ROMA SAPEVA DEL SEQUESTRO CIA? PALAZZO CHIGI SMENTISCE

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INES TABUSSO
00giovedì 11 maggio 2006 18:08

CORRIERE DELLA SERA
11 maggio 2006
Sequestro Abu Omar, sotto inchiesta il Sismi
Carabiniere del Ros confessa: anche italiani nell’operazione Cia. Palazzo Chigi smentisce

Il Sismi è sotto inchiesta per il sequestro Cia. Il nuovo, clamoroso troncone d’indagine è nato nella settimana di Pasqua, quando un carabiniere del Ros ha confessato di aver partecipato al rapimento di Abu Omar insieme con una squadra di agenti segreti americani. A quel punto la Procura ha cominciato a raccogliere nuovi dati e testimonianze per dare un nome agli altri possibili complici italiani dei 22 agenti Cia già ricercati per il sequestro dell’imam egiziano: un’inchiesta scottante che ora punta sui nostri servizi segreti militari. Finora sia il governo Berlusconi che i vertici del Sismi avevano sempre sostenuto (come ha ripetuto anche ieri sera una nota diffusa da Palazzo Chigi) l’«assoluta estraneità» dell’Italia nel rapimento di Abu Omar, prelevato per strada a Milano da un commando di 007, il 17 febbraio 2003, e trasferito con voli segreti in Egitto, dove è tuttora detenuto dopo aver denunciato atroci torture.

LA SVOLTA - La prima svolta nel caso di Abu Omar risale a più di tre mesi fa. I poliziotti della Digos, gli stessi che hanno incastrato la Cia lavorando sui telefonini, scoprono che nel luogo e nel momento del sequestro, cioè alle 12.25 in via Guerzoni, era attivo un cellulare italiano, risultato in uso a un maresciallo dei carabinieri. Lo stesso sottufficiale, nei mesi precedenti e fino alla vigilia del sequestro, aveva avuto frequenti contatti con Robert Seldon Lady, allora capo della stazione Cia di Milano, ricercato da giugno come organizzatore del rapimento.
Convocato in Procura come indagato, il maresciallo L. P., 45 anni, ha confessato ai pm Armando Spataro e Ferdinando Enrico Pomarici di aver partecipato al sequestro insieme agli 007 americani. In particolare era lui il «biondino» che ha fermato Abu Omar, simulando un controllo dei documenti. È possibile, ma non è ancora certo, che fossero presenti altri italiani, se non durante l’azione, quantomeno nella fase preparatoria. La confessione del maresciallo è considerata attendibile dagli inquirenti, ma è solo il primo passo di un’inchiesta molto più ampia, spesso avvelenata da lettere anonime e dossier sospetti: vere indiscrezioni mescolate a notizie false. Il comando del Ros dei carabinieri, a scanso di equivoci, ha precisato già ieri che il sottufficiale è accusato di aver partecipato al sequestro «per una scelta individuale che ha sempre tenuto nascosta a tutti i suoi colleghi e superiori». Una ricostruzione che sarebbe confermata dai primi risultati delle indagini.


IL NUMERO DUE - Al centro del nuovo troncone d’inchiesta c’è invece il Sismi. Partendo dalla confessione del maresciallo, gli inquirenti starebbero verificando l’attività di un settore «azioni clandestine» del Sismi. Nel mirino ci sarebbe soprattutto un gruppo di agenti. Nel mondo dei servizi viene indicato come loro massimo referente il numero due del Sismi, Marco Mancini, responsabile delle operazioni estere: un esperto molto apprezzato dalla Cia. Proprio in queste ore l’inchiesta sta verificando nomi e ruoli per chiarire chi sapeva del sequestro, quanti italiani vi abbiano partecipato e con quali compiti.
A complicare il quadro c’è anche una telefonata, che però potrebbe essere solo una coincidenza. Mentre il maresciallo L.P. aspettava in Procura l’inizio dell’interrogatorio, sul suo telefonino è arrivata una chiamata partita dall’ufficio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ma ora Palazzo Chigi replica: «È tutto falso». Certa e ben più inquietante, almeno col senno di poi, è la testimonianza resa dal generale Nicolò Pollari a Bruxelles, davanti alla commissione dell’Europarlamento che indaga sui voli segreti della Cia: il capo del Sismi non solo aveva escluso qualsiasi complicità italiana, ma anche sostenuto che i nostri servizi avrebbero rifiutato una proposta americana di partecipare a un diverso rapimento, non meglio precisato. Nella stessa sede istituzionale Pollari ha aggiunto che, secondo il Sismi, il sequestro sarebbe stato una messinscena organizzata dalla Cia d’accordo con lo stesso Abu Omar. Una versione che il pm Spataro, sempre a Bruxelles, ha definito «completamente falsa».
Paolo Biondani


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LE FASI DEL RAPIMENTO
www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/05_Maggio/11/pop_grafic...


