E' MORTO MARCINKUS, IL MONSIGNORE CHE DICEVA "NON SI PUO' DIRIGERE LA CHIESA CON LE AVEMARIA"

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INES TABUSSO
00mercoledì 22 febbraio 2006 20:43

LA STAMPA
22 febbraio 2006
PHOENIX, ARIZONA. L’EX POTENTISSIMO CAPO DELL IOR AVEVA 84 ANNI
Da banchiere del Papa a povero prete
E’ morto Marcinkus
Il monsignore faceva lezioni di catechismo
e portava la comunione agli anziani ricoverati

NEW YORK. Alle sei di lunedì sera Paul Casimir Marcinkus, quarto parroco nella chiesa St. Clement of Rome di Sun City, aveva un appuntamento a cena con l’ex vescovo di Phoenix Thomas O’Brien. Lo vedeva una volta al mese, per amicizia più che per affari. Verso le sette non era ancora arrivato, e siccome in genere si comportava da tipo preciso, O’Brien aveva telefonato ai suoi vicini per chiedere di controllare la situazione. Nella casa le luci erano accese, ma nessuno rispondeva al citofono. I vicini allora hanno chiamato la polizia, che ha sfondato la porta. Sdraiato sul pavimento, gli agenti hanno trovato il cadavere di Marcinkus, dichiarato ufficialmente morto alle 7,51 della sera.

Così, a 84 anni compiuti il 15 gennaio scorso, si è conclusa la vicenda terrena di quello che era stato una dei banchieri più famosi e famigerati al mondo. L’ex capo dell’Istituto per le Opere di Religione, coinvolto nello scandalo per il fallimento del Banco Ambrosiano, è finito come un prete solo di provincia nel deserto dell’Arizona. Marcinkus era nato nel 1922 a Cicero, Illinois, nella famiglia di un lavavetri di origini lituane. Là era stato ordinato sacerdote nel 1947, e laggiù era tornato nel 1991, quando le polemiche mai finite sullo scandalo dell’Ambrosiano avevano convinto Giovanni Paolo II ad allontanarlo dal Vaticano.

La pensione a Chicago, però, era durata poco. Quello di Marcinkus era ancora un nome troppo ingombrante, per trovare pace in uno dei grandi centri finanziari degli Stati Uniti. I giornalisti erano curiosi, le inchieste che lo riguardavano continuavano, e lui in Illinois sarebbe diventato una distrazione eccessiva per la Chiesa locale e per la Santa Sede. Pochi mesi dopo, perciò, aveva fatto le valigie e si era trasferito nel Far West. Quando era ancora in Vaticano, ogni inverno Marcinkus passava qualche giorno in vacanza vicino a Phoenix. Andava a trovare l’ex vescovo di Chicago Primo, un suo amico che per la pensione aveva scelto il caldo dell’Arizona. Quando aveva capito che a Chicago non c’era più posto per lui, l’ex capo dello Ior aveva chiesto ospitalità al collega.

Nel 1997, poi, aveva comprato un modesto appartamento da 120.000 dollari a Sun City, una comunità per pensionati vicina a Phoenix dove abitano meno di 40.000 anime. La casa aveva sette stanze e dava su un campo da golf, che a sentirlo così dà un’idea di opulenza. Da quelle parti, però, non era niente di eccezionale. Chi lo conosceva bene diceva che lui aveva solo due desideri: rivedere la Lituania e tornare a fare il prete. Il primo si era realizzato in fretta, quando nel 1993 Giovanni Paolo II aveva visitato la terra dei suoi padri. Marcinkus avrebbe voluto celebrare la Messa col Papa, che nel clima di quegli anni sarebbe stato troppo. Però lo accompagnò nel viaggio. Il secondo desiderio si era costruito giorno per giorno, nell’attività pastorale a cui si era dedicato padre Paul Casimir, cercando di mettersi alle spalle il suo passato.

Lo avevano nominato quarto parroco della chiesa St. Clement of Rome, cioè il gradino più basso possibile. Ma era proprio quello che cercava. Ogni sabato celebrava la Messa delle quattro del pomeriggio, e ogni mercoledì mattina tornava dietro all’altare. Nel tempo libero, poi, faceva lezioni di catechismo ai ragazzi che si preparavano per la Cresima e visitava gli anziani ricoverati nelle case di riposo. Tutte le settimane portava l’eucarestia ad una cinquantina di persone che non potevano alzarsi dal letto e andare in chiesa. L’impegno che gli piaceva di più, però, era quello con la comunità lituana. Dalle parti di Sun City vive un gruppo numeroso di immigrati venuti dal Baltico, e lui andava a celebrare la Messa fra di loro, forse per tornare a respirare le atmosfere di quando era ragazzino a Cicero.

I guai non avevano mai smesso di inseguirlo, per esempio quando a metà degli anni Novanta era scoppiato lo scandalo per il presunto coinvolgimento dello Ior nella tangente Enimont. Il giornale nazionale americano Usa Today aveva fatto il suo nome, accusandolo di riciclaggio di denaro. Lui però si era difeso con l’immunità diplomatica ancora garantita dalla Santa Sede, ripetendo che aveva la coscienza apposto. Alle volte, con gli amici, rifletteva sulla sua esistenza. Ma padre Marcinkus non rimpiangeva più di non essere mai diventato cardinale: «Quando morirò - diceva - il Signore non mi giudicherà dal colore dei miei calzini».


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DA BANCHIERE DEL PAPA A POVERO PRETE.
E' MORTO MARCINKUS
22 febbraio 2006

1969
Paul Marcinkus viene nominato vescovo e presidente dell'Istituto di Opere di Religione (Ior). Con il suo stile efficiente e spregiudicato conquista rapidamente la fiducia dei maggiori centri internazionali del potere finanziario. Lo Ior è ben presto presente da protagonista nelle borse di quasi tutto il mondo.


1971
Attraverso Sindona, Calvi entra in rapporto con Marcinkus e insieme fondano a Nassau, nel «paradiso fiscale» delle Bahamas, la Cisalpine Overseas Bank. Calvi-Marcinkus-Gelli-Ortolani costituiscono una sorta di comitato d'affari che opera attraverso banche e consociate estere.


1978
Sotto Giovanni Paolo II, all'apice del suo successo, assume anche gli incarichi di organizzatore dei viaggi papali e di segretario del Governatorato Vaticano.


1982
Scoppia lo scandalo del Banco Ambrosiano. Lo Ior finisce nel mirino della Banca d'Italia e la magistratura di Roma inizia ad indagare sulle sue operazioni finanziarie


1984
Lo Ior è assediato dai creditori, e il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato dell'epoca, li tacita versando 406 milioni di dollari a titolo di «contributo volontario». Marcinkus viene estromesso dalla gestione della Banca vaticana.


1989
Giovanni Paolo II promulga i nuovi statuti, che prevedono la figura di un prelato che garantisca l'eticità degli investimenti dello Ior. A questo ruolo viene chiamato monsignor Donato De Bonis, già braccio destro di Marcinkus e ora suo accusatore in Vaticano.


