E subito, subito il VI Episodio
Nella sua irresponsabile tracotanza, il re, volle portare la sua sposa a Modena per mostrarle il frutto delle sue gesta vantandosi di aver posto rimedio là dove io avevo fallito. Male informato dalla sua mediocre corte di lacchè e ruffiani, e totalmente privo di ogni contatto sociale, non si accorse del malumore che rumorosamente serpeggiava per quelle terre impoverite ed affamate da troppe guerre e da troppi conquistatori.
Proprio durante la celebrazione della Santa Messa celebrata dal vescovo per benedire le nuove terre annesse al regno scoppiò violenta e feroce la rivolta popolare. L’esercito reale, completamente colto di sorpresa subì pesanti perdite andando allo sbaraglio in breve tempo. Io che mi trovavo con i miei uomini, non lontano dalla chiesa, diedi subito ordine di correre alle armi e di giungere alla cattedrale, prima che accadesse il peggio. Solo con furibonde scaramucce combattute per vie e piazze e resistendo ai continui agguati che giungevano, quasi da ogni vicolo, riuscimmo a giungere in vista del Duomo. Qui, trovammo la guardia reale allo stremo delle sue forze, mentre stava cercando di tenere aperto un corridoio per far uscire il re ed i nobili dalla cattedrale. Accorremmo in aiuto troppo tardi, quando già i ribelli, erano riusciti a spezzare il cordone di sicurezza. Fu il panico, la confusione più totale, in un guazzabuglio di urla, di pianti, grida e clamore delle armi. Persi alcuni uomini e fui ferito seppur superficialmente io stesso prima di trovar rifugio nella chiesa. Trovai corpi orribilmente dilaniati in terra, e persone gementi per le ferite immerse in pozze di sangue lungo le navate. Nemmeno la casa di Cristo era riuscita a fermare l’impeto dei rivoltosi. Fuori si udivano ancora i rumori della battaglia, mentre io con Astorre cercavo di riorganizzare le idee per studiare un piano che ci tirasse fuori da quell’impiccio.
Di tanto in tanto le porte sprangate della cattedrale venivano aperte per permettere ai feriti di entrare, si era creata una zona franca sul suolo consacrato in cui non si combatteva. Fra i feriti riconobbi alcuni nobili senesi, oltre a soldati e molti sconosciuti.
Venni chiamato da un mio soldato che mi presentò un frate, il quale mi invitò a seguirlo giù per i gradini che portavano nelle cripte, dove avremmo potuto trovare una via di fuga. Scendemmo sotto la sua guida illuminandoci la strada con le torce, appena sotto venimmo aggrediti da una maleodorante aria ammuffita fredda ed umida, e ci ritrovammo in un piccolo spazio in cui erano ammassati alcune persone. Il frate, si rivolse a me agitato indicando con un dito fra le persone: “Presto bisogna portare via la regina, e le altre nobildonne che abbiamo nascosto qui sotto prima che entrassero in chiesa!” Un tuffo al cuore, mentre i miei occhi cercavano nell’oscurità di trovare il suo volto. Un lampo azzurro, fu il suo sguardo spaventato, che solo in quel momento sembrava riconoscermi. Sentivo le tempie pulsare al ritmo cardiaco, mentre il mio respiro pesante si faceva più frenetico. Per qualche istante, che mi sembrò un’eternità, rimasi avulso dalla realtà, scorgevo solo il frate che sembrava parlare ancora con me ma io non lo udivo più, qualche uomo si stava già muovendo verso le donne aiutandole ad alzarsi, ma fu Astorre, che mi svegliò da quel torpore: “Marchese prenda lei la regina in consegna! Mentre io e gli altri uomini ci occupiamo delle altre dame!” Ella si avvicinò a me abbracciandomi nascondendo il suo volto contro la mia armatura di maglia. La sentii scossa dai fremiti del pianto. In quel momento ricordai a me stesso che non c’era tempo da perdere e sollecitai il frate ad indicarmi la strada che ci avrebbe portato fuori dalla cripta.
