Europa Universalis 2 : Da Sarajevo a Siena

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Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:36
Con questo AAR, scritto da Virusboy nel maggio del 2003 e pubblicato per la prima volta nel defunto forum di Europa Universalis 2, viene inaugurata la sezione dedicata ai nostri racconti. "Da Sarajevo a Siena" viene qui ripubblicato grazie al permesso dell'autore: si tratta di un racconto vivido e passionale che merita una lettura certamente non distratta e che, potenza dei sentimenti, fa innamorare ancor di più di quel magnifico gioco che è EU2... [SM=g27827]

Xela [SM=x329162]


e ora, doverosamente, lascio la parola a Virusboy



Ecco il mio primo AAR, che per essere coerente è logorroico e noioso come i miei post...

PRIMA PARTE

Ho abbandonato i simpatici pastori bosniaci perché la città di Siena ricercava un giovane barone brillante quanto ambizioso per rendere ancora più prospera e fiorente questa ricca città italiana.
Senza frapporre ulteriore indugio sono partito con una carovana di mercanti che trasportava lana da Sarajevo a Spalato. Qui mi sono imbarcato su una galera veneziana che dalla costa dalmata faceva rotta verso Pisa. Non mi feci tentare dalle bellezze di questa città e neppure, anche se con difficoltà, dalla ricchezza di Firenze per non far attendere oltre la corte senese.
Mi dissi:" Qui riuscirò laddove fallii a Sarajevo..." Una città più ricca, con enormi potenzialità economiche avrà meno difficoltà a sviluppare una forte infrastruttura interna e un florido mercato.
Mi diedi tempo qualche mese per integrarmi nel tessuto sociale della città, apprenderne gli usi ed i costumi, padronanza della lingua e addentrarmi negli intrighi di palazzo.
Avvertii subito l'ostilità del vicino Stato Pontificio, dovuta alla politica ghibellina di Siena che forse per dispetto più che per convinzione si trovava nella scelta a preferire l'imperatore al papa.
Non era ancora finito l'anno 1419 A.D. che una bolla papale ammoniva la nobile città senese sulla condotta della propria politica estera! Un insulto che approfondì la diffidenza fra le genti di questi stati italici.
Fu l'illuminatissimo et nobilissimo Cosimo de Medici che porse la mano al fratello toscano offrendoci l'opportunità di una duratura alleanza.
Rammento ancora quando a seguito della corte giunsi nella splendida Firenze per svolgere quello che era il mio primo incarico ufficiale. Accolto nello sfarzoso palazzo de Medici fui intrattenuto da generosi banchetti, rallegrati da saltimbanchi e menestrelli, il vino servito in preziose coppe era di qualità ottima, e la compagnia decisamente squisita.
Dopo questi luculliani banchetti gli uomini si ritiravano in appartamenti riservati per dedicarsi alle questioni serie.
In questo clima la città di Firenze suggello con la sorella Siena un legame che per voce dello stesso Cosimo fu definito fecondo seme di una alleanza vasta che riunisse tutte le genti italiche.
Ritenni opportuno consigliare il mio signore affinché accondiscendesse al volere di Cosimo nel farsi portavoce di questa alleanza visto i migliori rapporti che Firenze vantava con il Santo Padre e con i ricchi mercanti di Genova.
Durante quel soggiorno conobbi la dama Caterina di cui imparai ad apprezzare e gustare la raffinata compagnia, intrattenendomi le serate in piacevoli conversazioni e dolci silenzi. Moglie di Marco Beventini apparteneva ad una delle più ricche e potenti famiglie di Firenze particolarmente vicine ai de Medici. Da ella venni a conoscenza della situazione politica italiana e di come i centri ricchi e i mercati fiorenti degli stati italici fossero oggetto di cupidigia da parte delle popolazioni transalpine e mediterranee e come sarebbe stato sciocco da parte nostra indebolirci con sterili faide interne esponendo il fianco alle loro invasioni.
