua misteriosa capacità medianico scrittoria, e decise pertanto che in futuro avrebbe scritto soltanto di avvenimenti di cui fosse stato partecipe personalmente.
Ma la sciagurata ventura di lavorare in banca non gli forniva situazioni avventurose o degne di un qualche rilievo letterario.
Perciò la frustrazione era doppia: non poter assecondare gli impulsi a scrivere, perché tutto era già stato scritto, e non poter vivere in prima persona quelle avventure che gli avrebbero fornito materia per uno scrivere non ancora scritto.









f.almerighi
00lunedì 27 aprile 2009 12:24
Segnalo a tutti la lettura di questo splendido racconto di stampo decisamente pirandelliano, godibilissimo... e che fa pensare molto. Geniale nel suo piccolo.
=AlexMoteL=
00lunedì 27 aprile 2009 15:04
Caspita!!! geniale davvero!!!! [SM=g11198]

grazie almerighi per averlo ripescato! peccato che l'autrice è da un bel po' che non si fa più viva.
OceanoDiFuoco89
00sabato 2 maggio 2009 00:17
Scritto molto interessante. Apprezzatissima la descrizione di come il protagonista vive la scrittura e attraverso la scrittura. Gli sviluppi del racconto lasciano spazio a riflessioni su quanto smettendo di scrivere si smetta, almeno un po', di vivere.
[SM=g8051]

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