1990
Mons. Marcinkus presenta le proprie dimissioni a Giovanni Paolo II per raggiungere prima l'Illinois e poi ritirarsi a Sun City, un sobborgo di Phoenix in Arizona dove ha vissuto fino a ieri.


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LA REPUBBLICA
22 febbraio 2006
Storia del banchiere di Dio "amico" di Calvi e Sindona
Alberto Statera

Se il diavolo esistesse, se per somma dissimulazione vestisse il clergyman e se, colmo dei colmi, abitasse all´interno delle Mura Leonine, non potrebbe avere che le sue fattezze. Le fattezze e i modi di Paul Casimir Marcinkus, prete, principe della Chiesa, banchiere e finanziere ben più che spregiudicato. Nato a Cicero, Illinois, nel 1922, figlio di un emigrante lituano che si guadagnava da vivere lustrando i vetri dei grattacieli di Chicago, Marcinkus è morto ieri a Phoenix, Arizona.
Naturalmente, con spirito cristiano, gli auguriamo il perdono di domineddio e il paradiso.
Ma il disastro etico e d´immagine che per molti lustri ha segnato le vicende dell´oro Vaticano, il denaro «sterco del demonio» transitante impudicamente nel Torrione di Niccolò V, sede dell´Istituto per le Opere di Religione, in un via vai di filibustieri, bancarottieri e tangentisti in salsa piduista, inevitabilmente porta e porterà il suo nome, anche se nelle nefandezze fu tutt´altro che solo.
Da Sindona a Calvi, dal sacco di Roma dell´Immobiliare al riciclaggio della tangente Enimont, non c´è scandalo finanziario di cui le mura di quel torrione non conservino qualche eco. Sullo sfondo, l´eterna diatriba tra finanza laica e finanza cattolica, tra banca bianca e banca di altri colori, tra poteri massonici e poteri curiali, di cui abbiamo visto l´ultima rappresentazione nella vicenda della Banca Popolare di Lodi, col banchierino timorato, ma grassatore, e il governatore della Banca d´Italia che scambiava i ratios patrimoniali con le massime morali di San Tommaso.
Modi rudi, fisico da rugbista, accanito giocatore di golf sui campi dell´Acquasanta, sigaro cubano sempre acceso, ricercato dalle signore del generone romano, alla fine negli anni Sessanta Marcinkus, data la statura, univa le funzioni di guardia del corpo di Paolo VI nei viaggi all´estero e di stella nascente della finanza vaticana, cui papa Montini aveva imposto l´internazionalizzazione. Le partecipazioni azionarie del Vaticano in Italia, spesso imbarazzanti, dovevano essere smobilitate o adeguatamente «coperte» e alla finanza pontificia occorreva dare un respiro internazionale.
Marcinkus, sponsorizzato da don Pasquale Macchi, potente segretario del papa, aveva un rapporto personale con David Kennedy, presidente della Continental Illinois National Bank di Chicago, che poi nel 1969 fu nominato ministro del Tesoro nell´amministrazione Nixon. Fu il banchiere americano a presentare Sindona al disinvolto finanziere papalino, diventato nel frattempo capo dello Ior. E i guai cominciarono subito. Già nel 1973 la Sec aprì un´inchiesta sulla Vetco Offshore Industries, che, attraverso un giro messo in piedi da Sindona, si scoprì essere illegalmente controllata dal Vaticano. Sindona poco dopo viene travolto dal crac delle sue banche, compiutosi al termine di una lotta sanguinosa tra il mondo laico, capeggiato da Ugo La Malfa, e quello cattolico, che faceva riferimento a Giulio Andreotti, e che ebbe il momento più aspro nell´incriminazione di due galantuomini come il governatore Paolo Baffi e il direttore generale della Banca d´Italia Mario Sarcinelli, poco propensi al salvataggio che i democristiani fortemente volevano. Ma Marcinkus aveva già gettato le basi del nuovo scandalo, il crac del Banco Ambrosiano, nel quale il Vaticano fu coinvolto per 1500 miliardi di ex lire, secondo il calcolo che fece il ministro del Tesoro Nino Andreatta.
Poco prima di essere ucciso a Londra sotto il ponte dei Frati Neri, Calvi, disperato, arriva a scrivere al papa: attacca Marcinkus, considerato appartenente all´ala massonico-curiale in Vaticano, sperando che Giovanni Paolo II consegni la banca papalina all´Opus Dei e che lo Ior salvi l´Ambrosiano con 1200 milioni di dollari. «Santità - scrive il 5 giugno 1982 in una lettera rivelata molti anni dopo dal figlio - sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commesse dagli attuali e precedenti rappresentanti dello Ior, comprese le malefatte di Sindona...; sono stato io che, su preciso incarico dei Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti Paesi e associazioni politico-religiose dell´Est e dell´Ovest...; sono stato io in tutto il Centro-Sudamerica che ho coordinato la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l´espandersi di ideologie filomarxiste; e sono io infine che oggi vengo tradito e abbandonato...». Sua Eccellenza Monsignor Paul Casimir Marcinkus, passando quasi indenne tra tutti i disastri e persino tra i sospetti che accompagnarono la morte improvvisa di Giovanni Paolo I, manterrà la sua poltrona fino al 1989, sette anni dopo l´omicidio di Calvi. Da allora la finanza vaticana è molto cambiata, l´influenza dell´Opus Dei è cresciuta rispetto a quella della chiesa americana. Ma lo Ior rimane una banca del tutto speciale, perché da un lato è una banca off-shore, che opera nell´extraterritorialità, dall´altra è on-shore: chi è adeguatamente presentato può entrare portando una valigia piena di dollari di qualunque provenienza e uscirne, senza ricevuta, con la certezza che il suo denaro andrà dove deve andare senza lasciar tracce.
Ma monsignor Marcinkus, che per tutta la vita ha maneggiato sterco del diavolo, mai si dev´essere sentito il Maligno in clergyman. Anzi, in una delle rare interviste, si è perdonato così: «Ma si può vivere in questo mondo senza preoccuparsi del denaro? No, non si può dirigere la Chiesa con le Avemaria».


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LA STAMPA
22 febbraio 2006
Sempre inseguito dal fantasma di Calvi
Francesco La Licata