Mi erudì sulla grande divisione che regnava fra stati filoimperiali e filopapali le ostilità fra guelfi e ghibellini e che era giunto, finalmente il momento di mettere da parte tali beghe per creare un’alleanza che scoraggiasse gli avidi animi stranieri.
Inutile nascondere che rimasi abbagliato da tanta lungimiranza politica e sedotto dal fascino di quella donna che mi spiegò pure della diffidenza dei veneziani troppo attaccati e gelosi dei loro interessi ad oriente e troppo sicuri della loro potenza economica e navale per poter cogliere questa debolezza. “Caro il mio Tobia, i veneziani ci vedono solo come una minaccia per i loro commerci nella Morea, Cipro e Trebisonda ove sono già costretti a condividere i mercati con genovesi che mai più vorranno vedere pure fiorentini o senesi”
Tornai da Firenze con la convinto della necessità di allearsi con i Genovesi, che tra l’altro con la loro potente marina potevano meglio difendere le coste tirreniche rispetto i veneziani, senza contare che i genovesi vantavano grandi stazioni commerciali nel mar Nero, da cui importavano molti prodotti dall’oriente rendendo il loro mercato molto interessante per le nostre tintorie che abbisognavano oltremodo delle riserve di allume.
Il genio diplomatico di Cosimo si mostrò in tutta la sua luminosità circondandosi in brevissimo tempo dei consensi dei Gonzaga, dei Doria e del papa. Al finire dell’anno Domini 1421 Siena faceva parte di una apparentemente solida alleanza italica.
A conclusione di questo sfolgorante successo diplomatico la mia esultanza fu offuscata da una perplessità che inconsciamente si trasformava in una avvisaglia di pericolo.
Eravamo riusciti a neutralizzare l’ammonimento della bolla papale ma dubitavo della buona volontà di tutti questi ricchi stati italiani che continuavano ad avere molti, troppi interessi commerciali concorrenziali fra loro.
All’incontrario dello stato bosniaco ove in giovanissima età avevo iniziato ad apprendere l’arte della politica e della diplomazia qui il peso del commercio era di gran lunga superiore al peso politico, eppure se riuniti sotto un’unica religione, vi erano forti contrasti fra le varie genti. Avevo lasciato un paese dove il problema più grave era l’intolleranza religiosa, l’eresie che sulla terra di confine fra cattolici, ortodossi e musulmani sorgevano in ogni momento. Era un popolo più semplice, fatto di lavoratori, che non si perdevano in troppe speculazioni ed intrighi, dove la parola una volta data era salda roccia su cui si fondavano le alleanze dove non si dovevano pesare i silenzi e misurare gli aggettivi per capire quale volontà si celasse dietro ogni frase arte che mio malgrado ero costretto ad imparare se volevo soddisfare le mie ambizioni.
Il mio ascoltare, quindi, si fece più attento, e particolarmente importante e prezioso si era fatto per me il tempo trascorso a conversare e discutere con il mio signore,che come scoprii era rimasto scettico sulla vera natura che aveva mosso così generosamente il disinteresse personale di Firenze per una preoccupazione verso gli stati italici. Io ero ancora troppo giovane ed il mio sentire inesperto perché potessi cogliere le motivazioni che risiedevano sul fondo dell’animo dei de Medici.