Venti minuti dopo riemergemmo in una cappella che distava forse qualche centinaio di metri dalla cattedrale. Non si udivano voci concitate provenire dall’esterno, ed il frate ci disse che ci trovavamo in vie secondarie della città. Astorre mandò un paio di uomini in perlustrazione mentre il frate ci indicava un convento distante poche centinaia di metri da dove ci trovavamo e dove affidare le nobildonne. Gli esploratori, confermarono l’assenza di ribelli e di uomini in armi per cui decidemmo di non perdere ulteriore tempo e di dirigerci verso il Convento indicatoci dal frate. Fortunatamente lo raggiungemmo senza incidenti, e affidammo le dame alle sorelle della misericordia. Ci fu data dell’acqua e un po’ di pane per ristorarci prima di deciderci sul da farsi.
Ancora qualche uomo era uscito in avanscoperta, ma questa volta il suo ritorno fu foriero di brutte notizie. La città era stata occupata dalle forze ribelli, le milizie reali erano state sconfitte in più scontri e costrette ad una fortunosa ritirata fuori dalle mura. Non si sapeva nemmeno se il re fosse riuscito a salvarsi.
Decisi di abbandonare le nostre armature con le effigi ed i colori senesi, per mescolarci più facilmente con i ribelli, tentare una sortita sarebbe stato un suicidio, con i pochi uomini che mi trovavo, e tutte le nobildonne da difendere.
Io e Astorre chiedemmo di poter conferire con la regina, per spiegarle la situazione e consigliare a lei e alle altre dame di indossare vesti più umili e nascondere gioielli e preziosi, poiché l’unica nostra salvezza per uscire dalla città era nel mescolarsi al popolo senza destare sospetti. Violante, rimase in silente ascolto, mentre parlavo, fissandomi con i suoi occhi celesti e lucidi, stanchi ma risoluti, ed il suo volto pallido ma attento ad ogni parola che le dicevo. Non potei fare a meno di notare come la sua bellezza fosse rimasta immutata in quegli anni e come il suo corpo fosse maturato, trovando i tratti sinuosi della femminilità là dove avevo lasciato le acerbe curve dell’adolescenza.
Utilizzai tutte le forze di cui ero in possesso per non tradire il mio stato d’animo, e ringraziai il cielo di non essere da solo con lei in quella stanza.
Quando ebbi finito di parlare, la regina attese qualche attimo in silenzio, continuando a fissare le mie labbra che speravo immobili, poi alzando gli occhi verso i miei disse: “Marchese io e le altre nobildonne dobbiamo la nostra vita al coraggio dei suoi uomini e alla vostra fedeltà verso la corona di Siena. Diteci cosa dobbiamo fare e ve assicuro che verrà fatto!” Aveva parlato con tono autoritario, un tono a me sconosciuto fino ad allora, ma nello stesso istante, intrecciato ad esso, o forse solo accompagnato vi era anche quella dolcezza che non avevo mai dimenticato.
Ci risolvemmo di lasciare in convento per quella notte la regina e le dame, mentre noi ci saremmo confusi nella folla cercando ricovero in una locanda li vicino.
Fra gli uomini di Astorre vi erano, fortunatamente, anche alcuni emiliani, che scambiarono quattro chiacchiere con alcuni avventori senza correre il rischio di essere traditi dal loro accento e nello stesso momento potendo ricavare importanti informazioni sulla situazione.
Venimmo così a sapere che si combatteva ancora a ridosso delle mura, che alcune sacche di soldati senesi resistevano tenacemente, mentre il centro cittadino era completamente in mano all’auto proclamatosi “libero popolo di Modena”. Si evinceva che non vi fosse alcun leader politico o nessun aristocratico locale al comando della rivolta, ma solo qualche borghese carismatico, e che non vi fosse una strategia precisa sul dopo, si limitavano a proclamare l’indipendenza di Modena da ogni dominatore. Astorre, esperto combattente che più volte aveva partecipato a rivolte o soffocate, osservò subito, il vantaggio di una tale situazione, spiegandomi che una volta che i soldati di Siena si fossero ritirati, il popolo in armi si sarebbe dato alla pazza gioia e alla confusione, festa che non sarebbe durata meno di giorni forse per settimane, senza alcuna sorveglianza o servizio d’ordine, dandoci al possibilità di uscire indisturbati dalle mura. Nel frattempo avremmo dovuto rimanere al sicuro, perché fin che si combatteva era impensabile abbandonare la città.