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la Ricostruzione

«Fermalo, sta per fare un botto»
Così la spia reclutò il maresciallo

Bob Seldon Lady aveva bisogno dei «cani di strada». Uomini tra le forze dell’ordine capaci di affrontare situazioni difficili. Come del resto era lui, un ex poliziotto di New Orleans passato alla Cia. E a Milano, dove Lady operava come responsabile della base locale, di «cani di strada» ne ha agganciati tanti. Tra loro «Ludwig», un maresciallo del Ros dei carabinieri con una lunga esperienza nella lotta alla criminalità e al terrorismo. Ludwig parla tre lingue - tedesco, inglese, francese -, conosce bene la realtà integralista del Nord, partecipa a indagini delicate. E’ il cacciatore giusto. Lady, mescolando incontri di lavoro e scampagnate nella sua casa di Penango (Asti), si lavora le sue fonti. E decide di usarle, in modo spregiudicato. E’ lo 007 americano a fare la prima mossa. Chiede a Ludwig di partecipare all’operazione Abu Omar: «Lo devi fermare per strada, poi ci pensiamo noi». Ludwig resiste, ha dei dubbi. Ma Lady insiste, gli fa capire che c’è una copertura ufficiale, i servizi segreti italiani sanno del piano. Quindi tutto rientra in quella che la Cia chiama «bilaterale». Come altre volte, Lady usa una chiacchierata attorno ad un tavolo di un ristorante per convincere Ludwig a partecipare. E’ il metodo di lavoro dello 007. E’ dopo una cena alla Trattoria Toscana che la spia americana ottiene il sì del maresciallo per la missione. E per convincerlo che il blitz è giustificato gli dice che il terrorista egiziano vuole compiere un attentato contro la scuola internazionale a Milano. Quindi va tolto di mezzo, perché troppo pericoloso. Il piano entra nella fase decisiva, la «Special Removal Unit» della Cia è sul campo con 22 agenti, tra loro almeno sei donne. Iniziano i sopralluoghi. Ad uno partecipa lo stesso Ludwig insieme a Lady - è il 16 febbraio 2003, alla vigilia del sequestro - durante il quale discutono gli ultimi dettagli. Il maresciallo ha due compiti: fermare, fingendo un controllo, Abu Omar: intervenire nel caso sopraggiunga una pattuglia della polizia. Ludwig pensa di agire nel quadro di una collaborazione Usa-Italia. All’epoca i rapporti tra servizi erano considerati normali e Lady era sempre stato generoso con i nostri 007, offrendo tecnologia e informazioni sulla rete estremista. Prendeva e dava. Perché la Cia aveva e ha una sua rete di talpe che seguono gli integralisti, che captano notizie sensibili ignote alle nostre autorità.
Arriva il giorno del sequestro, il 17 febbraio. Ludwig raggiunge - secondo gli ordini - piazzale Maciachini. Non ha un’auto e si muove con il suo motorino. Aspetta un «contatto». Che arriva con una vettura chiara: l’uomo al volante lo chiama. Ludwig sale a bordo, ha in tasca il suo cellulare e quello fornitogli da Lady. E’ quasi mezzogiorno, arrivano in via Guerzoni e Ludwig si apposta al varco scelto per la trappola. Il numero 17, a pochi metri dalla Croce Viola. Il maresciallo vede arrivare Abu Omar, lo ferma e gli chiede - in italiano - i documenti. L’egiziano risponde in inglese. Ludwig gli ripone la domanda questa volta in inglese e intanto lo attira vicino ad un furgone bianco parcheggiato vicino al marciapiede. All’interno due uomini. Sono istanti che volano via. L’uomo seduto al fianco del guidatore grida in italiano: «Ma che c... fate». Ludwig trasale, fa un passo indietro, con in mano i documenti dell’egiziano. Un pugno di secondi. Il portellone del furgone si apre e saltano fuori i «muscoli», i due agenti speciali della Removal Unit. Sono dei rambo, addestrati a portare via una persona in mezzo minuto. Prendono Abu Omar che svanisce dentro il veicolo. Operazione conclusa. Ludwig risale sull’auto del complice che lo porta al motorino, prima di scendere lascia i documenti dell’ostaggio e il telefonino della Cia. Ludwig torna alla vita di tutti giorni, non sente più Lady per settimane. Quando lo 007 rispunta gli dice: «Non ti preoccupare, Abu Omar lavora per noi come infiltrato nei Balcani». E’ un depistaggio della Cia, Abu Omar è invece finito in una prigione speciale egiziana. Scompare anche Lady. Se ne va in pensione lasciandosi dietro un mandato di cattura, la villa nell’Astigiano e tanti «cani di strada» usati per una caccia ai terroristi che non conosce confine. Ludwig lascia il Ros per assumere l’incarico di capo della sicurezza dell’ambasciata italiana a Belgrado. E per la seconda volta la sua vita incrocia i Balcani.