Paul Casimir Marcinkus è morto in un’anonima parrocchia dell’Arizona, senza aver mai voluto aprire il lungo libro dei misteri che hanno fatto di lui uno dei protagonisti del «giallo» infinito sul finto suicidio del banchiere Roberto Calvi, ultimo atto di una vicenda politico-finanziaria che affonda le proprie radici nel crack del Banco Ambrosiano dell’inizio degli Ottanta. Uno scandalo popolato da una umanità variegata - finanzieri, mafiosi, camorristi, massoni, affaristi e spioni - che nulla avrebbe dovuto avere a che fare con lui, presidente dello Ior (la Banca Vaticana) ed organizzatore dei viaggi papali. E invece no, nessuno si ricorderebbe ora di Marcinkus se non avesse avuto alle spalle quel macigno dell’intreccio economico con il «peggio» della finanza italiana: da Sindona a Calvi, a Ortolani.
Da qualche anno era uscito di scena e vedremo con quanta fatica e quali accadimenti. Ma non si era ancora lasciato alle spalle l’abbraccio mortale del fantasma di Calvi. Marcinkus figurava nella lista dei testi da sentire al processo attualmente in corso a Roma sulla messinscena del Ponte dei Frati Neri di Londra, dove fu rappresentato il falso suicidio del «Banchiere di Dio», così chiamato proprio per la sua vicinanza con Marcinkus e con i soldi del Vaticano. Il pm, Luca Tescaroli (che ha ereditato il lavoro investigativo degli anni passati, soprattutto quello del giudice Mario Almerighi) ora si chiede «se non si sia persa l’ennesima occasione per tentare di strappare a Marcinkus i suoi segreti». C’è il ragionevole sospetto, e la storia del vescovo finanziere ne è testimonianza, che difficilmente avrebbe aperto bocca. Se, infatti, una dote - anche post mortem (quindi senza nessun intento di “captatio benevolentiae”) - viene riconosciuta a Marcinkus negli ambienti del Vaticano di oggi, è la «sobrietà e la riservatezza» con cui l’«ex potente» ha subìto la «sovraesposizione del proprio ruolo» senza perdere l’attitudine al silenzio. Dote, ovviamente, «non disgiunta» dall’altra - l’umiltà - per aver saputo ubbidire accettando di entrare nel cono d’ombra.
Eppure non deve essere stato facile, il suo ruolo. Non deve essere stato agevole navigare tra i gorghi vorticosi della finanza. Specialmente se, come è accaduto spesso a Marcinkus, da «presidente di un Ente centrale della Chiesa», qual era lo Ior, si è imbattuto in personaggi discutibili. Accadeva già all’inizio degli Anni Settanta, quando il prete americano vendette la Banca cattolica del Veneto proprio a Roberto Calvi, suscitando il risentimento dell’allora Patriarca di Venezia, Luciani, poi divenuto Papa Giovanni Paolo I. Già, Luciani, Papa per poche settimane, stroncato da una morte improvvisa, incredibilmente improvvisa. Si dirà che tra i progetti di Giovanni Paolo c’era quello di ridimensionare Marcinkus. A quel Papa si era rivolto il settimanale «Il Mondo» chiedendo: «E’ giusto che il Vaticano operi sui mercati come un agente speculatore?». Era la gestione dello Ior sott’accusa, con tutto quello che conteneva il processo per la bancarotta del Banco Ambrosiano che coinvolgeva la finanza del Vaticano in seguito sospettata di complicità nelle «disinvolte operazioni» di Roberto Calvi (riciclaggio?) e, quindi, costretta al peggio per recuperare le perdite dell’Ambrosiano.
Ma il feeling col «banchiere di Dio» durava da troppo tempo. Era il 1971 quando i due, insieme con un Michele Sindona in fase di espansione, fondavano la Cisalpine Overseas Bank con un notevole «aiuto» dell’Ambrosiano: 240 milioni di dollari, poi divenuti (nel 1977) 465,9 milioni. Gli ispettori della Banca d’Italia, chiamati ad indagare, non riusciranno ad individuare l’origine dell’enorme cifra movimentata dall’Ambrosiano e dalle consociate: rimarranno sconosciuti gli «elargitori» di ben 211,9 milioni di dollari. Poi Sindona cadrà in disgrazia con tutto quello che sappiamo: il finto sequestro, le indagini e la scoperta di Licio Gelli e della P2. Il «bancarottiere di Patti» travolto, braccato persino dagli «amici» di Cosa nostra, il tentativo di salvarsi affidato all’invocato intervento di Giulio Andreotti e al minacciato ricorso all’uso della famosa «lista dei 500». Lista che, secondo il generale Delfino, teste al processo di oggi, era contenuta nella borsa che Calvi aveva con sè a Londra, insieme coi documenti di garanzia di Marcinkus, quelle «lettere di patronage» firmate dal vescovo in cambio della dichiarazione con cui Calvi - scrivono i giudici - «libera la Banca vaticana dall’impegno in qualsiasi affare precedentemente trattato entro il giugno 1982».
Nessuno, nè Calvi nè Marcinkus, riuscirà a mantenere le promesse e il presidente dello Ior sarà costretto a «mollare» Calvi, forse accelerandone la fine. Il sospetto dei magistrati, oggi, è infatti che il «banchiere di Dio» muore perché - è la tesi dei magistrati - rimasto solo a fronteggiare l’offensiva degli amici malavitosi che gli chiedevano «il conto» dei soldi affidatigli. Eppure chi «assolve» Marcinkus è portato a credere, forse troppo sbrigativamente, che il vero errore del presidente dello Ior fu proprio quello di aver firmato le garanzie a Calvi.
Di diverso avviso i magistrati che hanno indagato sulla bancarotta dell’Ambrosiano. Per i vertici dello Ior fu chiesto l’arresto ma una sentenza della Cassazione (1987) salvò Marcinkus, Luigi Mennini e Pellegrino de Stroebel con la motivazione che «gli enti centrali della Chiesa cattolica sono esenti da ogni ingerenza dello Stato italiano». Si chiudeva così l’incredibile storia del coinvoglimento dello Ior nello scandalo della bancarotta dell’Ambrosiano di Roberto Calvi. In modo molto più cruento si concludeva la vicenda del «banchiere di Dio», trovato appeso al ponte dei Frati Neri di Londra, alle 7,30 del 18 giugno del 1982.
Di quella fine atroce, in qualche modo Marcinkus ha portato il fardello di una sorta di responsabilità morale. Già all’epoca del primo arresto, quel 20 maggio 1981 coincidente con la retata per la P2, Roberto Calvi cerca aiuto in Vaticano e affida ad un funzionario dello Ior un bigliettino per il presidente: «Questo processo si chiama Ior». Gelida la risposta: «Questo nome non deve essere pronunciato nemmeno in confessionale». Ci sono già i primi sintomi di un tentativo di ricatto verso le «alte sfere di San Pietro». Gli altri saranno tentativi espliciti, sotto forma di missive a cardinali e persino a Papa Giovanni Paolo II.
Il 30 maggio 1982 scrive al cardinal Palazzini lamentando che «Marcinkus e il dr. Mennini continuano a rifiutarmi ogni contatto...». Poi cerca di tirare dentro Casaroli e Mons. Silvestrini: «Eppure costoro sanno che io so». Ma cosa dovrebbe sapere, Calvi? Lo si intuisce dalla lunga lettera inviata al Papa il 5 giugno del 1982 (ritrovata tra le «cose vendute» da Carboni a mons. Hnilica, altri protagonisti dell’inchiesta sulla morte di Calvi). Il «banchiere di Dio» si rivolge al Santo Padre definendolo «mia ultima speranza». Calvi rivendica, mettendo Marcinkus in cattiva luce, di essere stato l’unico ad essersi «addossato il pesante fardello degli errori, nonchè delle colpe commessi dagli attuali e precedenti rappresentanti dello Ior, comprese le malefatte di Sindona, di cui ancora ne subisco le conseguenze...». Poi entra nel vivo: «Sono stato io che, su preciso incarico di Suoi autorevoli rappresentanti ha disposto cospicui finanziamenti in favore di molti paesi ed associazioni politico-religiosi dell’Est e dell’Ovest...». Vale a dire il sostegno alla lotta antocomunista di Solidarnosc e dei sandinisti in Nicaragua. Tutto questo avrebbero voluto chiedere a Marcinkus, in magistrati di Roma. Ma la verità sarà seppellita con lui.









