ATTILIO BOLZONI/ PALERMO: C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA

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INES TABUSSO
00venerdì 26 ottobre 2007 14:35
LA REPUBBLICA
25 ottobre 2007
Dai processi politici all'eredità di Falcone. Dalla gestione dei pentiti alla cattura di Provenzano
E ora lo scontro sul caso Cuffaro. Dopo 25 anni, dell'idea di Chinnici e Caponnetto restano solo macerie
C'era una volta il pool antimafia
Palermo, i giudici cannibali
di ATTILIO BOLZONI

PALERMO - Si sono divisi sui processi politici e scontrati su come fare le indagini. Si sono contesi l'eredità di Falcone. Inchiesta dopo inchiesta, si sono combattuti su tutto. Su Andreotti. Sui pentiti. Sulla caccia a Provenzano. Sulle "talpe" infilate nelle loro stanze. Prima hanno scatenato violentissime guerre in nome dell'antimafia e poi la loro antimafia l'hanno divorata. Quasi venticinque anni dopo è finita per sempre la storia del pool di Palermo. L'hanno sepolto antichi rancori, l'hanno sbranato tribù giudiziarie in perenne sfida. E ormai, di quell'idea e di quella struttura investigativa nata in un piccolo bunker del Palazzo di Giustizia mentre i mafiosi spadroneggiavano per la città, sono rimaste solo macerie. Resti di pool sui quali camminano giudici che si azzannano, che si fanno a pezzi fra loro. Sono giudici cannibali quelli di Palermo. Rappresentato dagli stessi abitanti del Palazzo di Giustizia come uno dei tanti conflitti originati da due "scuole di pensiero", il caso Palermo in realtà questa volta è il segno di un'avventura al suo epilogo: la conclusione di una stagione italiana nella lotta a Cosa Nostra.

Quelle di Palermo non sono soltanto dispute - come era accaduto anche più volte in passato - di natura tecnico giuridica o divergenze sul vaglio delle contiguità fra mafia e politica. È tutto più evidente e doloroso: è lo spegnimento, l'estinzione di un'esperienza che ha marcato un quarto di secolo.
È implosa la procura della Repubblica di Palermo. Dietro le polemiche, le risse, le comunicazioni a mezzo stampa per precisare pubblicamente "la linea dell'ufficio", c'è una devastazione mai conosciuta prima. Neanche ai tempi dei veleni e dei magistrati eccellenti sospettati di collusione. Gli effetti di questo disastro sono già visibili. Investigazioni rallentate. Processi pasticciati. Deleghe d'indagine sospese. Sostituti che nascondono carte ad altri sostituti, che non si salutano più, che dichiarano apertamente "il proprio odio" nei confronti di altri magistrati. Colleghi della porta accanto, blindati come loro, prigionieri delle stesse scorte e delle stesse paure.

Un pool pieno di nemici. Una parte accusa l'altra di "massimalismo" nelle investigazioni di mafia, il riferimento è alla gestione Caselli, ai suoi processi politici - quasi tutti persi - e allo schema operativo che si sta riproponendo ora con il nuovo procuratore capo Francesco Messineo. Sarà un caso, ma nei corridoi della procura di Palermo è ricominciato a circolare il nome di Silvio Berlusconi. L'altra parte accusa i fedelissimi di Pietro Grasso di avere creato un "centro di potere" nella direzione distrettuale, con indagini affidate a pochi. Di avere impedito la "circolarità" delle informazioni, mantenuto un "basso profilo" investigativo, concentrato energie quasi soltanto sul versante militare di Cosa Nostra. Trascurando la mafia economica e politica.

L'ultimo atto di questa lotta è la vicenda Cuffaro. Su come portare alla sbarra il governatore della Sicilia per le sue frequentazioni mafiose, sui reati da contestargli. Il caso è emblematico. Ma quali discordie e quali diverse "scuole di pensiero", i fatti che si sono susseguiti intorno all'inchiesta sull'imputato Totò Cuffaro rasentano la perversione giuridica. Oggi, a Palermo, contro il governatore ci sono due procedimenti fotocopia. Tutti e due con le stesse fonti di prova. Uno aperto il 26 giugno 2003, l'altro il 21 maggio del 2007. Il primo è approdato in dibattimento e - in sede di requisitoria - per lui sono stati chiesti 8 anni di reclusione per rivelazione di segreti e favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Il secondo ha prodotto l'iscrizione di Cuffaro nel registro degli indagati per gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, concorso in associazione mafiosa. Una procura lo sta già processando per un reato, un'altra procura lo vorrebbe processare per un altro reato. L'inchiesta però è sempre quella, non sono emersi altri indizi, non ci sono altre acquisizioni (un paio di deleghe e nulla più), non c'è un altro collaboratore di giustizia o un'altra intercettazione ad arricchire il quadro probatorio.