Gli scontri durarono tutto il giorno seguente, che noi trascorremmo nei paraggi della locanda e del convento stando ben attenti a non destare l’interesse di alcuno. Mandai più volte qualche uomo nel convento per accertarmi che tutto fosse in ordine, evitando di andarci io stesso.
Verso l’imbrunire, sentimmo il vociare della gente alzarsi di tono, divenire più concitato, interrotto da scoppi di urla sempre più frequenti sino a diventare una vera e propria babele di risate, bestemmie, e grida. Guardai Astorre, allarmato e lui si limitò a rispondere al mio sguardo, con preoccupazione. I nostri informatori si unirono al tavolo a cui eravamo assisi, e con aria trafelata ci riferirono quanto avevano appena appreso: “Hanno ucciso il re! Dicono di averlo preso vicino al molino e di averlo giustiziato mozzandogli la testa mentre cercava di nascondersi nelle granaglie!”
“Avete visto la testa! Avete parlato con qualcuno che c’era! Che l’ha visto!” Interruppe bruscamente la grave voce del condottiero fiammingo.
“No, non ho visto la testa, la notizia è arrivata da fuori e sta serpeggiando per tutta la città! Qui tutti la danno per vera, e l’entusiasmo sta salendo alle stelle!”
“Notizie del genere sono frequenti durante le rivolte di piazza soprattutto quando le cose si mettono bene per i ribelli! Non gli si deve dar molto credito però! Se l’esperienza non mi tradisce ne giungeranno altre con versioni sempre differenti e sempre più fantasiose, ma dubito che molti di loro sappiano addirittura che faccia abbia il re!” Astorre aveva parlato sottovoce con tono volutamente annoiato e rassicurante.
Ma le sorprese per me quella sera non erano finite li, infatti quando la taverna della locanda in cui mi ritrovavo ancora seduto era una bolgia di uomini e donne che festeggiavano, sentii schioccare il mio bicchiere con un altro mentre una mano faceva una leggera pressione sulla mia spalla; i miei muscoli si tesero subito pronti a scattare sulla difensiva, quando una voce inconfondibile mi urlò: “festeggiate insieme a me! Modena è libera!” Fui abbagliato dalla lucentezza di quel sorriso che anni prima mi aveva rapito, mentre rimanevo goffamente seduto per metà sulla sedia.
Violante, mi strinse fingendo un abbraccio gioioso e portando le sue labbra vicino al mio orecchiò sussurrò: “E’ vero ciò che si sente? Il re è morto!”
“No! Secondo Astorre sono solo voci che non hanno nessun fondamento! State tranquilla… Non siete vedova!” Caricai le ultime parole di sarcasmo accompagnandole ad un lieve sorriso.
Ella senza badarci proseguì: “Allora che cosa ci dobbiamo aspettare?... Rimarremo qui fino quando?... Le dame sono spaventate, non so per quanto ancora riuscirò a tenerle tranquille! Molte sono terrorizzate dalle notizie che giungono, temono per i propri figli e uomini!”
“Non possiamo lasciare la città fino a quando non cesseranno i combattimenti, dopo approfitteremo della festa generale per allontanarci!... Dovete stare tranquille, è l’unica speranza perché possiate rivedere i vostri… uomini.” Questa volta non avevo voluto caricare l’ultima parola ma scoprii solo nel pronunciarla che mi riusciva oltremodo difficile rimanere indifferente.