SULL'ARGOMENTO VEDI ANCHE:



www.radioradicale.it/anticlericalismo/attualita/vaticano_multinazio...


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La Padania
13 febbraio 2004
Primo Piano

Una recente sentenza della Cassazione cancella certe "immunità" concesse al Vaticano
Impedire l'arresto di Marcinkus nel 1987 fu un atto di illegalità


Meglio tardi che mai. Fu un errore la sentenza con cui la Quinta sezione
della Corte di Cassazione nel luglio 1987 salvò dall'arresto i tre massimi
dirigenti dello IOR (Istituto Opere di Religione), cioè la Banca del Vaticano,
imputati di concorso in bancarotta fraudolenta in relazione al crack del
Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Era stato il giudice istruttore del tribunale
di Milano, il dottor Renato Bricchetti - oggi capo dei GIP a Milano, uno
dei più apprezzati, validi e preparati magistrati italiani - a firmare i
tre clamorosi e coraggiosi mandati di cattura contro Paul Marcinkus, Luigi
Mennini e Pellegrino de Strobel. In sostanza le indagini istruttorie avevano
accertato gravissime responsabilità della Banca Vaticana nel determinare
il crack del Banco Ambrosiano.
Il giudice Bricchetti firmò i tre ordini ordini di cattura il 20 febbraio
1987 ma tutto venne bloccato cinque mesi dopo - il 17 luglio - da una sentenza
della Cassazione. Il motivo della non convalida del mandato di cattura fu
questo: secondo l'art. 11 del Trattato lateranense del 1929 lo Stato italiano
non poteva esercitare la propria sovranità sugli "enti centrali" della Chiesa,
compreso lo IOR. E quindi la Cassazione con quella sentenza affermò l'esistenza
di una vera e propria immunità penale per coloro che - agendo come "organi
o rappresentanti" degli organismi canonici (Congregazioni, Tribunali, Uffici
che costituiscono la Curia romana) - commettono reati nel territorio dello
Stato italiano.
A quella clamorosa pronuncia si arrivò dopo una durissima polemica politica
e molti indicarono nel presidente del Consiglio di allora, Ciriaco De Mita,
uno degli artefici delle pressioni grazie alle quali Marcinkus e i suoi
due colleghi non finirono in carcere e la fecero franca. Consentendo altresì
alla Banca vaticana di non dover rispondere di alcunché né sul piano penale
né su quello, che sarebbe stato immediatamente successivo, del rimborso
del denaro distratto e che aveva portato al fallimento dell'Ambrosiano e
a un danno rilevantissimo per migliaia e migliaia di piccoli risparmiatori.
Quella immunità da qualche mese è stata completamente cancellata a distanza
di sedici anni da quel lontano 1987 e da quei tre clamorosi mandati di cattura
firmati da Renato Bricchetti, il quale ora si vede dare ragione e soprattutto
ha la conferma che si era comportato in punta di diritto e non animato da
desiderio di persecuzione nei confronti di Marcinkus & C. e tantomeno dal
desiderio di vedere il proprio nome sui titoloni dei giornali.
A riportare la questione nei termini - impostati in modo corretto e giuridicamente
ineccepibile dal Giudice Bricchetti e poi capovolti nel 1987 per favorire
e coprire Marcinkus e il Vaticano -, è stata di nuovo la Corte di Cassazione,
con una sentenza del 9 aprile. Al suo esame, nei mesi scorsi, è stata portata
la sentenza del Tribunale di Roma del 19 febbraio 2002, relativa alla vicenda
dell'inquinamento elettromagnetico, con relativi danni alla salute, provocato
dalle antenne della Radio Vaticana, attraverso gli impianti di Santa Maria
di Galeria a Roma. Il processo era stato originato dalla denuncia di una
serie di organizzazioni (tre coppie di genitori che intendevano tutelare
la salute dei loro bambini, i Verdi Ambiente e Società, il Tribunale dei
diritti del malato, Codacons, Legambiente). A finire sul banco degli imputati
erano stati Roberto Tucci, Pasquale Borgomeo, Costantino Pacifici, responsabili
della gestione e del funzionamento di Radio Vaticana.
Il Tribunale di Roma, il 19 febbraio 2002, dichiarava di non doversi procedere
nei confronti degli imputati per difetto di giurisdizione, cioè per il fatto
la Radio Vaticana era da considerarsi uno degli "enti centrali" della Chiesa
cattolica. E quindi, a norma dell'art. 11 del Trattato tra la Santa Sede
e il governo italiano (stipulato l'11 febbraio 1929), ogni "ente centrale"
del Vaticano era da considerarsi esente da ogni ingerenza del nostro Stato.
In sostanza l'Italia - secondo questa interpretazione - non dovrebbe avere
alcuna ingerenza nei confronti del Vaticano, nemmeno quando i cittadini
italiani, in territorio italiano, si trovano vittime di un danno causato
da un comportamento posto in essere nell'ambito spaziale della Santa Sede.
In sostanza in tal modo si sarebbe verificata da parte dello Stato italiano
una "cessione di sovranità" a favore del Vaticano.
Le obiezioni su questa pronuncia del Tribunale di Roma a favore del Vaticano
erano state numerose.
La sentenza del febbraio 2002 favorevole al Vaticano era stata impugnata
dal Procuratore della Repubblica e dalle parti civili e la Cassazione, il
9 aprile 2003 (con una sentenza depositata il 21 maggio) si è pronunciata
a favore di queste impugnazioni, rigettando l'interpretazione che il Tribunale
aveva dato a favore del Vaticano.
In sostanza ci sono voluti ben sedici anni per dimostrare che il giudice
Renato Bricchetti di Milano aveva perfettamente ragione a voler arrestare
Marcinkus & C. e fu un autentico sopruso quello che venne perpetrato annullando
i suoi ordini di cattura.
Nel suo commento alla sentenza del 2003 della Cassazione, l'autorevole giurista
Giovanni Melillo sottolinea che la Corte di legittimità si è dichiarata
"apertamente sconcertata dalla obiettiva insensibilità rivelata dalla sentenza
del 1987 verso le esigenze di ricerca di una lettura costituzionalmente
coerente della norma contenuta nell'art. 11 del Trattato del 1929".
La Cassazione infatti ha stabilito, anzi ripristinato, una serie di principi
ineludibili:
1) Non si ha ingerenza nella sfera di sovranità del Vaticano da parte dello
Stato italiano, se quest'ultimo - come soggetto di diritto internazionale
e nell'ambìto delle rispettive sfere di sovranità - mette in atto l'esercizio
di una serie di funzioni pubbliche della sovranità (e quindi anche della
giurisdizione).
2) Lo Stato italiano può ovviamente tutelare la sovranità italiana, anche
attraverso la giurisdizione penale, relativamente a condotte poste in essere
sul territorio italiano da rappresentanti di enti centrali della Chiesa
nell'esercizio delle loro funzioni. Tali condotte e tali atti violerebbero
dunque gli accordi internazionali fra Stato e Santa Sede poiché assunti
nell'esercizio di potestà alle quali l'Italia avrebbe formalmente rinunciato
attraverso il riconoscimento pattizio dell'immunità degli agenti per conto
dei predetti enti ecclesiali.
3) L'interpretazione data dalla Cassazione nel 1987 renderebbe possibile
la lesione di norme penali dell'ordinamento giuridico dello Stato italiano.
E ciò ovviamente non è ammissibile. Insomma, ci sono voluti tantissimi anni
per ridare al nostro Stato quella "porzione di sovranità" che gli era stata
illegalmente sottratta.
Osserva Giovanni Melillo: "Essendo, da tempo, ormai lontana l'eco delle
tesi che negavano l'inammissibilità del sindacato di legittimità costituzionale
delle norme regolatrici dei rapporti fra Stato e Chiesa di derivazione pattizia
sulla base dell'idea che l'art. 7 comma 2 della Costituzione avesse prodotto
la "costituzionalizzazione" dei Patti lateranensi, risultava incomprensibile
la scelta del giudice di legittimità di rinunciare al doveroso compito di
verificare la compatibilità delle medesime norme almeno con i "princìpi
supremi" dell'ordinamento statuale, secondo la prudente formula escogitata
dalla Corte Costituzionale allorquando progressivamente avviò il setaccio
della materia normativa concordataria attraverso quella, pure vaga ed equivoca,
formula selettiva dei cosiddetti 'valori essenziali' dell'ordinamento costituzionale".
Prosegue Giovanni Melillo: "La frustrazione delle aspettative di una enucleazione
dell'obbligo pattizio di non ingerenza che non stridesse con i principi
costituzionali era stata, del resto, obiettivamente acuita, trascinandosi
quindi nel tempo sino alla nuova pronuncia della Corte di Cassazione, dalla
decisione con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili,
per difetto di giurisdizione del giudice a quo, le questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 11 del Trattato fra Italia e santa Sede sollevate
nell'àmbito del procedimento relativo al crack dell'Ambrosiano con riferimento
agli articoli 1, 3, 7, 24, 25, 102, 112 della Costituzione sul presupposto,
appena inopinatamente introdotto dalla Corte di cassazione, che esso escludesse
l'esercizio della giurisdizione penale nei confronti di dirigenti e amministratori
degli enti centrali della Chiesa".
L'argomentare della Cassazione va ancor più condiviso se paragonato con
l'ordine di pensiero manifestato in occasione della vicenda dello IOR. Secondo
l'opinione di Giovanni Melillo "nel 1987, infatti, la V Sezione aveva perfino
escluso la possibilità di una diretta valutazione delle disciplina riferita
al singolo ente, considerando la relativa normativa di diritto canonico
legge straniera e dunque conoscibile dal giudice soltanto attraverso le
indicazioni e le allegazioni delle parti, sì che, concordando con le conclusioni
del procuratore generale e delle parti private sulla natura giuridica dell'Istituto
per le Opere di religione nel senso della sua qualificazione come ente centrale,
la Corte aveva potuto considerare incontestata e perciò "pacifica" la soluzione
positiva di una questione in realtà assai più complessa, sia in termini
generali - se non altro perché la formula legale "enti centrali della Chiesa"
era stata coniata nel Trattato senza che vi fosse alcun precedente linguistico,
sia nel diritto italiano che in quello canonico e di essa la dominante dottrina
ne aveva offerto una lettura assai rigorosa che riservava l'attribuzione
dell'anzidetta qualità ai soli organismi costituenti la Curia romana) -,
che in termini particolari, per la contraddittorietà degli indirizzi normativi
concretamente riferibili allo IOR".
Ed ecco la stoccata finale: "All'indomani della pronuncia della Cassazione
relativa al cosiddetto caso Marcinkus, dal coro dei commenti assai critici
quando non scandalizzati della stampa italiana si isolò l'opinione dissonante
di chi, condividendo quella decisione, forse ironicamente osservò che "non
sempre le questioni di diritto - e tanto più quelle di diritto ecclesiastico
- sono comprese bene dai magistrati di merito. Ne è prova il fatto che il
nostro ordinamento saggiamente prevede, quale ultima via per tutelare le
posizioni soggettive, una giurisdizione di diritto, affidata alla suprema
Corte di Cassazione. Dopo quindici anni, dinanzi all'annullamento della
decisione del tribunale di Roma che aveva affermato il difetto di giurisdizione
italiana ad accertare le condotte penalmente illecite ascritte ai dirigenti
di Radio Vaticana, si può riconoscere che quel giudizio ha finalmente trovato,
con riferimento alla vexata quaestio in esame, un assai più plausibile motivo
di giustificazione".
G.M.