L'affaire Cuffaro è stato in sostanza soltanto il pretesto per l'ennesimo duello, il più rabbioso. Il governatore della Sicilia di fatto passerà alle cronache come l'imputato che ha dato il colpo finale alla credibilità dei procuratori di Palermo. Se ci sarà una data per ricordare la fine ufficiale del pool antimafia quella è proprio oggi: l'ottobre del 2007.

Più che una resa dei conti sta andando in scena una resa collettiva. Fra quel gruppo che faceva riferimento al procuratore Gian Carlo Caselli (i suoi fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Nico Gozzo, Gaetano Paci) e quegli altri che sono vicini al suo successore Pietro Grasso (Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino). Gli uni e gli altri sono consapevoli che, d'ora in avanti, alla procura della Repubblica di Palermo niente sarà più come prima. "Non c'è speranza", dicono tutti.

La ferita è profonda. Condiziona le strategie generali e l'attività quotidiana. Per esempio tutti aspettano con terrore il prossimo 12 dicembre la requisitoria al processo contro l'ex maresciallo dei carabinieri Antonio Borzacchelli, poi diventato deputato della Regione e arrestato per corruzione. L'atto di accusa è affidato a due sostituti che non si rivolgono più la parola. Ma è quell'ordinaria amministrazione che "ordinaria" non è mai stata a Palermo, che è influenzata e limitata dalle spaccature. Quando c'è un omicidio al confine fra una borgata e l'altra, il funzionario di polizia o l'ufficiale dei carabinieri che fa il sopralluogo entra in agitazione per capire chi è il referente in procura, l'aggiunto delegato a coordinare le attività investigative sui "mandamenti" mafiosi. Ce ne sono 7 di "aggiunti", tutti hanno il loro territorio, tutti vogliono in esclusiva la notizia criminis.

E subito, prima degli altri. "La stessa informazione sono costretto a girarla in una mattinata anche a cinque magistrati diversi", confessa un ufficiale di polizia giudiziaria che è da molti anni in Sicilia.
La distribuzione di incarichi con la guida del procuratore Messineo si è rivelato uno "spezzatino antimafia" per accontentare tutti. Ne è derivato un disordine organizzativo e investigativo. Con un'aggravante: hanno isolato, messi da parte con la scusa della loro imminente uscita dalla direzione distrettuale per "scadenza", quei sostituti legati a Pietro Grasso come Prestipino e De Lucia che erano i titolari di quasi tutte le inchieste più importanti. Due magistrati con una capacità investigativa - di qualità e, particolare non trascurabile, di quantità - decisamente fuori dal comune.

La vera svolta, dichiarata e sbandierata, rispetto alla procura di Grasso è quella di "alzare il tiro". Un annuncio per rinnegare l'azione palermitana dell'attuale Superprocuratore nazionale, liquidata da alcuni addirittura come la fase più "oscura" della lotta alla mafia. Dall'altra sponda già tremano per la riproposta di vecchi "teoremi". E poi c'è un passato siciliano troppo pesante per poterlo dimenticare. I risentimenti covano sempre. Nel mirino dei sostituti che hanno riconquistato la procura con Messineo c'è - primo fra tutti - Giuseppe Pignatone, al quale si rinfaccia la sua ostilità Giovanni Falcone. È il magistrato che ha coordinato l'indagine sulla cattura di Provenzano e contemporaneamente l'indagine su Cuffaro. In tanti però lo ricordano sempre per quel suo peccato originale, lo considerano un "prudente". Sull'altro fronte si scandalizzano per inchieste ferme da più di un anno, per arresti che risalgono ancora ai "pizzini" di Provenzano o agli sviluppi di una retata del giugno del 2006. Un'apatia investigativa che avrebbe concesso già fin troppo tempo alle "famiglie" per riorganizzarsi.

Nell'antimafia di Palermo è muro contro muro. Un paio di giorni fa Messineo ha steso la bozza di un documento per provare a "pacificare" l'ufficio, l'ha fatta girare per sentire gli umori dei suoi sostituti. Quella bozza, qualcuno, l'ha già definita "indecente". Come era prevedibile, un altro tentativo di riconciliazione è finito ancora prima di diventare in qualche modo ufficiale.

È in questa tormentata procura che fra il gennaio e il giugno del 2008 se ne andranno per legge tutti e 7 gli "aggiunti". Si fanno già i nomi dei nuovi. Uno è quello di Girolamo Alberto Di Pisa, il magistrato accusato di essere il Corvo di Palermo. Fu assolto, naturalmente. Tornerà lui e torneranno altri in procura. Come negli anni prima del pool.




