Cesare Pavese-cronaca di un addio

R.Daneel Olivaw
00venerdì 18 agosto 2006 16:58
Pavese è uno di quei poeti che ho amato molto , siamo ad agosto il mese della sua morte, 26 agosto 1950, la sua vicenda umana
è cosi vicina al mio sentire sopratutto in questi stessi giorni d'agosto...

cronaca di un addio


Cesare Pavese è morto il 26 agosto 1950 in una stanza dell'Albergo Roma, un bell'edificio in faccia alla stazione di Porta Nuova. Ha lasciato scritte un paio di righe: "Perdono tutti e chiedo perdono a tutti". Sul comodino c'era il libro diario: un grosso scartafaccio di fogli raccolti in una sbiadita cartella verde su cui è scritto a matita rossa "Il mestiere di vivere" di Cesare Pavese. Solo quattordici fogli sono dattiloscritti, i restanti scritti a penna o a matita, quasi sempre con correzioni e cancellature, come si trattasse di una prima stesura. Come se il mestiere di vivere procedesse per tentativi. Per prova ed errore. Sull'ultimo foglio leggiamo: "Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più".

Dopo la dichiarazione d'impotenza, non rimane che la morte. Dodici bustine di sonnifero lo consegnano al sonno. La mattina del 27 qualcuno bussa alla porta della sua stanza. Nessuno apre, la cameriera scende le scale in fretta, chiama il direttore: la porta non si apre, abbiamo una chiave di scorta? Certo, c'è sempre la chiave di scorta. Salgono ad aprire la porta. Pavese è sul letto, si vede lontano un miglio che non sta dormendo. Chiamate un dottore, fate in fretta. Non c'è un dottore in albergo? No, nessun dottore. La mattina è calda, meglio chiudere la finestra. Coprite il corpo con un lenzuolo.ma chi era? Era uno scrittore? Ci sono dei fogli, c'è una penna: certo, era uno scrittore. Arriva la polizia: entrano in fretta, il coroner tasta il polso: non c'è nulla da fare. Ha ingerito dodici bustine di sonnifero: voleva essere sicuro. Lo conoscevate? Era uno scrittore. Ha lasciato un biglietto. Proprio qui nel mio albergo, dice il direttore, questo non è bene. Il poliziotto redige un breve rapporto: "tale Pavesio Cesare ingerì dodici bustine di sonnifero".

Era uno scrittore, dice il dottore, quello de "La luna e i falò", lo conoscevate? No, francamente, no. Eppure era famoso: non avete letto "La bella estate" o "La casa in collina"? No, signore, però ci credo, la credo sulla parola. Cristo, scrivete almeno il nome giusto. Sì, signore, lo faremo, ma più tardi: ora bisogna spostare il corpo. L'ambulanza è qui sotto. I poliziotti scendono nel salone, è una mattinata calda e tranquilla, la gente beve Negroni nell'ombra della veranda. Che succede, maresciallo? Niente, niente, uno si è sentito male. Continuate a bere, non preoccupatevi. Il dottore è solo nella stanza: non resiste alla tentazione di leggere qualche riga del manoscritto:





9 Marzo
Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età? Non mi succedeva diverso a venticinque anni. Eppure ho un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza. E' così buona, così calma, così paziente. Così fatta per me. Dopotutto lei mi ha cercato. Ma perché ho osato lunedì? Paura?
E' un passo terribile.


16 marzo
Il passo è stato terribile eppure è fatto. Incredibile dolcezza di lei, parole di speranza. Darling, sorriso, lungo ripetuto piacere di star con me. Le notti di Cervinia, le notti di Torino. E' una ragazza, una normale ragazza. Eppure è lei- terribile. Dal profondo del cuore: non meritavo tanto


Oh, mormora il dottore e quasi sorride, una donna. L'uomo disteso sul letto ha la compostezza di un morto molto più antico. Qualcuno gli ha chiuso gli occhi, ora non guardano più il soffitto.