Qualcosa cominciò a rafforzare la perplessità che vi dicevo, qualcosa che emergeva dal mio carteggio con Luca di Trecento, influente mercante modenese che avevo conosciuto qui a Siena pochi giorni dopo il mio arrivo.
Egli si trovava in città per via dei suoi affari, che fra la città di Siena e Modena erano molto intensi per via degli ottimi rapporti che intercorrevano fra i signori delle due città. Entrambe filoimperiali e pertanto entrambe invise ai guelfi.
Erano stati stipulati molti accordi commerciali che riducevano al minimo il contrasto fra i mercanti delle due città con grande beneficio per i commerci.
Leggendo le sue lettere avevo appreso con stupore l’esclusione di Modena da parte dell’alleanza fiorentina, e di come questa esclusione non fosse figlia della volontà modenese bensì di una colpevole trascuratezza dei de Medici.
Per quanto ancora ingenuo non potevo credere in una dimenticanza da parte della attenta mente del signore di Firenze, e le acute osservazioni di Trecento mi misero in guardia su alcune prospettive e motivazioni che si nascondevano dietro il nobile spirito che permeava l’alleanza.
Rammentai allora quanto si era lasciato scappare il mio signore la sera del mio ritorno da Firenze, subito dopo la relazione che gli feci circa il mio soggiorno: “Allora non siamo noi il primo piatto del banchetto, forse vogliono prima gustare il vino di Modena o quello rosso e forte di Napoli…”
La verità emerse impetuosa così come l’aria anela alla superficie del mare nel suo ribollire quando Firenze dichiarò guerra alla sorella Modena che conduceva come noi una politica filoimperiale. Ecco spiegato l’oscuro dubbio che continuava a tormentarmi sul perché fosse rimasta esclusa dall’alleanza.
Firenze aveva voluto assicurasi i confini con noi per essere libera di conquistare Modena, mentre il papa non attese oltre per dichiarare guerra al Regno di Napoli.
Siena aveva venduto la sua amicizia con Modena per preservarsi, alla richiesta di onorare l’alleanza sembrò a tutto il Consiglio opportuno acconsentire. Tacitamente si decise che non avremmo contribuito in alcun modo all’assedio della città emiliana concentrandoci su Napoli che appariva troppo vicina alla sfera aragonese.
La nostra città cadde quindi in una serie di guerre che sconvolsero tutto lo stivale, e dove tutti i protagonisti dell’alleanza eccetto noi avevano uno scopo ben preciso da perseguire: Genova contro Venezia per i mercati d’oriente, il papa contro Napoli e lasciando a Firenze il compito di impartire una lezione alla ghibellina Modena.
Truppe veneziane giunsero dopo circa un anno di guerra nelle terre senesi ma il loro numero ridotto e la stanchezza ne fecero una facile vittoria per noi. Si decise di mandare un contingente di 8000 fanti e 2000 cavalieri per porre d’assedio Napoli, poiché le truppe pontificie erano impegnate nelle marche e nella Romagna contro le guarnigioni serenissime.
L’assedio fu posto a regola d’arte e infuse ottimismo alla cittadinanza che già pregustava un ricco bottino di guerra dal saccheggio che sarebbe seguito una volta espugnata la città, quando lo stato pontificio indispettito nel vedere andare ad altri il frutto della guerra decise senza consultarci di trattare la pace con il Regno napoletano. Modena nel frattempo aveva trattato una dispendiosa pace con Firenze che consumata dal blocco portuale che le galere veneziane avevano posto non riusciva più a trattenere il malumore dei propri mercanti.
Fu una guerra che Siena pagò con tributo di sangue e ricchezza senza conseguir alcun vantaggio, seppur fosse stata vittoriosa. Per me invece fu un’importantissima lezione di cui in seguito feci tesoro.