Lei abbassò gli occhi allontanandosi da me senza cancellare il falso sorriso dipinto sul volto, sorseggiò ancora dal bicchiere fingendo di fare un brindisi, poi mi prese la mano e mi accompagnò verso il pergolato che vi era nel giardino interno all’edificio, che portava, nel magazzino della taverna. Qui vi erano pochissime persone e per lo più accasciate a terra ubriache.
“Non crediate, che la mia sofferenza sia stata meno della vostra! Nulla avete fatto voi… Marchese. Cosa volevate che facessi io?...” Accompagnò la staffilata con uno sguardo di sfida puntato direttamente nei miei occhi.
Avevo accusato il colpo, avrei voluto, gridare la mia frustrazione, avrei voluto scappare, avrei addirittura voluto unirmi ai rivoltosi in preda al mio rabbioso odio se non fosse stato per il suo profumo che inebriava il mio respiro, se non fosse stata per la sua mano fredda stretta al mio polso, se non fosse stato per la ciocca bionda che le ricadeva morbida vicino all’orecchio, per quegli occhi cristallini che mi fissavano, per le sue labbra rosee e perfettamente disegnate su quel volto pallido che in quella notte rischiarava il mio animo come la luna che si riflette sull’acqua. La mia mente, vacillò, il giardino si appannò sfocandosi, come se il mio cono visivo si fosse improvvisamente ristretto solo a lei, poi tutto divenne evanescente ed io mi smarrii sulle sue labbra.
La rabbia, la passione, la frustrazione, l’amore si fusero insieme così come i nostri corpi bruciando in un fuoco impetuoso che ci fece perdere ogni cognizione dello spazio e del tempo e che ci fece sorprender dell’alba ancora uniti.
Quando mi svegliai la prima cosa che udii fu il suo respiro regolare sul mio petto e la prima cosa che vidi la serenità sul suo volto, che anche nel sonno non aveva perso il suo tenue sorriso.
La svegliai gentilmente, ed ella parve smarrita mentre si guardava intorno, poi fermò i suoi occhi su di me, sul mio corpo nudo come il suo e rialzando il volto, portò una mano sul mio viso accarezzandomi lievemente una gota: “Temevo fosse stato solo un sogno!... Temevo di ritrovarmi ancora nel palazzo… Sapessi quante volte l’avevo sognato, e quante mattine avevo pianto fra le lenzuola del letto sotto quegli odiati affreschi che mi schernivano dal soffitto!” Gli occhi le divennero lucidi, mentre il suo volto, continuava, ancora imperterrito ad essere illuminato dal suo sorriso, solo che ora era diverso, era come se una nuova luce fosse andato ad impreziosirlo, ora era più malizioso, più intrigante, più complice.
“Ora sono una regina!” Esclamò con quella luce che ora le faceva addirittura scintillare gli occhi, mentre la sua mano scendeva esplorando il mio corpo; la presi stringendola dolcemente nella mia: “Dobbiamo vestirci, si sarà notata la vostra assenza in convento, non è opportuno mettere in allarme le altre dame, potrebbero fare una sciocchezza!”
“Mmh, marchese, credete veramente che possano fare una sciocchezza più grande di quella che abbiamo fatto noi?” Sospese le parole guardandomi maliziosamente, liberò la sua mano dalla mia e continuò a farla scorrere lungo il mio corpo: “Sono la vostra regina, e devo controllare le mie nuove terre… Devo vedere se sono di mio gradimento…” Ormai avevo perso ogni volontà per poterla fermare.
Quando ci accomiatammo, era già giorno fatto, il sole pallido fra le nubi, a stento riusciva a scaldare la città. Trovammo molte persone ancora addormentate od intontite per la città dopo la sbronza di ieri. Accompagnai Violante fino alle porte del convento lasciandola con un bacio prima che la porta si aprisse per evitare che chi aprisse leggesse quello che vi era scritto sui nostri volti.
Astorre, quando mi vide, strinse gli occhi in un’espressione eloquente, ma che lasciò ben presto il posto alla solita maschera rude di combattente.