P. B. G. O



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Le versioni ufficiali

CARLO GIOVANARDI
È il 30 giugno del 2005 e il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, si presenta a Montecitorio per una «informativa urgente» sul caso Abu Omar. Roma sapeva del sequestro? «E’ una notizia falsa che il governo italiano è in grado di smentire con molta tranquillità»

NICOLO’ POLLARI
In un’audizione della commissione d’inchiesta europea Nicolò Pollari, direttore del Sismi, ha dichiarato di aver ricevuto richieste di rapimento e di non essersi lanciato «in percorsi che non rispettano la linea morale dei servizi»




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www.governo.it/notizie/not_notizia.asp?idno=1569
giovedì 11 maggio 2006
Abu Omar: nota di Palazzo Chigi

A poche ore di distanza, la Presidenza del Consiglio dei Ministri avverte il dovere di tornare ancora una volta sul clamore mediatico che, con ostinata pervicacia, si tenta di alimentare intorno alla vicenda del sequestro di Abu Omar. Palazzo Chigi non ha nulla da aggiungere in merito all'assoluta estraneità dell'Esecutivo e dei Servizi di Informazione e Sicurezza rispetto al sequestro, che anche oggi si intende ribadire con lo stesso vigore e con la stessa forza di sempre, a dispetto dei reiterati tentativi con cui si cerca di insinuare dubbi e sospetti, che non hanno e non possono avere cittadinanza alcuna. Sono evocati, direttamente o obliquamente, appartenenti al SISMI, indicati talvolta nominativamente talaltra per riferimento all'incarico rivestito, che sapranno quali contegni mantenere nel rispetto dell'ordinamento. Il Governo della Repubblica non intende però sottrarsi all'imperativo morale di manifestare il più profondo sdegno per l'ignobile e vile offesa specificamente recata in alcuni di quegli articoli al Direttore dell'epoca della Divisione Operazioni del SISMI, che purtroppo non può agire in giudizio, essendo scomparso. Questi era infatti Nicola Calipari, che si legge, con incredulità pari solo alla costernazione, accusato di aver organizzato il sequestro o, addirittura, di averlo potuto fare all'insaputa dei suoi superiori, fino al Governo. La memoria di Nicola Calipari non ha bisogno di difese d'ufficio, perché è presidiata dalla sua storia personale e dal ricordo reverente e riconoscente dell'Italia intera, di tutti gli Italiani, che non hanno dimenticato e che mai dimenticheranno il suo coraggio e la sua generosità, la limpidezza dei suoi comportamenti, la visione etica del proprio dovere. Ad illazioni calunniose ed aberranti nel vilipendio di un Eroe e di un'Istituzione, così come deliranti nella speranza di trovare seguito, si risponde additando al popolo italiano chi ne è responsabile perché si comprenda sin dove può spingere un anelito distruttivo, che non si arresta nemmeno innanzi al rispetto dovuto a chi ha donato la propria vita per salvarne un'altra.



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Voli CIA e torture: le responsabilità degli Stati - scalo
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Voli e prigioni CIA: comitato UE in USA non incontra repubblicani
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DA L'ESPRESSO IN EDICOLA:

Abu Omar, la verità
gli italiani con la Cia

Un maresciallo dei carabinieri prese parte al sequestro dell'imam a Milano. E parla di un commando con molti italiani. Ecco la svolta clamorosa nelle indagini sull’operazione segreta

di Fabrizio Gatti e Peter Gomez


Un filo segreto porta da Palazzo Chigi al sequestro di Abu Omar, l’imam rapito a Milano e torturato in Egitto. Un segreto nascosto in una telefonata partita dalla segreteria di Gianni Letta, il potente sottosegretario al quale Silvio Berlusconi ha affidato la delega per i servizi di intelligence. Pochi giorni fa, come risulta a "L’espresso", da quel numero interno della presidenza del Consiglio qualcuno chiama l’ambasciata italiana a Belgrado. Ha moltissima fretta. Vuole parlare immediatamente con l’addetto alla sicurezza dell’ambasciatore: un maresciallo dei carabinieri che fino a un anno e mezzo fa ha lavorato nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano. Ed è una coincidenza curiosa. Perché proprio in quelle ore in Procura a Milano il maresciallo sta rivelando una delle storie più compromettenti per il governo Berlusconi e l’intelligence italiana. La vera storia del rapimento di Abu Omar: il sottufficiale racconta che all’ora X, più o meno le 12 del 17 febbraio 2003, addosso all’imam bloccato in via Guerzoni, a metà strada tra il centro e la periferia milanese, non ci sono soltanto gli agenti della Cia. Al sequestro partecipano anche militari italiani. E lui lo sa bene: perché quel giorno il maresciallo dei carabinieri, nome in codice Ludwig, è con loro.

Cadono così tre anni di versioni ufficiali che, una dopo l’altra, hanno sempre negato la presenza di italiani nel commando che ha rapito Abu Omar. A cominciare dalle dichiarazioni del ministro Carlo Giovanardi, mandato da Berlusconi l’anno scorso a rispondere al Parlamento: «Non è neppure ipotizzabile», ha detto Giovanardi a nome di tutto il governo, «che sia mai stata in alcun modo autorizzata qualsivoglia operazione di questa specie né, a maggior ragione, il coinvolgimento nella stessa di apparati italiani». Anche il generale Nicolò Pollari, direttore del Sismi, il servizio segreto militare, ha sempre smentito la collaborazione dell’Italia. Così come il generale ha ripetuto poche settimane fa a Bruxelles davanti alla commissione del Parlamento europeo che indaga sulle operazioni segrete della Cia: «Noi non abbiamo assistito tali comportamenti e nemmeno partecipato né appoggiato questo tipo di attività».

Il maresciallo Ludwig non è il solo italiano coinvolto nell’inchiesta. Altri stanno per essere identificati come complici o testimoni: dovrebbero essere carabinieri, agenti dei servizi segreti oppure, ipotesi più remota, 007 privati ingaggiati per l’operazione. Ma il sottufficiale è al momento l’unico a rischiare già adesso il processo e il carcere per sequestro di persona. Perché il mese scorso il ministro della Giustizia uscente, Roberto Castelli, si è definitivamente rifiutato di presentare agli Usa la domanda di estradizione dei dipendenti della Cia in servizio in Italia: sono i 22 agenti americani del commando che ha rapito Abu Omar per i quali il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, già un anno fa aveva chiesto l’arresto. Il ministro ha anche respinto la richiesta della Procura di Milano di diffondere all’Interpol la nota per le ricerche internazionali. Grazie a Castelli, gli 007 della Cia potranno così andare ovunque nel mondo senza correre il rischio di essere fermati e consegnati all’Italia. Come pubblici ufficiali, i rapitori rischiano condanne fino a dieci anni. Più le aggravanti per le torture subite dall’imam. Ma a questo punto i carabinieri e gli altri italiani coinvolti nell’indagine manterranno la consegna del silenzio con la prospettiva di essere gli unici a pagare? Forse è proprio questo il motivo della misteriosa telefonata partita dal numero interno di Palazzo Chigi.

Ludwig deve il suo nome in codice ai capelli biondi e al fisico da tedesco. Dopo il sequestro di Abu Omar ha fatto carriera: è stato selezionato per il posto di addetto alla sicurezza dell’ambasciata a Belgrado, incarico a volte riservato ad agenti del Sismi. Ma è nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano che cominciano e finiscono i suoi giorni del Condor: la partecipazione a quella che qualcuno, per il suo soprannome, già chiama “operazione Ludwig”. La sezione antiterrorismo è la stessa da anni in prima linea nella caccia ai terroristi di Al Qaeda. E, con la Digos di Milano, è tra le squadre di investigatori più attive nel sud Europa. Tanto che, dopo l’attacco dell’11 settembre, la Cia è spesso negli uffici del Ros, nella grande caserma in via Lamarmora a un isolato dal Palazzo di Giustizia. L’agente americano in contatto con i carabinieri è Robert Seldon Lady, 52 anni, nato in Honduras e capo della Cia a Milano. È un uomo massiccio, con la barba appena sbiancata dall’età e le mani grandi come badili. Lady, Bob per gli amici, è nell’elenco dei 22 agenti consegnato al ministro Castelli: ha lasciato l’Italia giusto in tempo per evitare l’arresto.