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PANORAMA ECONOMY
gennaio 2004
Marina Marinetti

Ogni mattina, intorno alle 8, suor Maria Sebastiana attraversa via Porta Angelica sino alla cancellata di Sant’Anna. Varca le due colonne e percorre un centinaio di metri. Oltrepassa il portale di legno di un piccolo cortile triangolare e passa sotto l’arco che sorregge la costruzione secentesca. A sinistra, nella piazza nel cuore di Roma, due lift in divisa nera gallonata l’attendono davanti a un ascensore di cui le aprono le porte. La religiosa entra, il cancello di ferro e i battenti di mogano e vetro si chiudono alle sue spalle. Sale. La corsa si interrompe all’ultimo piano del palazzo, il quinto.

Qui la piccola suora della Misericordia fa la minutante, ossia la segretaria e sul suo tavolo passano documenti che, solo nel 2002, hanno fatto girare almeno 230 milioni di euro. Lavora nel cuore pulsante della Città del Vaticano, cioè nell’ufficio del cardinale Angelo Sodano. Nato a Isola d’Asti 76 anni fa, conoscitore di tutte le stanze della Curia Romana, il porporato è Segretario di Stato, cioè il numero due dell’organigramma pontificio dopo il Papa. E custodisce le chiavi del forziere che contiene il Tesoro Vaticano. Si tratta di una cifra importante: fonti attendibili – interne alla Curia Romana – parlano di 5,7 miliardi di euro tra contanti, oro, valute, azioni e titoli (escludendo quindi gli immobili e gli inestimabili tesori d’arte), ma potrebbero essere il doppio o dieci volte tanto, perché nessuno può dirlo con certezza visto il riserbo che copre le finanze della Santa Sede.

Sono molti gli interrogativi irrisolti che si è posto chi – studiosi, analisti, economisti – ha cercato di dipanare la complicata matassa. Perché la consistenza patrimoniale della Santa Sede non è mai stata calcolata nell’ultimo millennio. E il cardinale Sodano è il perno intorno al quale tutto ruota. I suoi uffici sono nel Palazzo Apostolico. Allo stesso piano vive Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II.