LA REPUBBLICA
Int. a GIUSEPPE DI LELLO
"CON FALCONE SI RISPETTAVANO LE REGOLE
ORA IL POOL ANTIMAFIA NON ESISTE PIU' "
ATTILIO BOLZONI
a pag.23

Venivamo da esperienze umane e ideologiche diverse, ma eravamo attenti al valore reciproco
Discutevamo di tutto e poi c´era chi decideva, chi dava e chi prendeva ordini sempre condivisi
Dopo le stragi del ´92 era impensabile un governatore accusato di favoreggiamento


ROMA - Erano in quattro. Lui, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta. Erano soltanto loro, all´inizio. Venticinque anni fa. «Era il nostro pool antimafia. Adesso non c´è più, il pool è qualcosa che unisce, adesso quelle di Palermo sono piuttosto sezioni staccate...», dice Peppino Di Lello mentre con la memoria ritorna a quel piccolo bunker dove in Sicilia, fra il 1982 e il 1983, cominciò per la prima volta la lotta giudiziaria a Cosa Nostra.
Peppino Di Lello è oggi un senatore di Rifondazione, relatore della riforma sull´ordinamento giudiziario, coofondatore del pool dell´ufficio istruzione e da quasi quindici anni fuori dalla magistratura. Ricorda: «Me ne sono andato il 15 gennaio del 1993, proprio il giorno che arrivò Gian Carlo Caselli a Palermo e quando i carabinieri del Ros arrestarono Totò Riina sulla circonvallazione».
Solo una coincidenza, naturalmente.
«Sì, poche ore prima avevo ricevuto la comunicazione che il 15 gennaio di quell´anno ero stato nominato consulente alla commissione parlamentare antimafia. da quel momento ho smesso di fare il magistrato».
Cos´era quel pool di un quarto di secolo fa, quello del bunker nell´ammezzato del Palazzo di Giustizia? Cosa aveva di diverso da quello di oggi?
«Era un´altra cosa, a cominciare dagli uomini. Venivamo tutti da esperienze umane e anche ideologiche diverse, ma tutti avevano ben chiaro che era importante il riconoscimento del valore reciproco. Mai nessuno è stato, non dico isolato, ma nemmeno marginalizzato là dentro. Neanche quando poi si aggiunsero altri tre magistrati a noi quattro: erano Giacomo Conte, Gioacchino Natoli e Ignazio De Francisci».
Le differenze sostanziali quali erano fra il pool di Falcone e quel che resta del pool antimafia della procura 2007?
«Allora tutti discutevamo di tutto ma poi c´era chi decideva, chi dava e chi prendeva ordini. Ordini che erano sempre condivisi, però sempre ordini erano. Il consigliere Antonino Caponnetto dirigeva l´ufficio ma il capo riconosciuto era Giovanni Falcone. La sua più grande qualità era il senso delle istituzioni. Era inimmaginabile per lui muoversi in qualsiasi direzione che non fosse nel rispetto delle regole. Ho ricordi precisi, anche nelle situazioni più estreme di quella stagione».
Ce ne può raccontare una?
«Quando il Csm scelse Antonino Meli al posto suo come consigliere istruttore. Falcone, pur amareggiato, accettò sino in fondo le decisioni del Csm e si mise a lavorare. Anzi fece di più. Questo è un particolare che pochi conoscono. Quando Meli frantumò nel 1988 un´unica inchiesta su Cosa Nostra - quella nata dalle rivelazioni del pentito Calderone - per spezzettarla in tanti tronconi e distribuirla in altrettante procure siciliane, chiese aiuto proprio a Falcone. Il consigliere Meli non sapeva da dove cominciare, Falcone gli diede una mano. Io e il giudice Conte eravamo in disaccordo su quella frammentazione e lasciammo il pool furiosi, Falcone ci disse soltanto una cosa: "Arrivederci". Il suo senso delle istituzioni non prevedeva la ribellione o il dissenso da manifestare pubblicamente. Dopo 25 anni, io devo fare profonda autocritica per quella mia presa di posizione».
Cosa pensa di ciò che sta avvenendo in questi mesi a Palermo?
«Non vorrei alimentare altre polemiche, io poi non sono tanto amato da certi magistrati di quella procura. Da alcuni almeno. Posso solo dire, riprendendo quel discorso sul senso delle istituzioni che aveva Falcone, che non c´è stato per esempio un riconoscimento nei confronti di Pietro Grasso quando era procuratore capo di Palermo».
Come continuerà la lotta alla mafia a Palermo?
«Con il fiato sospeso, il processo a Totò Cuffaro è emblematico. Dopo le stragi del 1992 era impensabile che diventasse presidente della Regione un uomo politico accusato di avere favorito la mafia. Oggi, nel 2007, Cuffaro è il governatore della Sicilia. Ha ragione lo storico Salvatore Lupo: la procura di Palermo sente come una sconfitta della magistratura quello che è avvenuto nella società civile e politica siciliana. Con Cuffaro governatore».
È un segnale, al di là delle accuse che dovranno essere provate, un governatore come Cuffaro per la mafia?
«Se il capo del governo siciliano è sotto processo per avere favorito Cosa Nostra e non si dimette nonostante quell´accusa, la mafia si sente oggettivamente più forte».






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