Nelle indagini contro Al Qaeda, tra il 2001 e il 2004 Bob si mette a disposizione degli investigatori italiani e fornisce notizie, riscontri fotografici, microspie supertecnologiche. Si fa anche molti amici sia nel Ros, sia nella Digos, sia tra gli agenti dei regimi nordafricani in azione a Milano. Nel 2002, qualche giorno prima di Natale, li invita tutti a un party. Appuntamento nella cascina ristrutturata che Bob ha comprato tra le colline di Penango, in provincia di Asti. Gli mancano pochi mesi alla pensione e con la moglie ha deciso di rimanere in Italia dopo il congedo. Sotto il cielo grigio di quel pomeriggio, agenti segreti e investigatori dell’antiterrorismo sfilano nel breve viale che dal cancello porta in casa. Abbracci, strette di mano. Gli auguri e i bicchieri di vino rosso del posto. Da quanto risulta a “L’espresso”, il maresciallo Ludwig è tra gli invitati. Di Bob Lady è un carissimo amico. C’è anche un capitano della stessa sezione del Ros. Un ufficiale che poche settimane fa il Sismi ha scelto tra gli aspiranti 007.

Possibile che in tre anni non si sia mai accorto che, con il sequestro di Abu Omar, un suo maresciallo e forse altri suoi dipendenti si erano messi agli ordini di un servizio segreto straniero? Il giorno in cui tutti gli 007 di Milano si ritrovano nella cascina di Penango mancano tre mesi alla guerra in Iraq. I piani di invasione sono pronti. E forse in un cassetto dell’ambasciata americana a Roma è pronta la relazione per ottenere da Washington il via libera all’operazione Ludwig. Il bersaglio ha un nome lungo: Hassan Moustafà Osama Nasr, nato ad Alessandria d’Egitto il 18 marzo 1963. Nelle moschee di viale Jenner e via Quaranta a Milano lo conoscono come Abu Omar. Il ministero dell’Interno gli ha concesso lo status di rifugiato politico. E la Digos lo sta pedinando da tempo: l’imam è sospettato di reclutare combattenti e kamikaze da inviare in Iraq per la guerra ormai imminente. Forse quel giorno di dicembre, nella sua casa piemontese, Bob ha già spiegato a Ludwig le intenzioni della Cia. Forse gli ha già raccontato del piano di Abu Omar di far esplodere il pullman con gli allievi della Scuola americana di Milano: un piano di cui però la Digos non ha mai trovato riscontri. Bob e Ludwig si rivedono ancora nell’ufficio del Ros. E poi a cena a casa di Ludwig, ogni volta che Bob deve rimanere a Milano per lavoro. Il 16 febbraio 2003, da quanto risulta a “L’espresso”, vanno insieme in via Guerzoni. È una domenica, c’è poco traffico. Forse passano davanti al palazzo in via Conte Verde 18 dove Abu Omar abita con la moglie Nabila Ghali, in un appartamento messo a disposizione dalla moschea di viale Jenner. Alla fine del sopralluogo Bob consegna a Ludwig un cellulare. E gli ripete cosa dovrà fare. Il maresciallo del Ros deve fermare Abu Omar e chiedergli i documenti. Tutto qui. Oppure intervenire con il suo tesserino dei carabinieri nel caso l’operazione fosse ostacolata dall’improvviso controllo di una volante o dei vigili urbani. Gli agenti della Digos invece non sono più un problema: i pedinamenti di Abu Omar sono stati sospesi da almeno due mesi.