“Come vi avevo detto sono giunte nuovi voci sulla morte del re e di altri nobili, ma nessuna degna di alcuna credibilità, gli uomini sostengono che ormai gli scontri siano sempre più radi e parlano di parecchi soldati con la balzana senese passati a miglior vita.”
“Temo che molti si siano sacrificati per permettere al re di fuggire sano e salvo!” Dissi di rimando.
“Può essere!... Come del resto si è sacrificato lei per la regina…” Aggiunse con una profonda e grassa risata mentre i suoi occhi si illuminarono di allusioni.
Tentai senza riuscirvi di fingere una espressione disorientata, che si sciolse in un sorriso soffocato.
Attendemmo altri tre giorni, nascosti nella confusione della città, altri tre notti con Violante, prima di lasciare la città.
Il viaggio di ritorno fu lento, cauto e struggente poiché sapevo che poteva significare l’ultimo addio a Violante! Durante il giorno i nostri rapporti erano più che formali, e solo occhi attenti ed esperti, come forse erano solo quelli di Astorre, potevano cogliere, i repentini sorrisi, che si disegnavano sui nostri volti, o i fugaci sguardi che ci lanciavamo.
Il mio animo era tormentato quanto quello di Violante, nella contraddittoria speranza di tornare a Siena, quale nostra salvezza e perdita contemporaneamente, mi rifiutavo di pensare se fosse vivo o morto il re per non dovermi confrontare con la mia reale volontà.
Durante il ritorno venimmo a sapere che rivolte erano scoppiate anche in altre città e che l’esercito stentava a riportare l’ordine e la pace. Sulla scia di Modena le voci avevano viaggiato velocemente, come faville di un incendio trasportato dal vento, che accendevano nuovi fuochi ogni volta che si posavano su nuove terre.
Io e Violante ci amammo ancora, in modo più intenso, sempre meno attento, quasi ad essere spudorato, man mano sapevamo di avvicinarci a Siena e al nostro addio. Nessuno aveva mai osato affrontare l’argomento del dopo e rimase sospeso fino al nostro arrivo.
Giungemmo a Siena il 14 Giugno sull’ora del crepuscolo, e la notizia si sparse velocemente per la città che in breve tempo era già scesa per le vie e per le piazze a darci il benvenuto. Ci venne incontro il re in persona con la sua scorta a ricevere la sua sposa e i valenti guerrieri che insieme alle altre nobildonne l’avevano tratta in salvo.
Fu proclamata festa in nostro onore per tre giorni, nei quali fui costretto mio malgrado a partecipare a banchetti e feste di palazzo. Vennero conferiti onori a me e ai miei uomini, e fu deciso all’unanimità dal Gran Consiglio dei Cavalieri di ridarmi il mio seggio perduto e che Astorre fosse nominato comandante della scorta reale. Venne così a sostituire il comandante precedente morto durante gli scontri di Modena.
Il mio cuore piangeva, il mio animo era nuovamente disperato, nonostante fossi considerato un eroe e che tutta la gente acclamasse il mio nome. Furono ancora le armi il mio rifugio dall’amor perduto, ed insieme Astorre, al quale ogni volta si proponeva una nuova battaglia non stava nella pelle, per la gioia, organizzammo la spedizione per liberare Modena dai rivoltosi e sopprimere la ribellione.
Giungemmo ad Agosto in vista della città, e diedi ordine fin da subito ai soldati di non lasciarsi andare a nessun genere di efferatezze e vendette, imposi il rispetto dei prigionieri e l’incolumità di chi si fosse arreso. Dovevo molto a quella città, ancor di più ai rivoltosi che avevano permesso ciò che io in tutto il potere del mio titolo e delle mie ricchezze non avrei mai potuto ottenere. Oltre, naturalmente, l’esigenza di non esasperare ulteriormente una comunità già fin troppe volte provata.