14 agosto
E anche lei finisce allo stesso modo. Anche lei. Va bene. Sono onde di questo mare


17 agosto
I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo. Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce. Perché morire? Non sono mai stato vivo come ora, mai così adolescente





Il dottore posa dolcemente l'incartamento sul comodino. Copre il viso del morto con il lenzuolo. Poi scende in fretta le scale e esce al fresco della veranda. Nella camera c'era molto caldo, e il caldo non giova ai morti. Ma l'ambulanza è nel cortile. Gli infermieri stanno salendo. Il dottore siede ad uno dei tavolini e ordina un bicchiere di Martini. "Fammelo doppio" dice al giovanissimo cameriere. Posa a lato della sedia la sua valigetta con dentro gli attrezzi del mestiere.
La guarda sconsolato e poi guarda le sue mani posate sul tavolo. Sono le grosse e stanche mani di un vecchio. Il cameriere si accosta, posa il Martini su un piattino argentato, il ghiaccio tintinna nel bicchiere. Il dottore solleva il bicchiere e beve in fretta. Posa il bicchiere sul tavolo e si alza per tornare nella stanza. Il ghiaccio lentamente si scioglie. Alla fine non rimane che acqua.

Jack Barron

R.Daneel Olivaw
00venerdì 18 agosto 2006 17:03
GLI ANNI (di Cesare Pavese).

Di quel che ero allora non resta più niente: appena uomo, ero ancora
un ragazzo. Lo sapevo da un pezzo, ma tutto avvenne alla fine
dell'inverno, una sera e un mattino. Stavamo insieme, quasi nascosti, in
una stanza che dava su un viale. Silvia mi disse, quella notte, che dovevo
andarmene, o andarsene lei -non avevamo più niente da fare insieme. La
supplicai di lasciare che provassimo ancora; ero disteso al suo fianco e
l'abbracciavo. Lei mi disse: - A che scopo? - Parlavamo a voce bassa, nel
buio. Poi Silvia s'addormentò, e io tenni sino al mattino un ginocchio
contro il suo.
Comparve il mattino com'era sempre comparso, e faceva molto freddo;
Silvia aveva i capelli negli occhi e non si muoveva. Nella penombra io
guardavo il tempo passare, sapevo che passava e correva, e che fuori c'era
la nebbia. Tutto il tempo che ero stato con Silvia in quella stanza, era
come una sola giornata e una notte, che adesso finiva al mattino. Allora
capii che non sarebbe mai piu' uscita con me nella nebbia fresca.
Era meglio se mi vestivo e me ne andavo senza svegliarla. Ma adesso
avevo in mente ancora una cosa da chiederle. Aspettai, cercando di
assopirmi.
Quando fu sveglia, Silvia mi fece un sorriso. Riprendemmo a parlare.
Lei disse: - E' bello essere sinceri come noi. - Oh Silvia, - bisbigliai,
- che cosa farò uscendo di qui? dove andrò?- Era questo che avevo da
chiederle. Senza staccar la nuca dal cuscino, lei sorrise di nuovo,
beatamente. - Sciocco, -disse, - andrai dove vuoi. Non è bello esser
liberi? Conoscerai tante ragazze, farai tutte le cose che vuoi. Parola,
che t'invidio.
Adesso il mattino riempiva la stanza e non c'era un po' di calore che
nel letto. Silvia aspettava paziente. - Tu sei come una prostituta, -le
dissi, - e lo sei sempre stata.
Silvia non aprì gli occhi. - Ora che lo hai detto stai meglio? - mi
disse.
Allora me ne stetti come se lei non ci fosse, e guardavo il soffitto e
piangevo senza rumore. Le lacrime mi riempivano gli occhi e colavano sul
guanciale. Non valeva la pena di farmene accorgere. Tanto tempo è passato,
e adesso so che quelle lacrime mute furon l'unica cosa da uomo che feci
con Silvia; so che piangevo non per lei ma perchè avevo intravisto il mio
destino. Di quel che ero allora non resta piu' niente. Resta soltanto che
avevo capito chi sarei stato in avvenire.
Poi Silvia mi disse: - Adesso basta. Devo alzarmi.
Ci alzammo insieme, tutt'e due. Non la vidi vestirsi. Fui presto in
piedi, alla finestra, e guardavo le piante trasparire. Dietro la nebbia
c'era il sole, il sole che tante volte aveva intiepidito la stanza. Anche
Silvia fu presto vestita, e mi chiese se non portavo con me la mia roba.
Le dissi che prima volevo scaldarmi il caffè, e accesi il fornello.
Silvia, seduta alla sponda del letto, si mise a rifarsi le unghie. In
passato se l'era sempre rifatte al tavolino. Sembrava soprapensiero e i
capelli le cadevano continuamente negli occhi. Allora dava scosse con la
testa e si liberava. Io girai per la stanza e raccolsi la roba. Ne feci un
mucchio su una sedia e a un tratto Silvia saltò in piedi e corse a
spegnere il caffè che versava.
Poi tirai la valigia e ci misi la roba. Intanto, dentro mi sforzavo di
raccogliere tutti i ricordi spiacevoli che avevo di Silvia - le futilità,
i malumori, le parole irritanti, le rughe. Questo portavo via dalla sua
stanza. Quel che lasciavo era una nebbia.
Quande'ebbi finito era pronto il caffè. Lo prendemmo in piedi, accanto
al fornello. Silvia disse qualcosa, che quel giorno sarebbe andata da un
tale, a parlare di una faccenda. Poco dopo, deposi la tazza e me ne andai
con la valigia. Fuori la nebbia e il sole accecavano.