Una multinazionale con 4.649 diocesi. Il Papa è il monarca assoluto dello Stato più piccolo e al tempo stesso più ricco del mondo in termini relativi. La Città del Vaticano si estende su 44 ettari di superficie e conta 911 residenti, solo 532 dei quali hanno anche la cittadinanza. Non produce beni e i suoi servizi sono gratuiti, o quasi. Per analizzarne i ricavi non è possibile fare riferimento all’incalcolabile patrimonio, ma solo ai profitti conosciuti dei suoi investimenti, mobili e immobili, e ai versamenti delle diocesi per il sostentamento dell’organizzazione centrale della Chiesa: un totale di oltre 216 milioni di euro all’anno, quelli iscritti ufficialmente nel bilancio dell’Amministrazione patrimonio Sede Apostolica (Apsa).

Partendo da questo dato, il prodotto nazionale lordo pro capite di ognuno dei 532 cittadini è di 407.095 euro, oltre dieci volte quello del Lussemburgo (38.830 dollari nel 2002), che sta in testa alle classifiche della Banca Mondiale, mentre l’Italia è al 27° posto con 18.960 dollari all’anno. C’è però un altro elemento di cui tener conto: se la Chiesa cattolica è universale, non lo sono i suoi bilanci. Ogni diocesi – compreso il Vicariato di Roma – e ogni ordine religioso fanno storia a sé. Ciascuno gestisce un patrimonio proprio, fatto di immobili, titoli e, spesso, anche società, si finanzia con le offerte dei fedeli, redige un consuntivo ogni anno. Il Vaticano pure. Anche se le cifre e la complessità della struttura finanziaria sono di ben altro livello. Perché il Papa è il capo della Chiesa più potente del mondo, quella cattolica, con 4,9 milioni tra vescovi, sacerdoti, diaconi e professi, 792 mila religiose e 1 miliardo di fedeli. Un’organizzazione imponente, articolata in 4.649 diocesi riunite in 110 conferenze episcopali.

Il Vaticano uno e trino. Anche il concetto stesso di Vaticano è complicato: rappresenta allo stesso tempo tre entità distinte, lo Stato, la Santa Sede e la Curia Romana, che si sovrappongono senza confini giuridici ben delineati. In teoria la Città del Vaticano è l’entità territoriale, la Santa Sede è il vertice della Chiesa e la Curia Romana è la struttura organizzativa. Ma, in pratica, non esiste una distinzione tra le tre personalità giuridiche. Gli intrecci tra i ruoli, le funzioni e le responsabilità sono inestricabili. E utili. Quando il Vaticano ha bisogno dell’extraterritorialità è uno Stato sovrano che non deve rispondere alle leggi delle altre nazioni. Quando serve il peso morale e religioso è Santa Sede. Quando il problema è organizzativo entra in gioco la Curia Romana. Un rompicapo: e la struttura economica e finanziaria rispecchia queste interconnessioni.

Apsa e Ior alla cassa. La Prefettura per gli affari economici, l’organo della Curia Romana guidato dal cardinale Sergio Sebastiani, formalmente controlla i bilanci della Città del Vaticano. Ma anche quelli della Santa Sede, che usa l’Apsa per le questioni finanziarie. E quelli dell’Istituto per le opere di religione (Ior), la banca vaticana. Sulla quale da più di 20 anni, dopo lo scandalo legato al crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, vige la consegna del silenzio. Eppure lo Ior è più attivo che mai: ai suoi correntisti offre rendimenti degni dei migliori hedge fund e si stima che nelle sue casse siano custoditi più di 5 miliardi di euro. Meno misteriosa la Santa Sede lo è sui propri conti: l’ultima volta che Sebastiani ne ha parlato ha esibito un rosso di 13,5 milioni di euro, più altri 16 per lo Stato del Vaticano. Ma si trattava dei bilanci del 2002. Nei quali, peraltro, non figurano né le offerte dei fedeli e delle istituzioni, né i proventi delle università pontificie o delle strutture sanitarie come l’Ospedale Bambin Gesù di Roma.


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L’ultima volta che se ne parlò fu alla fine degli anni Ottanta, quando si
chiuse il caso del Banco Ambrosiano. Per uscire dal crac lo Ior, allora
guidato da monsignor Paul Marcinkus, pagò 250 milioni di dollari ai
liquidatori della ex banca di Roberto Calvi (meno di un quarto dei 1.159
milioni che, secondo il ministro del Tesoro dell’epoca, Beniamino Andreatta,
doveva alle consociate estere dell’azienda di credito milanese). Da quegli
anni nell’Istituto per le opere religiose molte cose sono cambiate, altre
sono rimaste identiche.


Giovanni Paolo II lo ha riformato nel 1990, affidandone la responsabilità a
«laici cattolici competenti» e riservando ai prelati una funzione di
vigilanza. Dal 1989 alla guida dell’istituto siede Angelo Caloia, professore
dell’università Cattolica di Milano, ex presidente del Mediocredito Lombardo
e oggi a capo di due società di Banca Intesa, una delle quali costituita in
Lussemburgo. Identico rispetto a 20 anni fa, invece, è il riserbo che
circonda le attività della banca vaticana.


Lo Ior ha una sola sede, naturalmente dentro le mura della Città Stato. Non
ha altri sportelli e dispone di un unico bancomat. All’estero, Italia
compresa, non ha un ufficio, una rappresentanza, un punto d'appoggio fisico.
E non ha neppure accesso diretto ai circuiti finanziari internazionali. Per
operare in Europa si avvale di due grandi banche, una tedesca e una
italiana. Si fa il nome di Banca Intesa, della quale lo Ior possiede il
3,37% insieme con la Banca Lombarda e la Mittel (il cosiddetto Gruppo
bresciano dei soci), e di Deutsche Bank; ma nessuno lo conferma con
certezza. E non aderisce alle norme antiriciclaggio sulla trasparenza dei
conti. Una banca strana, regolata dalla consegna del silenzio in nome del
segreto di Stato.


Tutto sotto il controllo della Segreteria.
Il riferimento è la Segreteria di Stato del cardinale Angelo Sodano. È stato
lo stesso Caloia a spiegare l’essenza dello Ior in un documento inedito che
Economy pubblica in esclusiva. In una dichiarazione scritta per la corte
distrettuale della California e presentata attraverso Franzo Grande Stevens,
da 15 anni avvocato dello Ior e membro nel consiglio di amministrazione di
Ifil, la finanziaria che controlla Fiat, il presidente della banca vaticana
ha rivelato che «i depositanti sono i dipendenti del Vaticano, i membri
della Santa Sede, gli ordini religiosi e le persone che depositano denaro
destinato, almeno in parte, a opere di beneficenza». Almeno in parte.


Caloia ha affermato che «nel mio ufficio è la norma fare riferimento al
cardinale Angelo Sodano». E ha aggiunto: «Il segretario di Stato ha un
notevole controllo sulla progettazione e l’esecuzione di tutte le nostre
attività, compresi i budget e le operazioni». Una lunga e illuminante
dichiarazione, che termina sottolineando la peculiarità dell’Istituto: l’
immunità che deriva dall’essere una banca di Stato, non sottomessa ad alcuna
legislazione, né nazionale né internazionale. «Niente in questa
dichiarazione» ha infatti ribadito Caloia, concludendo la sua testimonianza,
«va inteso, né può essere preso come una sottomissione alla giurisdizione di
questa Corte, o una rinuncia a qualsiasi diritto di immunità sovrana».