Il Duca Maurizio di Serramonte, signore di Napoli aveva riportato l’ordine in tutta l’Italia meridionale entro il settembre di quello stesso anno, io lo riportai definitivamente il gennaio dell’anno successivo, soffocando l’ultima rivolta emiliana.
Nel febbraio 1492 nacque Jacopo l’erede al trono al regno di Siena, il vecchio Astorre accolse la notizia quando era insieme ai suoi uomini e commentò: “Il re Jacopo sarà un grande condottiero, amato da tutto il popolo se avrà la bellezza e l’audacia della madre, ed il valore e il coraggio del padre!” Dandomi una vigorosa pacca sulle spalle. Io non potevo credere, che molto probabilmente la prossima generazione di regnanti senesi appartenesse al casato Trazbanj. La cosa mi riempiva di tristezza e felicità insieme. Avevo ricevuto un paio di lettere da Violante, da quando ci eravamo lasciati a Siena, e nell’ultima, mi comunicava la sua preoccupazione per la vistosa somiglianza che Jacopo, ancor così piccolo aveva con me; concludeva dicendo che questo tesoro che le avevo donato era la cosa più bella che nessun re, mai per quanto potente sulla terra avrebbe mai potuto regalarle!
Io avevo già deciso di tornare a Siena per vedere mio figlio, seppur con la dolorosa consapevolezza che lui avrebbe chiamato un altro come padre, quando giunse, tramite un corriere, la notizia di una grande sommossa sia in terra di Emilia che di Romagna.
Il regno cadde nuovamente nella confusione fino alla primavera, senza però placarsi completamente prima della fine dell’anno. Furono prese grandi decisioni politiche in quell’anno: la popolazione borghese chiedeva maggiori poteri ed i mercanti maggiori tutele a salvaguardia dei loro fragili commerci. Il Gran Consiglio dei Cavalieri, si riunì più volte per deliberare e nel Marzo 1493, ad una adunanza a cui partecipai anch’io si deliberò alla maggioranza la nascita della repubblica di Siena, mantenendo la signoria Orlandi, ma limitandone alcuni poteri. Ora l’organo governativo era a tutti gli effetti il Gran Consiglio dei Cavalieri, che cambiò nome in Gran Consiglio della Repubblica, a cui però ora avevano accesso anche i notabili delle maggiori famiglie borghesi. Era stato ridimensionato di molto il potere dell’aristocrazia.
Grazie a queste grandi riforme lo stato cessò di essere sconquassato da rivoluzioni, conoscendo un momento di tranquillità e serenità che si infranse nella dichiarazione di guerra che Genova nel 1496 fece allo stato di Milano.
Fu una guerra rapida e ben gestita da parte Senese. Il Gran Consiglio conferì a me il comando generale. Arruolai un esercito in Siena di 16.000 fanti che unii alla mia personale scorta di 4.000 fanti e 1.000 cavalieri e marciai alla volta della capitale lombarda.
Posi l’assedio nel luglio del medesimo anno, nel settembre giunsero 8.000 fanti con il vessillo della croce di S.Giorgio e nel Febbraio 1497 Milano si arrese aprendo le porte.
A marzo fu formalizzata l’annessione di Milano alla Repubblica di Siena. Grazie alla velocità della campagna riuscimmo a non danneggiare troppo gli scambi commerciali e a non esasperare la popolazione con l’aggravio di pesanti tasse di guerra.
Io a capo di una guarnigione di 9.000 fanti e 1.000 cavalieri rimasi a Milano per garantire l’ordine e per avviare tutte quelle necessarie riforme per uniformare le strutture e le infrastrutture delle nuove terre alla repubblica.
Nel 1498 quale riconoscimento alle gesta d’arme e alle opere sociali fatte il Gran Consiglio della Repubblica mi nominò Duca di Modena e di Milano. Questo garantiva, finalmente, una volta per tutte la mia lontananza da Siena, senza che fossi più costretto ad inventarmi alibi per il mio forzato esilio.
La pace della repubblica durò per un decennio, fino a quando nel maggio del 1508 Francia, Wurzburg e Venezia dichiararono guerra a Genova. Noi onorammo l’alleanza e scendemmo in guerra.