R.Daneel Olivaw
00sabato 19 agosto 2006 22:20
You, wind of March

Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
anemone o nube
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.

Il tuo passo leggero
ha riaperto il dolore.
Era fredda la terra
sotto povero cielo,
era immobile e chiusa
in un torpido sogno,
come chi più non soffre.
Anche il gelo era dolce
dentro il cuore profondo.
Tra la vita e la morte
la speranza taceva.

Ora ha una voce e un sangue
ogni cosa che vive.
Ora la terra e il cielo
sono un brivido forte,
la speranza li torce,
li sconvolge il mattino,
li sommerge il tuo passo,
il tuo fiato d'aurora.
Sangue di primavera,
tutta la terra trema
di un antico tremore.

Hai riaperto il dolore.
Sei la vita e la morte.
Sopra la terra nuda
sei passata leggera
come rondine o nube,
e il torrente del cuore
si è ridestato e irrompe
e si specchia nel cielo
e rispecchia le cose
e le cose, nel cielo e nel cuore
soffrono e si contorcono
nell'attesa di te.
È il mattino, è l'aurora,
sangue di primavera,
tu hai violato la terra.

La speranza si torce,
e ti attende ti chiama.
Sei la vita e la morte.
Il tuo passo è leggero.

25 marzo 1950
R.Daneel Olivaw
00domenica 20 agosto 2006 21:10
Due


Uomo e donna si guardano supini sul letto:
i due corpi si stendono grandi e spossati.
L'uomo è immobile, solo la donna respira più a lungo
e ne palpita il molle costato. Le gambe distese
sono scarne e nodose, nell'uomo. Il bisbiglio
della strada coperta di sole è alle imposte.

L'aria pesa impalpabile nella grave penombra
e raggela le gocciole di vivo sudore
sulle labbra. Gli sguardi delle teste accostate
sono uguali, ma più non ritrovano i corpi
come prima abbracciati. Si sfiorano appena.

Muove un poco le labbra la donna, che tace.
Il respiro che gonfia il costato si ferma
a uno sguardo più lungo dell'uomo. La donna
volge il viso accostandogli la bocca alla bocca.
Ma lo sguardo dell'uomo non rnuta nell'ombra.

Gravi e immobili pesano gli occhi negli occhi
al tepore dell'alito che ravviva il sudore,
desolati. La donna non muove il suo corpo
molle e vivo. La bocca dell'uomo s'accosta.
Ma l'immobile sguardo non muta nell'ombra.
R.Daneel Olivaw
00lunedì 21 agosto 2006 23:52
The cats will know

Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l'alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.

Ci saranno altri giorni,
si saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.

Farai gesti anche tu.
Risponderai parole
viso di primavera,
farai gesti anche tu.

I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l'alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffieremo nell'alba,
viso di primavera.

10 aprile 1950
R.Daneel Olivaw
00martedì 22 agosto 2006 22:13
The night you slept

Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t'implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.

La notte soffre e anela l'alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c'è chi come te attende l'alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l'alba.

4 aprile 1950
R.Daneel Olivaw
00giovedì 24 agosto 2006 22:28
Il mestiere di vivere

“Il mestiere di vivere” è un diario scritto dallo scrittore piemontese Cesare Pavese che fu ritrovato tra le sue carte dopo la sua morte. Un diario scritto dal 1935 al 1950, anno in cui si è suicidato.
Essendo un diario è un’opera personale e privata, non è stato pubblicato durante la vita dell’autore ma solo dopo la sua morte dopo essere stato ritrovato fra i suoi scritti, questo lo rende ancor più interessante.
In esso ci sono delle riflessioni personali, bilanci della sua vita sia d’uomo sia di scrittore, considerazioni letterarie e alcuni accenni ad alcune sue opere.
Tramite questo diario è possibile conoscere un Pavese diverso, più intimamente e più profondamente. I suoi interessi, alcune note della sua biografia, la sua vita. Un modo per riuscire a capire meglio questo scrittore.
Particolarmente interessanti sono le pagine finali, scritte poco prima del suicidio, ma nella lettura del diario si legge come egli negli ultimi anni sia già stato vicino più volte al suicidio.
Il suicidio avviene dopo una forte delusione d’amore con l’attrice americana Constance Dawling, che nel diario è indicata con C.
Nel diario ritroviamo spesso l’amore dell’autore per la Dawling, soprattutto verso la fine, una passione travolgente, a nello stesso tempo però viene reso evidente come Pavese abbia un rapporto difficile con le donne.
Le sue annotazioni assumono alla fine un tono cupo, annunciano la sua crisi che si concluderà poi con il suicidio avvenuto il 27 agosto del 1950 per avvelenamento in un albergo torinese.