Interessi al 12% annuo.
Al suo arrivo allo Ior, 13 anni fa, Caloia trovò nei forzieri 5 mila
miliardi di lire e titoli soprattutto esteri. Oggi lo Ior amministra un
patrimonio stimato di 5 miliardi di euro e funziona come un fondo chiuso,
come ha spiegato sempre Caloia. In pratica, ha rendimenti da hedge fund,
visto che ai suoi clienti garantisce interessi medi annui superiori al 12%.
Anche per depositi di lieve consistenza. Un esempio? La Jcma, un’
associazione di medici cattolici giapponesi, nel 1998 ha depositato 35 mila
dollari presso la banca vaticana. A quattro anni di distanza si è ritrovata
sul conto quasi 55 mila dollari: il 56% in più. E se i clienti guadagnano il
12% medio annuo, vuol dire che i fondi dell’Istituto rendono ancora di più.
Quanto, però, non è dato saperlo.


Cayman sotto il controllo del Vaticano.
Quindi lo Ior investe bene. Secondo un rapporto del giugno 2002 del
Dipartimento del Tesoro americano, basato su stime della Fed, solo in titoli
Usa il Vaticano ha 298 milioni di dollari: 195 in azioni, 102 in
obbligazioni a lungo termine (49 milioni in bond societari, 36 milioni in
emissioni delle agenzie governative e 17 milioni in titoli governativi) più
1 milione di euro in obbligazioni a breve del Tesoro. E l’advisor inglese
The Guthrie Group nei suoi tabulati segnala una joint venture da 273,6
milioni di euro tra Ior e partner Usa. Di più è impossibile sapere.
Soprattutto sulle società partecipate all’estero dall’istituto presieduto da
Caloia. Basta un esempio per capire dove i segreti vengono conservati: le
Isole Cayman, il paradiso fiscale caraibico, spiritualmente guidato dal
cardinale Adam Joseph Maida che, tra l’altro, siede nel collegio di
vigilanza dello Ior. Le Cayman sono state sottratte al controllo della
diocesi giamaicana di Kingston per essere proclamate Missio sui iuris, alle
dipendenze dirette del Vaticano.


Le beghe dei condomini dello Ior.
E in Italia? Anche Oltretevere lo Ior mantiene il senso degli affari. I
diritti di voto dei 45 milioni di quote di Banca Intesa (per un valore in
Borsa di circa 130 milioni di euro) sono stati concessi alla Mittel di
Giovanni Bazoli in cambio di un dividendo maggiorato rispetto a quello di
competenza. E quando la Borsa tira, gli affari si moltiplicano. Un esempio?
Nel 1998 non sfuggì a molti l’ottimo investimento (100 miliardi di lire)
deciso da Caloia nelle azioni della Banca popolare di Brescia: in meno di 12
mesi il capitale si quadruplicò, naturalmente molto prima del crollo del
titolo Bipop. Ma il patrimonio dello Ior non è solo mobile. E dell’Istituto
si parla anche in relazione alle beghe con gli inquilini di quattro
condomini di Roma e Frascati che lo Ior, a cavallo fra il 2002 e il 2003, ha
venduto alla società Marine Investimenti Sud, all’epoca di proprietà al 90%
della Finnat Fiduciaria di Giampietro Nattino, uno dei laici della
Prefettura degli affari economici della Santa Sede, e oggi in mano alla
lussemburghese Longueville. Gli inquilini, però, affermano di sentirsi
chiedere il pagamento del canone di locazione ancora dallo Ior. Che nei
documenti ufficiali compare anche come Ocrot: Officia pro caritatis
religionisque operibus tutandis, con il codice fiscale italiano dell’
istituto: 80206390587.


QUELL’ASSEGNO DA 2,5 MILIONI FIRMATO DAI CAVALIERI DI COLOMBO


Per il 25esimo anniversario di pontificato, Giovanni Paolo II il 25 ottobre
2003 ha ricevuto un assegno da 2,5 milioni di dollari, la rendita di un
fondo d’investimento americano da 20 milioni di dollari dedicato a lui, il
Vicarius Christi Fund. Il denaro è gestito dall’ordine cavalleresco
cattolico più grande del mondo: The Knights of Columbus, i Cavalieri di
Colombo, che conta su 1,6 milioni di membri tra Stati Uniti, Canada,
Messico, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Filippine, Bahamas, Guatemala,
Guam, Saipan e Isole Vergini. Alla Congregazione per le cause dei santi
stanno vagliando la canonizzazione di Michael McGivney, che ha fondato l’
ordine 122 anni fa nel Connecticut.


Un omaggio a un’associazione che da anni vanta legami molto stretti con la
Santa Sede. Il suo cavaliere supremo, Virgil Dechant, è uno dei nove
consiglieri dello Stato Città del Vaticano e anche vicepresidente dello Ior.
Mentre gli utili del Vicarius Christi Fund, nato nel 1981, sono consegnati
ogni anno a Giovanni Paolo II nel corso di un’udienza riservata ai cavalieri
americani. Con i 2,5 milioni di dollari regalati a Karol Wojtyla il 9
ottobre scorso, il totale delle donazioni dell’ordine cavalleresco al
vicario di Cristo ha superato i 35 milioni di dollari. Nulla, in confronto
ai 47 miliardi di dollari del fondo assicurativo sulla vita gestito dai
Cavalieri di Colombo, al quale Standard & Poor’s assegna da anni il rating
più elevato.


L’ordine investe nei corporate bond emessi da più di 740 società
statunitensi e canadesi e solo nel 2002, piazzando polizze sulla vita e
servizi di assistenza domiciliare ai suoi iscritti attraverso 1.400 agenti,
ha incassato 4,5 miliardi di dollari (il 3,4% in più rispetto al 2001). Una
parte delle entrate, 128,5 milioni di dollari, è stata girata a diocesi,
ordini religiosi, seminari, scuole cattoliche e, ovviamente, al Vaticano che
nel 2002, tra la rendita del fondo del Papa, gli assegni alle nunziature
apostoliche di Usa e Jugoslavia, il contributo alla Santa Sede nella sua
missione di osservatore permanente all’Onu e quello per il restauro della
basilica di san Pietro, ha ricevuto dai Cavalieri di Colombo 1,98 milioni di
dollari.


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Tutto cominciò con 750 milioni di lire in contanti più 1 miliardo in titoli di Stato (quello italiano) col 5% di rendita annua. A tanto ammontava l’indennizzo che il 27 maggio 1929, in esecuzione dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio, chiuse una volta per tutte la «questione romana», sorta nel 1870 con l’annessione della capitale al Regno d’Italia. Oggi, l’indennizzo incassato dalla Chiesa cattolica nel 1929 sarebbe pari a 1,35 miliardi di euro, dei quali 580 milioni in contanti e 770 in obbligazioni. Dove finì questo denaro? Nelle casse dell’allora Amministrazione dei Beni della Santa Sede. Che, dal 15 agosto del 1967, è la Sezione Ordinaria dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa). I cui 75 dipendenti, tra impiegati e funzionari, gestiscono un patrimonio consolidato di 700 milioni di euro, sotto la direzione di un segretario generale, monsignor Claudio Maria Celli, la supervisione di una commissione composta da sette cardinali presieduta da monsignor Attilio Nicora, uno dei padri dell’8 per mille, e soprattutto la competenza di un pool di laici scelti nel gotha dell’economia e della finanza mondiali.