Mi fu confermato il comando dell’esercito senese, e diedi subito ordini di arruolamento per il distretto di Siena, Firenze e Napoli.
Nel luglio dello stesso anno Siena poteva contare su 42.000 fanti e 6.000 cavalieri dislocati al nord e 14.000 fanti e 2.000 cavalieri stanziati a sud sotto il comando del duca di Napoli.
L’esercito francese mosse subito un fortissimo attacco alla repubblica ligure, sconfiggendola più volte in sanguinose battaglie fino a porre d’assedio Genova nel gennaio del 1509. Noi respingemmo l’attacco dei veneziani in Romagna, e combattemmo una vittoriosa pugna a Mantova. Ponemmo l’assedio nella città Lombarda, mentre la nostra flotta subiva pesanti perdite contro le navi del Leone di S.Marco.
Il nostro esercito meridionali, respingeva con successo uno sbarco francese sulle coste amalfitane, e tre mesi più tardi vinceva una battaglia contro i fanti serenissimi sbarcati ad Ancona.
A Maggio Fui costretto ad abbandonare l’assedio di Mantova per correre in aiuto all’alleata Genova che oramai stava per cedere all’asfissiante assedio per terra e per mare delle forze Franco-veneziane, chiedendo all’esercito guidato dal Duca Serramonti di salire al Nord per proteggere i confini orientali.
Nell’agosto combattemmo un alacre battaglia alle porte di Genova che ci vide vincitori dopo oltre un mese di scontri. Pur riportando gravi perdite, decisi di inseguire l’esercito nemico in terra di Piemonte. Genova liberata, poteva tirare un sospiro di sollievo.
Nell’ottobre successivo l’esercito senese vinse una decisiva guerra contro i francesi che furono costretti, decimati, a ritirarsi in terra di Savoia. Posi l’assedio con i miei uomini alla città di Torino.
Gli attacchi dei veneziani si fecero, via, via sempre più radi e deboli, tanto da spingere il duca di Napoli a porre nuovamente l’assedio a Mantova.
Feci approvare dei decreti che imponevano tassazioni più forti al fine di racimolare ducati per arruolare nuovi uomini, in quanto ero al corrente di un forte esercito francese in marcia verso di me.
Ovviamente, le nuove imposizioni fiscali, ridestarono le proteste popolari che qualche mese più tardi cominciarono ad incendiare le terre della repubblica toscana. Venne levato per la seconda volta l’assedio a Mantova, che cominciò a meritarsi l’appellativo di stregata da parte dell’esercito senese, per soffocare le rivolte interne.
Nel giugno del 1510 32.000 fanti e 7.000 cavalieri francesi attaccarono il mio esercito che combattendo con ineguagliabile eroismo, in spregio al dolore, indifferente alla paura respinse i transalpini a discapito di numerose perdite.
Nell’agosto le mie schiere furono rinfoltite dall’arrivo di 9.000 fanti provenienti dal distretto di Firenze.
Ad Ottobre finalmente le terre di Piemonte furono conquistate.
Il Gran Consiglio inviò gli ambasciatori a Parigi con offerte di pace, mentre le rivolte e i tumulti popolari cominciavano a tormentare preoccupantemente le terre della repubblica.
Letti, da un dispaccio i negativi esiti delle trattative parigine, esortai le mie truppe ad invadere le terre di Savoia. Nel Febbraio 1511 combattemmo l’ennesima battaglia contro una guarnigione francese che fu letteralmente travolta dall’impeto dei miei uomini e ponemmo l’assedio.
Nel marzo di quello stesso anno la Francia chiese la pace offrendoci 189 ducati e una flotta di 5 galee. Visti i disordini interni il Gran Consiglio della Repubblica ritenne vantaggioso accettare la pace. I disordini durarono per tutto l’anno costringendo gli eserciti repubblicani a continui scontri con i rivoltosi.
FINE VI EPISODIO