casodifficile
00lunedì 14 febbraio 2005 17:43
Come afferma "P.G.G.G.R.", acronimo allargato, espanso per
dare voce a tutti, "Però Gianni Giorgio Giovanni Resistono". Ne
è stata riprova definitiva il concerto tenuto allo Spazio Boario,
tendone adibito agli eventi speciali del Villaggio Globale; esiste
da pochi, pochissimi anni, questa struttura vagamente circense.
Ma proprio in questo centro sociale romano - insieme al Forte
Prenestino padre protettore di tutti gli spazi di antagonismo
militante capitolino - i neonati C.S.I. mossero i primi passi. Lo ricorda proprio Giovanni
Lindo Ferretti in uno dei suoi soliloqui tra un brano e l'altro (pochi e molto ben misurati,
c'è da dire), soffermandosi sulla volontà di essere qui tra altri undici anni "se sarà
ancora possibile".
Ed ecco che il tema della resistenza torna a far sentire la propria urgenza: Ferretti
dovrà, a quanto dice, tornare a breve in ospedale, quell'ospedale che aveva evitato
"per grazia ricevuta" - ed ecco di nuovo il ricatto dell'acronimo -, e l'intero concerto
sembra un'analisi dura e disillusa verso il dolore. Dolore personale, come la memoria
cantata degli avi che "mi ha fatto vivo, sopravvivere, crescere" ("I miei nonni"), ma
anche cinico dolore universale, descritto nello stupefacente furore scaturito dalla ripresa
di "Tu menti". Che l'intenzione della band fosse quella di riavvicinarsi alla scarna
essenzialità del punk che fu l'anima animalesca dei CCCP appare abbastanza chiaro e
palese dalla scelta della strumentazione, chitarra/basso/batteria con aggiunta casuale
di percussioni tribali e di reminiscenze etniche - la tammorra che guida la danza di "Casi
difficili", ad esempio -, e dalla presenza in scena di una ballerina, con associazione di
idee immediata verso Annarella Giudici, Fatur, la "qualità della danza" e il teatro
masochista.
La scaletta sembra tagliata perfettamente con l'accetta: dopo un'intro dedicata al
passato, con "Brace", "Narko'$" e "Forma e sostanza" in bella sequenza ecco arrivare il
presente. "D'anime e d'animali" è rivisitato in lungo e in largo, la lingua di Ferretti lo
declama con un amore che non può comunque cancellare la sensazione di
stordimento di fronte a un lavoro minore - perché l'intero progetto PGR è comunque un
episodio minore nella luminosa carriera di questo guru mai veramente allineato a
chicchessia -. Dal vivo i brani acquistano una profondità maggiore, comunque, e
appare doveroso lasciarsi andare alla frenesia gentile di "Alla Pietra" e al caos
mediatico, discutibile e doloroso - per chi scrive, anche, per chi ascolta, anche, per chi
ha composto, probabilmente - che prorompe da "Orfani e vedove".
Arriva il tempo degli animali, l'anima si fa contorta caparbia ammirevole (ed ammirata),
le sensazioni sgretolate dall'apparente sconfitta - che è sorella nel progetto solista di
quello che sarà comunque e sempre il Grande Assente, Massimo Zamboni - si
ricompongono alla ricerca della semplicità, lontani dai patiboli di sapere che furono
roghi e furono Shoah, per citare ulteriormente un reading ferrettiano. L'orfano di sinistra
canta di Israele come del "Profeta, Dio lo ha in gloria, Mohammed", eppure sofferma la
sua attenzione sulla manifestazione terrena del dolore, la più dirompente perché la più
istituzionale, impossibilitata a essere ricondotta a peccati universali, guerre mondiali,
atroci mercanteggiare di sangue per petrolio, baratto contemporaneo che ha solo
ideologia del profitto: la carne destinata al supplizio, martoriata in sé dal suo stesso
essere uomo, non santo, di Giovanni Paolo II. Alla sua figura, al suo essere lì, Ferretti
dedica il concerto, mettendogli accanto chi è Giovanni ed è Lindo come lui, chi è stato
concepito a un concerto dei PGR (o dei CSI? Certo non dei CCCP a giudicare dalla
foto...), massimo complimento a un uomo che non ha mai voluto essere idolo né
megafono, eppure lo è diventato suo malgrado. Idolo lo è per la stessa negazione
della forma, dell'iconografia, megafono non può non esserlo quando centinaia di
persone ne anticipano il canto e lo trascinano in eco innamorata.
"Crescete bene, mi raccomando", domanda Ferretti - ma basta parlare solo di lui,
dannazione, Canali/Maroccolo/Gulli non stanno lì a raccogliere briciole smozzicate - che
non alza il pugno quando canta "sogno tecnologico bolscevico, atea mistica
meccanica, macchina automatica no anima, macchina automatica no anima" ma
continua a declamare di una "terra in permanente rivoluzione". "Unità di produzione"
come "A tratti" descritte con un furore selvaggio, pratica barbarica rimasta unica arma di
una mente che si sente, purtroppo, sola. E che sa di dover cantare il dolore e la
mestizia, il fragore e l'adunanza, perché "l'amore non si canta, è un canto di per sé".
Da venti e passa anni i collettivi, consorzi, aggregazioni di musicisti sotto l'occhio e la
mente di Giovanni Lindo Ferretti portano per l'Italia il loro rock, che è poi il padre di
qualsiasi rock nostrano, capace di fondere cervello e pancia, "l'alto e il basso senza
abbellimenti". E al Ferretti che conclude "Blu" augurando a tutti di poter vedere un'alba
del medesimo colore - concerto che si chiude sull'alba dopo essersi aperto con "l'aria
serena e di sostanza sferzante" - e che promette, qualora il papa restasse in vita, di
tornare ancora qui tra undici anni, spontaneamente scatta l'applauso, che tradotto in
un rapporto più individuale si trasforma in abbraccio. Perché se è vero che siamo tutti
un po' orfani dei CCCP e dei CSI è altrettanto vero che abbiamo e avremo sempre
bisogno di chi, con classe e libertà, continua a proporci "un'opinione pubblica un poco
meno stupida delle sale da ballo un po' più che di merda". A presto, Giovanni, e in
bocca al lupo.