LEO SISTI E VITTORIO MALAGUTTI: MONACO PARADISO PERDUTO

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INES TABUSSO
00martedì 21 febbraio 2006 20:52
L'ESPRESSO
17 febbraio 2006
Monaco paradiso perduto
Indagini più facili per i pm. Il primo sequestro di soldi mafiosi. Lo stop a Fiorani. Il principe Alberto annuncia leggi più dure. E gli italiani di Montecarlo tremano
Vittorio Malagutti e Leo Sisti

Un appartamento nel cuore di Montecarlo, in un elegante palazzone incastrato tra gli alberghi di lusso nella zona del casinò. Sulla porta una targa senza pretese: 'Bipielle Suisse, bureau de representation'. Questo è quel che resta del sogno monegasco di Gianpiero Fiorani, che ai bei tempi (per lui) delle scalate in Borsa e dell'amicizia con il governatore Antonio Fazio, cercò di aprire bottega anche nel Principato. Voleva una filiale, uno sportello dove gestire gli affari off shore di qualche cliente vip. E magari anche quelli dei suoi amici e della sua rete di società fantasma. Gli andò male. Su pressione della Banca di Francia, che esercita una vigilanza informale sulla piazza bancaria di Monaco, le autorità del Principato bloccarono le ambizioni del rampante manager lodigiano, costretto a ripiegare su un semplice ufficio di rappresentanza.
Correva l'anno 2004 e all'estero, a differenza che in Italia, i metodi spicci di Fiorani sollevavano già dubbi e perplessità tra i guardiani del mercato. Adesso che lo scandalo è esploso, con il contorno di inchieste penali, arresti e polemiche politiche, i banchieri di Montecarlo esibiscono lo stop alla Popolare di Lodi come un certificato di buona condotta. La prova evidente che il centro off shore della Costa Azzurra, storicamente frequentatissima dagli italiani, non è più un porto franco per i capitali in fuga. Che nel panorama in continua evoluzione dei paradisi fiscali il Principato ha saputo cancellare sospetti e accuse del più recente passato. Riciclaggio? Denaro sporco? "Storie vecchie", tagliano corto all'ombra della Rocca, l'antico castello dove risiede la famiglia regnante. E non mancano di far notare che proprio nei primi giorni di febbraio, con un provvedimento senza precedenti, il tribunale monegasco ha dato notizia del sequestro preventivo di 21 milioni di euro depositati alla Banca del Gottardo e all'Ubs: frutto dei 'risparmi'di due costruttori palermitani sotto processo per mafia.
A dirigere il coro è il principe Alberto in persona, incoronato nel luglio scorso, tre mesi dopo la morte del padre Ranieri. Pochi giorni prima dell'insediamento ufficiale il nuovo sovrano ha lanciato il suo programma con un'intervista al quotidiano parigino 'Le Monde'. Dopo aver ricordato i provvedimenti che negli ultimi anni sono stati presi per combattere con più efficacia il riciclaggio, Alberto, in tema di segreto bancario, si è spinto ad affermare: "Niente è scritto nella pietra. Il segreto per me non è più un tabù. Era un 'plus' che offriva Monaco rispetto ad altre piazze finanziarie, ma non deve essere un ostacolo alla nostra esigenza di etica e di trasparenza del sistema".
Obiettivi ambiziosi quelli del successore di Ranieri. Che però dovranno fare i conti con una realtà ben più complessa, legata a un passato in cui il minuscolo Stato (35 mila abitanti) si è attirato critiche feroci per aver favorito la criminalità finanziaria. Risale solo all'ottobre del 2000 il cosiddetto dossier Montebourg-Peillon, dal nome dei due deputati francesi Arnaud De Montebourg e Vincent Peillon autori di un clamoroso rapporto parlamentare che metteva all'indice i disinvolti comportamenti - a loro dire - delle banche del Principato.