La mattina dopo, il 17 febbraio, Ludwig è in ufficio. I suoi colleghi sono impegnati in un servizio a Cremona. Lui resta a Milano e all’ora stabilita - racconta - va all’appuntamento in moto. Deve aspettare il contatto in piazzale Maciachini. Si ferma un’auto. L’uomo al volante, l’unico a bordo, lo chiama con il nome in codice. È sicuramente italiano. Ludwig sale. Fanno tre isolati, girano in via Guerzoni e vedono subito Abu Omar arrivare a piedi. È l’ora X. Come in un film di spionaggio Bob Lady, regista dell’operazione, non si fa vedere. Il maresciallo scende dall’auto e chiede i documenti. L’imam dice di non avere capito. Lui ripete la domanda in inglese. L’imam consegna il passaporto. All’improvviso, da un furgone parcheggiato lì accanto, esce una squadra di uomini. Forse c’è qualche americano. Ma chi parla impreca in italiano, senza accento straniero. Prelevano Abu Omar, che grida, chiede aiuto. Il maresciallo Ludwig si sposta per non essere travolto. In meno di 30 secondi il furgone parte verso la periferia. Il maresciallo resta immobile, con il passaporto di Abu Omar in una mano e il cellulare di Bob Lady nell’altra. Butta tutto dentro il finestrino dell’auto che l’ha portato fin lì. L’italiano al volante accelera e se ne va. Poco dopo squilla il cellulare personale di Ludwig. È un ufficiale dei carabinieri che vuole avere notizie del suo dipendente. Forse è solo una coincidenza. Ma le antenne dei telefonini sui tetti del quartiere registrano: posizione, numeri, durata delle conversazioni. Dall’altra parte della strada una donna egiziana vede gli 007 in azione e racconterà tutto a un’amica. Nel giro di due giorni la comunità araba a Milano sa che Abu Omar è stato rapito. Viene presentata la denuncia alla Digos. L’indagine sembra facile: basterebbe chiedere alla Telecom e alle altre compagnie i dati sul traffico telefonico nella zona all’ora del rapimento. Ma i risultati arrivano soltanto in ottobre. E non servono a nulla perché non riguardano le telefonate del 17 febbraio, ma quelle del 17 marzo. Dopo otto mesi bisogna ricominciare le indagini daccapo. Adesso i nomi di altri italiani in azione con la Cia potrebbero ancora nascondersi dietro i numeri di telefonino. Soprattutto quelli rimasti senza intestatario. Una copertura ottenuta grazie alla complicità di alcune compagnie telefoniche. Come ha scoperto “L’espresso”, centinaia di schede Sim vengono periodicamente consegnate ai servizi segreti senza essere registrate. Numeri fantasma da usare e buttare dopo ogni operazione sporca.




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LA STAMPA
11 maggio 2006
ESTERI
IMAM RAPITO A MILANO. LA CONFESSIONE AI MAGISTRATI DI MILANO CHE STANNO VALUTANDO LA POSIZIONE DI ALCUNI 007: «CON ME ALTRI ITALIANI»
Abu Omar, c’era anche un maresciallo del Ros
Roma sapeva del sequestro Cia, Palazzo Chigi smentisce
Guido Ruotolo


ROMA. Gli italiani sapevano e soprattutto parteciparono all’azione della Cia a Milano, al sequestro dell’imam egiziano Abu Omar, avvenuto in via Guerzoni, il 17 febbraio del 2003. C’era un sottufficiale del Ros dei carabinieri, L.P., 45 anni, quella mattina, e fu lui a bloccare l’imam, a chiedergli i documenti e a garantire che non scappasse quando fu spinto nel furgone bianco, che poi puntò dritto alla base militare americana di Aviano. E su voli Cia, prima trasferito alla base militare americana di Ramstein, Germania, e poi al Cairo, dove arrivò la sera stessa e da allora è detenuto. E c’erano anche altri italiani, probabilmente uomini del Sismi, che dell’azione e della sua preparazione furono informati e, addirittura, ne sarebbero stati parte attiva nella fase preparatoria.

Il sottufficiale del Ros, interrogato più volte dai procuratori aggiunti di Milano, Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, ha confessato la sua partecipazione all’azione «coperta», e avrebbe anche confermato che altri italiani furono coinvolti e sapevano. La procura di Milano starebbe valutando in queste ore le posizioni anche di vertici e uomini del Sismi, il servizio segreto militare. Il maresciallo, L. P., che dal reparto antiterrorismo del Ros di Milano è stato poi trasferito alla sede diplomatica italiana di Belgrado, è finito sul registro degli indagati della procura di Milano dopo che le indagini della Digos avrebbero accertato che il suo cellulare fu presente nella zona di viale Jenner, viale Guerzoni, all’ora compatibile con il sequestro.