CONCLUSIONE PRIMA PARTE [SM=g27823]

[Modificato da Xelaehtgre 30/06/2004 19.05]

Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:42
Seconda Parte

Il rammarico del bottino perso a Napoli fece innervosire la fazione militare senese che voleva a tutti i costi rifarsi dall’umiliazione subita. D’altro canto, cercammo di rassicurare i nostri fratelli modenesi che noi non avevamo colpa di questa guerra e che mai avremmo mandato soldati a violentare, depredare e uccidere la loro gente.
Trascorsero cinque anni di tensione ed incertezza nei rapporti con i nostri alleati, anni in cui emissari veneziani e austriaci tentarono il nostro palazzo affinché abbandonassimo quell’alleanza che si era vestita di nobili motivi ma che possedeva un animo meschino ed avido per una più sincera e trasparente.
Uno di questi emissari fu Pietro Cornero , imparentato con il doge di Venezia, che mi ospitò nella splendida, romantica ed intrigante città che sorgeva sul mare.
Fu un soggiorno di due mesi nei quali potei assaporare tutte le primizie ed i frutti che la mia posizione e l’ospitalità potevano offrirmi. Pur non facendomi mancare i piaceri, non trascurai neppure il mio lavoro e dedicai molta attenzione ed energie alla vita mondana permettendomi di giungere alle vere preoccupazioni e desideri che l’affascinante Venezia serbava nel suo cuore. Non feci più l’errore che anni addietro mi concessi a Firenze.
Venezia era preoccupata dalle popolazioni slave che non mancavano occasione di attaccarla per prendere possesso delle sue ricchezze, in più gli austriaci iniziavano ad essere una spina nel fianco non nascondendo mire espansionistiche per giungere ad uno sbocco in mare, avevano tutto l’interesse perciò di assicurarsi i confini occidentali e i pericoli che potevano minacciare i genovesi.
Veneziani e genovesi si combattevano per le rotte commerciali e per i mercati, il papato portava avanti la sua contrapposizione all’impero e Firenze cercava di intromettersi fra Genova e Venezia per acquisire una sua sfera di potenza, mentre gli aragonesi cercavano apertamente di estendere il loro potere su regno di Napoli.
Un quadro del genere non poteva far credere ad un periodo di pace neppure al più stolto degli apprendisti.
Il punto era: che ruolo avrebbe svolto Siena in tutto questo? Eravamo considerati una semplice pedina, sufficientemente debole da essere attirata in una di queste sfere di potenza senza il bisogno di combattere.
Il clima a palazzo era molto teso, diffidavamo dei nostri alleati che ormai io stesso vedevo come minacce ai nostri confini, non nutrivo nemmeno la certezza che tutti avrebbero onorato l’alleanza nella prossima guerra, poiché tutti avevano interessi in contrapposizione, e l’affrettata pace del papa con il re di Napoli ne era stata una palese prova.
Su mio consiglio si decise quindi di prendere l’iniziativa per testare la solidità dell’alleanza e per cogliere di sorpresa tutti questi protagonisti che neppure ci consideravano.
Ora che conoscevo i pensieri che si nascondevano dietro le azioni e le parole dei miei interlocutori potevo finalmente giocare ad armi pari e così iniziai un sottile gioco diplomatico fatto di falsi sorrisi e rassicurazioni, da infide strette di mano avanti a saporite libagioni che portarono lo Stato Pontificio a concedere un diritto di accesso al nostro esercito con la promessa che in cambio saremmo andati ad assicurare che il Regno di Napoli non sarebbe caduto sotto la sfera aragonese.
Fu così che nel Maggio del 1434 Siena dichiarò guerra al Regno di Napoli, per soddisfare le pretese di Caterino Malipiero generale dell’esercito e nella speranza che questo placasse le tensioni interne. Fu deciso di non richiedere l’aiuto degli alleati cosa che innervosì non poco Firenze all’oscuro di tutto. Ebbi cura di rassicurare io stesso il Santo Padre spiegandoGli che mai avremmo voluto esporre il suo stato ad una prevedibile e vile aggressione veneziana e milanese che erano alleate a Napoli e contemporaneamente sbarrando la strada alle loro truppe che per via terra non avrebbero potuto attaccare Siena; da parte Sua ebbi la parola che mai avrebbe concesso ai nostri nemici di passare sulle proprie terre.
Mandai una ambasciata a Genova sollecitandola a pattugliare i mari al fine di scoraggiare una qualche prepotenza veneziana ma che non richiedevamo un diretto intervento nella campagna e in più con la promessa di destinare i mercati conquistati al loro centro commerciale.
Partirono 13.000 fanti e 3.000 cavalieri che giunsero a Napoli scoprendo che il regno era completamente sguarnito di difese. L’attacco a sorpresa aveva avuto successo!
In meno di nove mesi la città di Napoli cadde e alla conclusione dell’anno di guerra i fanti assediavano già le terre di Apulia. La repentinità non diede il tempo al re aragonese di organizzare una guerra, nel dicembre del 1436 le genti napoletani si arresero accettando una resa incondizionata.
