IL CONVIVIO RIFORMISTA

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INES TABUSSO
00lunedì 16 gennaio 2006 22:20
IL RIFORMISTA
16 gennaio 2006
Autoregolamentazione. Come depenalizzare il controllo sulla moralità pubblica
Un codice etico per i politici attovagliati

Dunque, ricapitoliamo. D’Alema ha visto a cena Bernheim, Berlusconi ha visto a pranzo Bernheim. Veltroni e Bassanini sono stati al desco una volta ciascuno con Bernheim, Berlusconi due volte con Fiorani (non si sa se prima o dopo che Fiorani aprisse un fido di 4 milioni e seicentomila euro per il Foglio). La sera fatale del 12 luglio Gnutti era a cena con un Berlusconi «commosso» per la riuscita della scalata Antonveneta. Fassino, invece, era agitato perché «Gnutti va alle cene per le elezioni di Berlusconi». L’Italia politica è un grande convivio. Cene agognate e cene proibite. La Guardia di Finanza ha surclassato Dagospia. L’orecchio del maresciallo arriva dove l’occhio del fotografo Pizzi non può. Il potente è «attovagliato». Dimmi chi è il tuo commensale e ti dirò chi sei. Tutto regolare, tutto lecito. Il mestiere del politico è «vedere gente», dicono morettianamente gli interessati. Anzi, se ci spiano mentre vediamo gente, siamo vittime di un complotto. Giusto. Fino a un certo punto.
Nel solito modo caotico, il nostro paese sta scoprendo un problema di etica pubblica che a democrazie più antiche e più malate è noto da tempo: il lobbismo degli affari. Meno la politica è ideologica, più si occupa di affari. Più la società è complessa, più gli affari hanno bisogno della politica. In questi stessi giorni un analogo scandalo politico scuote l’America: il superlobbista Jack Abramoff sta per dare ai giudici i nomi dei parlamentari repubblicani (da un minimo di otto a un massimo di venti) che ha corrotto. Di nuovo il Congresso è sotto l’accusa di essere una dependance di K Street, la strada di Washington che ospita gli uffici di trentamila lobbisti.
Il male è comune, ed è endemico nelle democrazie. Ciò che è diverso qui, è che noi non abbiamo altre regole che quelle del codice penale. Non c’è separazione tra illecito e illegale. Non c’è un codice etico in grado di definire i comportamenti politicamente ambigui, seppure non penalmente rilevanti. Così tutto diventa penale, con effetti perversi. Perché i giudici finiscono per avere nelle loro mani l’onorabilità del politici, un potere straordinario, di solito centellinato col contagocce sui giornali. Bisogna depenalizzare la trasparenza politica, e per farlo serve un’autoregolamentazione. Un pranzo è innocente? Può darsi, ma in America un parlamentare non può farselo pagare se il conto supera i 49,99 dollari. Un prestito è legittimo? Forse, però Peter Mandelson, stella del New Labour, dovette dimettersi da ministro per averne accettato uno da poche centinaia di migliaia di euro. Un leasing bancario è normale? Certamente, ma a Westminster si deve dichiararlo a inizio legislatura nel registro degli interessi: se poi si scopre che ha dimenticato qualcosa, il parlamentare viene sospeso dalle funzioni. Piuttosto che sbranarsi l’un l’altro per un voto in più, eccitando il moralismo che li perderà, i politici dovrebbero proporre delle regole comuni. Codici di autoregolamentazione, non un’altra raffica di leggi. Codici che tolgano al magistrato penale il monopolio del controllo sulla trasparenza della politica. Codici che consentano al pubblico di formarsi un’opinione senza dover sbirciare nelle carte dei pm che i giornali selezionano per loro.
Ne servirebbero almeno tre, di codici. Il primo per regolare l’attività dei lobbisti: sempre meglio incontrare loro, alla luce del sole e negli uffici della Camera, che frequentare i loro datori di lavoro, banchieri e industriali, nelle case private. Da un certo livello in su, dovrebbe essere obbligatorio registrare date, luoghi e contenuti degli incontri: spingerebbe a conversazioni più sorvegliate. Se sapessimo che tutto ciò che accade a Palazzo Chigi è registrato, ci fideremmo di meno delle riunioni a Palazzo Grazioli o in Sardegna. Il secondo codice dovrebbe fissare l’entità massima di dazioni, regali, prestiti, contributi ai giornali, viaggi e pranzi che i politici possono accettare. Le relazioni personali sono lecite, ma entro certi limiti per chi gestisce una fetta di potere pubblico.
Infine serve un codice che garantisca diritti all’opposizione. Chi governa dispone di mezzi straordinari di conoscenza, connessi alla propria funzione. Il premier ha i servizi alle sue dipendenze, raccoglie segreti di ufficio, può interrogare un funzionario pubblico. E’ dunque in una posizione privilegiata nei confronti dell’opposizione, e può essere tentato di usarla per colpire gli avversari. Essi devono dunque avere la possibilità di ricorrere a una magistratura indipendente (gli ex presidenti della Consulta?) ogni volta che lo ritengano necessario per difendere la propria onorabilità di fronte all’opinione pubblica.
Tutte le regole possono essere violate, e il potere porta con sé la voglia di violarle. Le uniche difese di cui una democrazia dispone sono trasparenza e pubblicità: fissare per iscritto ciò che è lecito e ciò che non lo è, e poi lasciare che sia il voto, non un brogliaccio della Finanza, a sanzionare.
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