Non solo, il maresciallo anche nei giorni precedenti avrebbe chiamato o sarebbe stato contattato da cellulari in dotazione alla squadra della Cia che materialmente organizzò e portò a termine il sequestro, in particolare il capocentro Cia di Milano, Robert Lady. C’è anche una testimonianza agli atti della inchiesta secondo cui Abu Omar fu seguito da un furgone di color bianco davanti al quale viaggiava un’autovettura di piccola cilindrata, di color rosso, guidata da un uomo con i capelli biondi. Abu Omar, dal 17 febbraio del 2003 è detenuto in Egitto. Ufficialmente, si sarebbe recato spontaneamente nel suo paese d’origine, dove poi è stato arrestato per ragioni di sicurezza. Dunque, non pare vero, come si sono ostinati a dire in questi anni governo e apparati dell’intelligence, che nessuno sapeva, che dell’operazione.

Palazzo Chigi lo ha ribadito ancora ieri in una nota: «La Presidenza del Consiglio dei Ministri ribadisce, con forza e con rigore, l'assoluta estraneità propria e dei Servizi di Informazione e Sicurezza in relazione alla vicenda del sequestro di Abu Omar». Certo, bisognerà vedere chi e quale livello ha chiamato in causa il maresciallo del Ros dei carabinieri di Milano, ma che il Sismi sapesse sembra oramai accertato. Secondo indiscrezioni, da nuove testimonianze e da dati raccolti dagli investigatori della Digos, a conferma delle dichiarazioni del maresciallo del Ros, vengono chiamati in causa 007 del Sismi, legati strettamente a uno dei massimi vertici del Servizio, Marco Mancini. Dati che sono puramente investigativi e che non tengono assolutamente conto delle indicazioni esposte in lettere anonime giunte a vari giornali, compreso il nostro, che pure raccontano una storia molto verosimile.
Sia perché esplicitamente l’anonimo fa riferimento al maresciallo del Ros che effettivamente ha partecipato all’azione sia perché fa intendere che il Sismi ha partecipato al sequestro nella sua fase preparatoria. Il direttore del Sismi, Niccolò Pollari, nell’audizione del 10 marzo scorso davanti la commissione d’indagine del Parlamento Europeo sui voli Cia, ha ammesso che una intelligence alleata gli propose di portare a termine sequestri di persona e che lui rifiutò: «Mi è stato chiesto se nell’ambito del mio mandato di direttore del Sismi - ha risposto Pollari rivolto agli europarlamentari - ho ricevuto o appreso che ci sarebbero state delle richieste di rapimento di persone: sì, rispondo di sì e del resto ho detto la stessa cosa davanti alla Commissione parlamentare (il Copaco, ndr), ma ho risposto di no e se qualcuno me l’avesse ordinato avrei anche dato le dimissioni».

Un’audizione impacciata, «reticente» per diversi europarlamentari. Pollari si è speso molto nel sottolineare che il Sismi non ha mai «assistito», «partecipato», «appoggiato» azioni illegali. E che della presenza a Milano della squadra «esterna» della Cia non ne fu informato («I servizi non fanno il controllo del territorio, che spetta alle forze di polizia»). Ammettendo così esplicitamente che in via teorica azioni coperte o illegali possono avvenire all’insaputa della intelligence. Sul sequestro dell’imam egiziano a Milano, Pollari ha detto di averlo saputo dopo: «Un mio funzionario ha appreso la notizia qualche giorno dopo la scomparsa perché un alto dignitario musulmano l’ha avvicinato facendogli sapere che la famiglia dell’Imam era preoccupata perché non lo vedevano da qualche giorno. Questo funzionario gli ha consigliato di rivolgersi alla polizia per denunciarne la scomparsa da più di 2, 3 giorni e il dignitario gli ha risposto che la famiglia si era rivolta a lui perché era una questione particolare.

L’imam aveva l’abitudine di uscire di casa con le fotocopie dei suoi documenti ma quel giorno se ne era uscito con l’originale di questi stessi documenti e quindi forse era stata sua intenzione sparire». Da indiscrezioni, sembra che questa ricostruzione non sia mai stata comunicata alla procura di Milano ma soltanto a servizi segreti e a forze di polizia.



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LA STAMPA
11 maggio 2006
GLI USA «NESSUNA LEGGE E’ STATA VIOLATA, ANCHE PER NOI LA TORTURA E ILLEGALE»
Washington conferma
«D’accordo con Roma»
inviato a WASHINGTON


«Nicolò Pollari ha detto in una testimonianza che qualcuno gli chiese di rapire Abu Omar? Beh, non siamo stati noi, chiedete a lui di fare il nome di chi avanzò la richiesta, forse si chiarirà tutto». Le notizie che rimbalzano da Bruxelles e Roma sul rapimento dell'imam egiziano, a Milano nel febbraio 2003, vengono accolte da un alto funzionario dell'amministrazione Usa come la conferma che l'operazione «non fu illegale» per il semplice motivo che «agiamo sempre mettendo al corrente i governi locali» e dunque in quel caso «l'Italia sapeva», probabilmente fu proprio qualche autorità del governo di Roma a chiedere al capo del Sismi di rapire Abu Omar, non gli americani.