L’euro made in Vaticano.
L’Apsa è in pratica la Banca centrale della Città del Vaticano e come tale è riconosciuta dal Fondo monetario internazionale. Tra i suoi compiti c’è anche quello di coniare moneta. Ma svolge anche funzioni di Tesoreria e gestisce gli stipendi dello Stato come fa, di solito, un ministero dell’Economia. Nel 1998 il Consiglio dell’Unione europea ha autorizzato a emettere ogni anno 670 mila euro, con l’aggiunta di 201 mila euro in occasione dell’apertura di un Concilio ecumenico, di un Anno santo e della Sede vacante. Il valore commerciale delle monete coniate in Vaticano è superiore a quello facciale perché sono in gran parte indirizzate al mercato dei collezionisti numismatici.

Bilanci della Santa Sede in deficit.
In Vaticano nessuno parla volentieri di denaro con i giornalisti. Economy ha chiesto invano un colloquio con i prelati delle istituzioni finanziarie o con il portavoce del Vaticano, Joaquín Navarro Valls. Solo il cardinale Sergio Sebastiani, presidente della Prefettura per gli affari economici, una sorta di organo di controllo sulle attività finanziarie del Vaticano annuncia l’avanzo o il deficit dello Stato. Da lui si sa che la Città del Vaticano, per provvedere alla gestione del territorio e fornire supporto logistico, ha 1.511 dipendenti (quattro dirigenti, 75 religiosi e 1.432 laici) e che ha chiuso i conti del 2002 con un saldo negativo di 16 milioni di euro. I bilanci della Santa Sede, in pratica quelli dell’Apsa, sono, invece, alla luce del sole. O quasi. L’amministrazione ha 2.659 lavoratori, di cui 744 ecclesiastici, 351 religiosi e 1.564 laici. E nel 2002 ha registrato un deficit complessivo di 13,5 milioni di euro, 216,5 di entrate e 230 di uscite.

Dalle diocesi 85 milioni.
La Sezione Ordinaria dell’Apsa si occupa della gestione economica della Curia Romana (Segreteria di Stato, congregazioni, consigli, tribunali, Sinodo dei vescovi e uffici vari, oltre al Fondo pensioni istituito da Giovanni Paolo II nel 1993 con una dotazione di 10 miliardi di lire), che nel 2002 hanno assorbito risorse per 106 milioni di euro. Per coprire questi costi il Vaticano chiede aiuto alle diocesi invitando i vescovi a venire incontro, secondo le proprie disponibilità, alle necessità della Curia. Ma i 4.649 vescovi non hanno tirato fuori che 85,4 milioni di euro. Facendo chiudere il settore con un rosso di 20,6 milioni.

Mille immobili a Roma.
In rosso, ma solo di 1,6 milioni, sono anche le istituzioni mediatiche (Radio Vaticana, Osservatore Romano, Tipografia Vaticana, Centro Televisivo e Libreria): 40,8 milioni di ricavi a fronte di spese per 42,4 milioni. Si tratta di un settore talmente strategico per la Sede Apostolica che, per tappare il buco 2001 di 21,6 milioni, si è fatta aiutare dal Governatorato della Città del Vaticano con «un rilevante contributo». A rimpinguare le casse dell’Apsa sono altri settori: quello immobiliare innanzitutto, ancora in mano alla Sezione Ordinaria. Un patrimonio immenso costituito soprattutto da basiliche e santuari. Il resto, vale a dire 1.000 immobili tra uffici, negozi e appartamenti a Roma (compreso l’ultimo acquisto: un palazzo in via della Conciliazione, stimato 50 milioni di euro) nel 2002 ha reso alla Santa Sede 19 milioni, 25 di uscite e 44 di entrate.

Titoli in perdita.
Altri fondi arrivano dal recupero di accantonamenti prudenziali superati e dalla cancellazione di posizioni debitorie scadute: 6 milioni nel 2002. Ai quali, se non ci fossero la crisi dei listini e le fluttuazioni dei cambi, avrebbero potuto sommarsi i ricavi del secondo ramo dell’Apsa: la Sezione straordinaria. La quale dispone di un patrimonio di circa 300 milioni in titoli diversi e investe in beni mobili (valuta, azioni, obbligazioni) non solo per sé, ma anche per conto degli altri enti della Curia Romana. La gestione finanziaria nel 2002 non ha dato grandi soddisfazioni: la Sezione straordinaria ha incassato 40,4 milioni di euro, ma ne ha persi 56,7. Nel 2001, invece, le cose erano andate molto meglio: la Santa Sede aveva portato in cassa, operando in Borsa e investendo in cambi, 32,9 milioni di euro.

Ma la perdita è relativa.
Quindi il deficit di Santa Sede e Città del Vaticano ammonta a un totale di 29,5 milioni di euro, che avrebbero dovuto far saltare la gratifica di circa 500 euro ai circa 4 mila dipendenti vaticani per il 25esimo anniversario di pontificato di Wojtyla. «È stata puntualmente pagata il 19 ottobre, perché avrebbe dovuto non esserci?» replicano stupiti all’Apsa. I soldi non mancano e chi lavora al Palazzo Apostolico lo sa bene: quello che viene reso pubblico dal cardinale Sergio Sebastiani è solo il bilancio «delle diverse amministrazioni vaticane che entrano nell’area di consolidamento». Nell’elenco non figurano strutture che comunque dipendono dall’Apsa, come le università pontificie, l’ospedale del Bambin Gesù, i santuari di Loreto o quello di Pompei, tanto per citarne solo alcune. Inoltre non sono inclusi nei conti i luoghi di culto come San Pietro, che compaiono in bilancio per una cifra simbolica.

L’obolo di 52 milioni per Wojtyla.
Ma, soprattutto, non figura alla voce entrate dei bilanci pubblici la cosiddetta massa oblativa – cioè le offerte che, sotto varie forme, affluiscono alle casse vaticane – che non contribuisce a coprire il fabbisogno del conto economico. Eppure basterebbe ricorrere, per esempio, a quel che viene incassato tramite una pratica benedetta da Pio IX: quella dell’Obolo di San Pietro, la raccolta di offerte al Papa destinate alle opere ecclesiali, alle iniziative umanitarie e al sostentamento delle attività della Santa Sede, che nel 2002 ha portato nelle casse della Segreteria di Stato 52,8 milioni di euro, in crescita dell’1,8% rispetto al 2001. Tradizionalmente viene effettuata il 29 giugno, festa degli apostoli Pietro e Paolo, ma in realtà le offerte vengono raccolte ogni giorno anche sul conto corrente postale 75070003 e sul conto corrente numero 9990000 di Banca Intesa. Ma l’Apsa sull’Obolo di San Pietro non mette mano.



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