Erano quegli gli anni in cui anche il Gafi, braccio operativo dell'Ocse nell'antiriciclaggio, lamentava la scarsa collaborazione di Montecarlo. L'attacco francese all'epoca venne letto anche come una forma di pressione del governo di Parigi per scoraggiare l'evasione fiscale in direzione di Monaco. Adesso invece, si sbilanciano il principe e i suoi collaboratori, è cominciata l'era della tolleranza zero. Il Siccfin, l'organismo monegasco antiriciclaggio, annuncia che le segnalazioni di operazioni sospette da parte di operatori finanziari (banche, agenti immobiliari, gestori di patrimoni e anche il casinò) sono passate dalle 341 del 2004 alle 375 del 2005. In particolare i dossier trasmessi alla locale procura l'anno scorso sono stati 20 contro i 18 registrati nel corso del 2004.
Qualche segnale concreto della svolta appena annunciata si è già visto. Il 25 gennaio i tre pm milanesi impegnati nell'inchiesta sulla scalata all'Antonveneta (Francesco Greco, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti) sono sbarcati in Costa Azzurra per trovare nuovi riscontri sui conti aperti nelle banche monegasche dall'ex coppia di vertice di Unipol, Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti. Gli investigatori sono convinti che la soluzione a molti misteri nel grande intrigo finanziario della scorsa estate sia custodita nei caveaux degli istituti del Principato. Del resto sia Fiorani sia il suo braccio destro Gianfranco Boni erano di casa a Montecarlo, dove vantavano conoscenze e appoggi nelle filiali di grandi banche come Ubs, Compagnie monegasque de banque (Cmb) e Banca della Svizzera italiana (Bsi).
I magistrati milanesi, almeno finora, hanno ricevuto promesse d'aiuto. Un bel salto di qualità rispetto al recente passato. Charles Duchaine, giudice a Montecarlo tra il 1995 e il 1999, ha raccontato nel suo libro intitolato 'Juge à Monaco' che, appena arrivato, un collega lo mise in guardia. "Qui la giustizia funziona a due velocità: se un maghrebino viene preso con tre grammi di cannabis si fa tre mesi di prigione. Normale. Se però un potente viene fermato per uso di cocaina meglio lasciar perdere se non vuoi avere delle noie".
Esagerazioni? Nell'indagine sui presunti fondi neri di Mediaset, chiusa un anno fa, i pm di Milano Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo presero carta e penna per lamentare, in una lettera al direttore degli affari giudiziari del palazzo di giustizia di Monaco, "la perdurante inerzia in relazione alla richiesta" di interrogare dei testimoni. Un'inerzia che, secondo i magistrati milanesi, costituiva "a tutti gli effetti un rifiuto di assistenza". A quel tempo, tra l'altro, circolarono indiscrezioni a proposito di un intervento del vecchio principe Ranieri per proteggere uno dei testimoni dell'inchiesta in cui è coinvolto anche Silvio Berlusconi.
Adesso invece è proprio l'erede Alberto, appena salito al trono, a lanciarsi in un'offensiva diplomatica nel nome della trasparenza e della lotta alla finanza sporca. Fino al punto di arrivare a mettere in discussione il sacro principio del segreto bancario. Ce n'è abbastanza per allarmare i manager degli istituti di credito e i gestori di patrimoni. Che, infatti, prendono le distanze. Da una parte, ovviamente, assicurano piena collaborazione nella lotta al riciclaggio, ma non mancano neppure di ricordare che la tutela della riservatezza sui conti correnti è uno dei capisaldi della piazza finanziaria monegasca, insieme alla ridottissima imposizione fiscale per i residenti.
La posta in gioco è altissima. I banchieri devono salvare l'onore della categoria, ma anche i profitti di un business che negli ultimi anni ha subìto duri colpi. Dati precisi in materia non ce ne sono, ma gli addetti ai lavori calcolano che quasi il 20 per cento dei capitali parcheggiati a Montecarlo ha ripreso la via dell'Italia grazie alla legge sullo scudo fiscale varata a due riprese dal governo Berlusconi tra il 2001 e il 2003. In qualche caso il denaro ha fatto un giro tortuoso. È volato in Svizzera e poi, da lì, ha varcato la frontiera di Chiasso. Il risultato finale però non cambia: i forzieri delle banche si sono alleggeriti.