Siena ottenne il possesso delle preziose risorse saline dell’Apulia 5 ducati e il vassallaggio del Re di Napoli.
Per la brillante operazione che in 7 anni avevo organizzato venni nominato conte e mi furono assegnate dei ricchi vigneti sulle colline senesi più un palazzo nel centro della città.
A discapito di questo successo ci alienammo le simpatie di molti stati europei ed in particolare degli aragonesi che lo subirono come un affronto personale. Pure Firenze raffreddò i rapporti con noi e solo un paziente lavoro diplomatico riportò serenità fra i due stati quando Siena per la seconda volta svendette la sorella Modena, non solo acconsentendo ad un nuovo attacco di Firenze ma promettendo anche il nostro intervento. Questa ultima concessione fu condizionata fortemente dal papato che voleva così suggellare il nostro allontanamento dalle posizioni ghibelline. Colsi l’occasione per suggerire al Signore di Siena l’opportunità di richiedere il permesso a Firenze di far passare il nostro esercito quale rassicurazione della nostra buona volontà nel contribuire alla sua causa contro Modena.
I prodotti delle nuove terre furono dirottati nel centro commerciale di Venezia, su mia disposizione per assicurare un tacito accordo di non belligeranza che avevamo stabilito al tempo in cui soggiornai ospite nella casa Cornero, indispettendo non poco la famiglia genovese dei Doria.
Per questo nostro mancato rispetto dei patti a nulla servirono le scuse ufficiali della casata senese e nel 1438 Genova decise di escluderci dai suoi mercati per spingerci a dirottare verso di lei i prodotti provenienti dal meridione.
Invitai le varie corporazioni mercantili attraverso generose concessioni sui dazi e le dogane a rispondere con un braccio di ferro a tale provocazione che culminò quasi alla rottura dei rapporti diplomatici.
Fortunatamente avevo tessuto una fitta ragnatela di relazioni con le realtà economiche pontefice e fiorentine oltre ad alcuni legami con la potente famiglia genovese degli Adorno che evitarono il peggio quando il mercato senese diede azione alle velate minacce fatte a Genova trasferendo i propri affari nel centro commerciale di Venezia che li accolse a braccia aperte. Molto del merito di questa ardita opera per onore del vero va dato a Marco Cornero che con buone agevolazioni rese il trasferimento redditizio ai senesi.
La perdita dei nostri guadagni rivelò tutta la debolezza di uno stato mercantile quale era Genova che si rese subito conto della ingente perdita che subiva dal suo embargo. Gli Adorno capeggiarono una formale protesta dei mercanti che costrinsero Dario Doria doge di Genova ad aprire il mercato a Siena.
Fu deciso allora di spartire i nostri commerci fra Genova e Venezia al fine di non far torto a nessuno ma contemporaneamente di insegnare che Siena non era più una trascurabile realtà economica locale, ma una prospera economia mossa da ambizione ed abilità.
Non tutti i pericoli potevano essere neutralizzati con la sottile arte della diplomazia e le spietate leggi del mercato, le frustrazioni delle mire espansionistiche degli aragonesi e le ferite dell’orgoglio dei napoletani paradossalmente si legarono dando vita a numerose rivolte nelle terre di Puglia e Calabria che costringevano Siena a mantenere una nutrita guarnigione a presiedere la provincia fino a quando, visti gli scarsi risultati delle ribellioni di piazza, Ferdinando d’Aragona si decise a muoverci guerra. Assistemmo quindi in spregio a tutte le tradizioni e formalità ossequiose del solenne giuramento di fedeltà che il vassallo presta allo stato protettore alla dichiarazione di guerra del Regno di Napoli.
Una guerra che in parte ci eravamo rassegnati e preparati a subire e che quindi non ci colse di sorpresa. Stavolta chiedemmo ai nostri alleati di onorare l’alleanza scoprendo che l’infida Firenze aveva cospirato con gli aragonesi, coi quali si era messa d’accordo già sulla spartizione delle terre senesi una volta sconfitti.
Lo Stato Pontificio non tollerò questo che non ebbe timore a definire tradimento, poiché aveva tutto l’interesse che Napoli rimanesse una realtà innocua ai piedi del suo regno, e tanto meno gradiva la scomoda ed oltremodo ingombrante presenza degli aragonesi al di là dei propri confini. Io stesso non ebbi remora a diffondere attraverso canali privilegiati alla nobiltà italiana l’imperdonabile e nefanda viltà dei de Medici e del Regno di Napoli che furono accolte dal biasimo generale. Genova, con la quale i rapporti erano tornati sereni, vide in questa guerra l’occasione per espandere i suoi commerci in occidente e magari di prendere possesso delle strategiche isole mediterranee d’Aragona. La sua potente flotta incrociò nel mar tirreno unitamente alla nostra impedendo lo sbarco dei militi iberici che persero numerose navi e uomini nel braccio di mare che va dalla Corsica alle coste toscane.