Dal diario:
17 agosto 1950
“ … Questo il consuntivo dell’anno non finito e che non finirò.
… Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa qual è la loro pena, il loro cancro segreto? “

18 agosto 1950, ultimo giorno del diario, è un triste annuncio:
“Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”
R.Daneel Olivaw
00giovedì 24 agosto 2006 22:30
Il Mestiere di Vivere

1938

10 marzo

Un uomo che soffre, lo si tratta come un ubriaco. "Su, andiamo, basta, via, ora
basta, non così, basta ..."

23 marzo

Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi.

Ciò che non si è saputo fare con la forza vergine dei venticinque anni, come è
possibile farlo con le tare dei trenta?

Farsi amare per pietà, quando l'amore nasce solo dall'ammirazione, è un'idea
molto degna di pietà.

Che non riusciremo mai a piantarci nel mondo (un lavoro, una normalità) è
chiaro.
Che non conquisteremo mai una donna (né un uomo) è chiaro, tanto per la
precedente debolezza quanto per quella che sai.
Che non c'innamoreremo mai di una di quelle idee per cui si accetta di morire, è
chiaro - vedi l'esperienza fatta.
Che non avremo mai il coraggio di ammazzarci, è chiaro - vedi quante volte
l'abbiamo pensato.

26 marzo

A che cosa ha servito questo lungo amore?
A scoprire tutte le mie tare, a provare la mia tempra e giudicarmi.
Vedo ora il perché del mio isolamento fino al '34. Sentivo inconsciamente che
per me l'amore sarebbe stato questo massacro.
Niente si è salvato. La coscienza si è spaccata: vedi lettera e tentazione
omicida. Il carattere si è piegato: vedi confino. L'illusione dell'ingegno è
svanita: vedi lo stupido libro e la mia natura di traduttore. La fermezza
dell'uomo comune, persino, è venuta meno: a trent'anni non ho un mestiere.
Sono arrivato al punto di sperare la salvezza dall'esterno, e non c'e'
l'oscuramento più grande: penso ancora che con lei potrei vivere e lottare. Ma
di quest'illusione fa giustizia lei stessa: mi ride in faccia e così risparmia
anche quest'ultima penosa esperienza.
"... Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori
noi gli uomini, i padri ..."
Tutto giusto. Solo che non siamo stati nemmeno i padri.
Anche fisicamente, ora non sono più lo stesso.

Eppure è accaduto a molti che un amore li ha distrutti e ammazzati. Sono forse
il più bello perché non debba capitare a me?
La lotta ora non è più tra il sopravvivere o decidermi al salto. È tra decidermi
al salto da solo come sono sempre vissuto, o portare con me una vittima - perché
il mondo se ne ricordi.

Tutti i giorni, tutti i giorni, dal mattino alla sera, pensare così. Nessuno ci
crede: è naturale. È forse questa la mia vera qualità (non l'ingegno; non la
bontà, non niente): essere invasato d'un sentimento che non lascia cellula del
corpo sana.

È davvero l'ultimo orgoglio: nessuno per nove mesi avrebbe retto a uno strazio
simile. Anche lei che parla: un altro - chiunque - a quest'ora l'avrebbe già
uccisa.

....

La cosa segretamente e più atrocemente temuta, accade sempre.
Da bambino pensavo rabbrividendo alla situazione di un innamorato che vede il
suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo a questo pensiero. E voilà.