Le stime più recenti fissano in circa 60 miliardi di euro il totale delle attività in gestione a Montecarlo, dove sono censite una quarantina di banche. Non c'è spazio per tutti, come dimostra la lunga sequenza di fusioni, acquisizioni e riassetti che negli ultimi anni ha ridisegnato la mappa degli istituti di credito monegaschi. Marchi storici come Crédit commercial de France (Ccf) e Republic national bank sono scomparsi, assorbiti dal colosso mondiale Hong Kong Shanghai bank (Hsbc). Il gruppo Bnp-Paribas (lo stesso che in Italia ha presentato un'offerta per Bnl) ha comprato Bank von Ernst e la Société monégasque de banque privée. La filiale di Monaco della Banca del Gottardo, tra le preferite dalla clientela italiana, in passato spesso al centro di controverse manovre alla Borsa di Milano, è stata venduta dalla casamadre svizzera alla banca Jacob Safra.
Fin qui le operazioni più importanti, che in qualche caso hanno dato il via a tagli di personale. Resistono i colossi come Société Générale o Crédit Suisse. Così come la francese Cfm (gruppo Crédit Agricole), prima in classifica per attività in bilancio. La banca più importante a controllo italiano è invece la Compagnie monégasque de banque (Cmb), che fa capo per intero a Mediobanca. Proprio qui è andato in scena nelle scorse settimane un cambio della guardia che non poteva passare inosservato. Enrico Braggiotti, già numero uno della Comit negli anni Ottanta, poi coinvolto nell'inchiesta Mani Pulite, ha lasciato la carica di presidente della Cmb. L'uscita di scena dell'ultraottantenne Braggiotti, considerato uno dei banchieri più potenti e influenti del Principato, è stata vissuta come una sorta di svolta epocale per la comunità finanziaria locale. Un segnale di rinnovamento rafforzato, a dicembre del 2005, dalla nomina di un nuovo direttore generale: il giovane Edoardo Loewenthal, 43 anni, già in forza alla Banca Lombarda e al gruppo finanziario Ersel.
Nel consiglio della Cmb siedono grandi nomi del jet set della finanza italiana come il presidente delle Generali Antoine Bernheim e Giampiero Pesenti insieme ad alcune personalità monegasche che hanno un filo diretto con la famiglia del principe. Per esempio il ministro plenipotenziario Raoul Biancheri. Facile capire, allora, perché la banca monegasca controllata da Mediobanca sia considerata uno dei principali crocevia di tutte le trame finanziarie che in qualche modo coinvolgono Montecarlo. Non fa eccezione neppure l'ultima clamorosa vicenda degli affari segreti di Consorte, Fiorani e compagni. Si è scoperto ('L'espresso' numero 47 del 2005) che uno dei principali punti di riferimento monegaschi per la banda dei furbetti era il banchiere Paolo Di Nola, direttore aggiunto della Compagnie monégasque de banque e fino al 2002 in forza all'Ubs, sempre nel Principato.
Le intercettazioni di decine di conversazioni telefoniche tra Di Nola e Boni, la mente finanziaria della Popolare di Lodi, da due mesi agli arresti, sono finite agli atti dell'inchiesta della procura di Milano. La liaison, a quanto pare, si era consolidata nel tempo. Già nel 2002 oltre 2 milioni di euro da dividere in parti uguali tra Consorte e Sacchetti approdarono all'Ubs di Montecarlo. Quei soldi erano il frutto di operazioni finanziarie ancora da chiarire che coinvolgevano anche la Lodi. E a gestire i conti cifrati era proprio Di Nola. Così, il nome del banchiere italiano è finito nel mirino dei magistrati milanesi. Che adesso hanno chiesto la collaborazione dei loro colleghi monegaschi per chiarire fino in fondo gli affari segreti della banda di Fiorani a Montecarlo.
Dalla risposta si potrà capire se davvero all'ombra della Rocca il principe ha inaugurato l'era della tolleranza zero.

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