Di questi temi si accinge a parlare oggi la commissione del Parlamento Europeo sul «presunto utilizzo di Paesi europei da parte della Cia nel trasporto e detenzione illegale di persone» negli incontri in programma al Dipartimento di Stato con Dan Fried, assistente Segretario di Stato per gli Affari Europei, e John Bellinger, consulente legale di Condoleezza Rice. Sono almeno quattro gli addebiti che la commissione - guidata da Carlos Coelho ed il cui relatore è il Ds Claudio Fava - solleva nei confronti di Washington: l'illegalità del trasferimento in Paesi terzi di presunti terroristi (le operazioni di «renditions»); la responsabilità della Cia nei rapimenti avvenuti in Europa; le violazioni delle norme della Convenzione sui Diritti Umani, della Convenzione contro la Tortura e della Carta dei Diritti dell'Unione Europea; la violazione della convenzione di Chicago sul rispetto della sovranità nazionale a causa di un migliaio voli clandestini.

Per ognuna di queste accuse l'amministrazione Usa ha una risposta che verte attorno al concetto-base secondo cui «le "renditions" non sono illegali perché avvengono sulla base di accordi bilaterali» garantiti «dai trattati di estradizione». «Se la commissione del Parlamento Europeo afferma che si tratta di operazioni illegali deve prima dimostrarlo» spiega con ostentata tranquillità l'alto funzionario, sottolineando che «i governi dei Paesi interessati sono sempre coinvolti, non agiamo alle spalle degli alleati nè violiamo i trattati internazionali». Ciò significa che anche l'Italia era al corrente dell'operazione della Cia a Milano per Abu Omar. «Il governo italiano in senso lato, un ramo del governo o un ramo di un ramo» specifica, sottolineando che «quando si tratta di operazioni di intelligence spesso sono pochi singoli individui a sapere cosa avviene». La Cia dunque «non può essere indicata come responsabile di rapimenti illegali» perché «tutte le "renditions" sono concordate a livello bilaterale». Da qui l'accento sulla testimonianza di Pollari: «Sono parole che possono aiutare a comprendere ciò che è avvenuto, chi gli chiese di fare cosa? In proposito l'unica cosa certa è che non furono gli Stati Uniti». L'aspetto della «legalità» è centrale nell'approccio di Washington alle «rendition» e, per l'alto funzionario, fa cadere anche l'obiezione sulla presunta violazione della Convenzione di Chicago sui voli in quanto «non c'è violazione di sovranità dei cieli se si tratta di un volo di Stato che si svolge sulla base di accordi bilaterali» dice, mostrando il testo dell'articolo 3 della stessa Convenzione. E ancora «le "renditions" sono richieste molto spesso dai Paesi interessati per liberarsi di persone scomode sul piano della sicurezza ed anche dai famigliari preoccupati del fatto che un proprio parente sia finito in un network terrorista». Così è avvenuto in diversi casi in Pakistan e ciò potrebbe essersi ripetuto con Abu Omar. La «cornice di legalità internazionale» porta il funzionario Usa ad escludere che vi siano state violazioni delle convenzioni sui diritti umani mentre l'unica obiezione che riceve maggiore attenzione è quella relativa al possibile uso di torture nei confronti dei terroristi una volta trasferiti in Paesi terzi. «La legge americana vieta radicalmente ogni forma di tortura - spiega, ricordando quanto disse la Rice a Bruxelles a inizio dicembre - e dunque ogni "rendition" è vincolata al rispetto di tali norme». Da qui la richiesta ai Paesi dove i terroristi vengono spostati - nel caso di Abu Omar è l'Egitto - di non torturare il detenuto: se il Paese che riceve il detenuto pratica la tortura viene meno all'intesa siglata.

Visto da Washington l'intero caso Abu Omar in Italia - come altri simili in Europa - si spiega con il fatto che «spesso gli Stati Uniti vengano usati come capro espiatorio» da governi che «per ragioni politiche» non rendono note le decisioni prese sulla lotta al terrorismo. «But we're used to be beaten up», ma siamo abituati a prenderle.


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