27 marzo

Una domenica passata a vagolare col pensiero come una mosca legata, tutto
intontito corpo ed anima, percorso da brividi di rabbia, o stretto dalla mano di
ferro, o blandito da una vagula apprensione di futuro meno atroce.
Osservo che il dolore abbruttisce, intontisce, schiaccia.
Ogni tentacolo con cui una volta sentivo, provavo e sfioravo il mondo, è come
troncato e incancrenito al moncone. Passo la giornata come chi ha urlato uno
spigolo con la rotula interna del ginocchio; tutta la giornata come
quell'istante intollerabile. Il dolore è nel petto, che mi sembra sfondato e
ancora avido, pulsante di sangue che fugge e non ritorna, come da un'enorme
ferita.
Naturalmente, è tutta una fissazione. Dio mio, ma è perché sono solo, e domani
una rapida felicità, e poi di nuovo brividi, la stretta, lo squarcio. Non ho più
fisicamente la forza di star solo. Una volta sola mi è riuscito, ma ora è una
ricaduta e, come tutte le ricadute, è mortale.
Eppure a questo stato si aggiunge un'altra sofferenza, come chi, tagliato in
due, senta ancora mal di denti. È questa: che da Brancaleone ho scritto un 2
febbraio una lettera simile, quella della crosta. Quale è stata la mia vita da
allora? Valeva la pena di essere così vile, per ottenere che cosa? Altri
squarci, altra cancrena, altro sfottimento.
Sono diventato idiota. Mi chiedo e richiedo: che cosa le ho fatto di male? Abbi
il coraggio, Pavese, abbi il coraggio.

Pensa che hai un merito se spacci te solo. Ti sarà contato.

25 aprile

Perché - quando si è sbagliato - si dice "un'altra volta saprò come fare",
quando si dovrebbe dire: "un'altra volta so già come farò.

6 maggio

A tutto c'è rimedio. Pensi che sia l'ultima sera che passi in prigione. Respiri,
guardi la cella, ti intenerisci sui muri, sulle sbarre, sulla scarsa luce che
entra dalla finestra, sui rumori che sussultano da ogni parte e ormai
appartengono a un altro mondo.
Perché ti fa pena la cella? Perché è diventata cosa tua. Ma se ti dicono
improvvisamente che c'è un errore, che non uscirai domani, che resterai non sai
ancora quanto, meanterrai la calma?

Siamo sinceri. Se ti comparisse davanti Cesare Pavese e parlasse e cercasse di
fare l'amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe odioso?
Ti fideresti di lui? Vorresti uscire con lui la sera a chiacchierare?

R.Daneel Olivaw
00venerdì 25 agosto 2006 21:58
Il ragazzo che era in me

Va' a sapere perché fossi là quella sera nei prati.
Forse mi ero lasciato cadere stremato di sole,
e fingevo l'indiano ferito. Il ragazzo a queí tempi
scollinava da solo cercando bisonti
e tirava le frecce dipinte e vibrava la lancia.
Quella sera ero tutto tatuato a colori di guerra.
Ora, l'aria era fresca e la medica pure
vellutata profonda, spruzzata dei fiori
rossogrigi e le nuvole e il cielo
s'accendevano in mezzo agli steli. Il ragazzo riverso
che alla villa sentiva lodarlo, fissava quel cielo.
Ma il tramonto stordiva. Era meglio socchiudere gli occhi
e godere l'abbraccio dell'erba. Avvolgeva come acqua.

Ad un tratto mi giunse una voce arrochita dal sole:
il padrone del prato, un nemico di casa,
che fermato a vedere la pozza dov'ero sommerso
mi conobbe per quel della villa e mi disse irritato
di guastar roba mia, che potevo, e lavarmi la faccia.
Saltai mezzo dall'erba. E rimasi, poggiato le mani,
a fissare tremando quel volto offuscato.

Oh la bella occasione di dare una freccia nel petto di un uomo!
Se il ragazzo non ebbe il coraggio, m'illudo a pensare
che sia stato per l'aria di duro comando che aveva quell'uomo.
lo che anche oggi mi illudo di agire impassibile e saldo
me ne andai quella sera in silenzio e stringevo le frecce
borbottando, gridando parole d'eroe moribondo.
Forse fu avvilimento dinanzi allo sguardo pesante
di chi avrebbe potuto picchiarmi. O piuttosto vergogna
come quando si passa ridendo dinanzi a un facchino.
Ma ho il terrore che fosse paura. Fuggire, fuggii.
E, la notte, le lacrime e i morsi al guanciale
mi lasciarono in bocca sapore di sangue.

L'uomo è morto. La medica è stata diverta, erpicata
ma mi vedo chiarissimo il prato dinanzi
e, curioso, cammino e mi parlo, impassibile
come l'uomo alto e cotto dal sole parlò quella sera.

Cesare Pavese
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 14:39.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com