CONCLUSIONE SECONDA PARTE [SM=g27823]
Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:43
Visto il successo ottenuto ecco a voi la terza parte!


Le schiere pontificie, nutrite di 24000 fanti e 3500 cavalieri marciarono verso Firenze cingendola d’assedio, mentre Siena pose un presidio sulla terra calabra formato da 21000 fanti e 3000 cavalieri.
Navi castigliane e aragonesi ammiccavano all’orizzonte delle coste campane, silente minaccia alla nostra incolumità.
Rammento ancora il dubbio che paralizzava il nostro senno… Attaccare e porre l’assedio a Napoli o rimanere in attesa delle truppe aragonesi stanziate in Sicilia?…
Mi consultai più volte con gli uomini d’arme senesi e poi d’improvviso ebbi un’intuizione che mi fece astrarre dal problema militare dandomi un’immagine d’insieme del quadro generale.
Le terre Calabre, Lucane e Pugliesi erano tutto un fermento di ribellioni che logoravano di continuo i nostri soldati costretti a sedare scoppi di piazza in ogni dove, mentre la loro attenzione non poteva mai permettersi il lusso di perdere di vista lo stretto di Messina o le terre campane.
“Volgiamo queste ribellioni a nostro vantaggio!” Esclamai…
I villici e la gente del popolo in generale poco sapeva del perché e contro chi imbracciasse le armi, erano sobillati da pochi astuti individui che si muovevano nell’ombra delle taverne e delle osterie, ma una volta scesi in piazza questi attaccavano chiunque non fosse uno di loro. Mi sovvenivano racconti infantili su guerrieri nordici chiamati berseker che narravano fossero talmente furiosi quando combattevano che attaccavano chiunque gli si parasse innanzi, amico o nemico che fosse.
Fu così che consigliai di dirigere l’esercito verso Napoli lasciando che le ribellioni rallentassero e tanto meglio combattessero contro i soldati invasori.
Dopo un accorato incitamento da me perorato nella severa Sala del Consiglio ebbi l’approvazione del mio signore Simone Orlandi e dei nobili che vi facevano parte, fuorché Giano Serventi, che era il detentore delle licenze sulle cave saline meridionali.
Covavo in me poi un’altra convinzione che mi aveva risolto l’impiccio del dubbio e che confidai al mio signore una volta che ci fossimo disimpegnati dai convenevoli istituzionali.
Durante una garbata ed amena conversazione accompagnata da una buona coppa di vino raccontai con artefatta indifferenza che nel mio paese d’origine vivono alcune razze di serpi, bestie molto pericolose per gli stranieri ma non per gli abitanti delle campagne che imparano a conoscerli fin da piccoli. Sono rettili non tanto lunghi ma molto agili e veloci che tendono a morsicare l’uomo all’altezza del polpaccio repentinamente per poi allontanarsi in attesa che il veleno inoculato faccia il suo effetto. L’importante quando si è alla presenza di queste serpi è non perdere mai di vista la loro testa e colpirla l’attimo prima che si muova verso di te. Presa la testa il corpo può muoversi e stringere le spire quanto vuole ma l’animale è del tutto innocuo e spacciato! La difficoltà sta nel prendere il capo poiché è la parte più piccola del corpo.
Lo sguardo acuto ed il silenzio che si protrasse dopo le mie parole mi convinsero che aveva capito e a conferma di ciò vidi la sua bocca allargarsi in un cauto sorriso che mostrava i suoi denti gialli e storti.
“Una serpe di nome Ferrante, che una volta schiacciata e costretta alla resa farebbe cessare il movimento di tutte le spire iberiche…”
Accolsi le sue parole con enfatica ammirazione “Voi mi confondete tanto siete sagace, riuscite a cogliere le soluzioni di un enigma anche nelle sciocche parole di un nobile straniero che ha nostalgia della sua terra…”
“Un nobile ambizioso, che prova nostalgia solo per le vittorie che ancora vuole conseguire…” Rispose Orlandi invitandomi a finire la mia coppa di vino.
Il partito era oramai preso e la strategia decisa avremmo assediato Napoli fino alla capitolazione che avrebbe messo fine a questa pericolosa guerra.
L’assedio si dimostrò ancora una volta fin troppo semplice per i nostri genieri che nottetempo avevano scavato gallerie fin sotto le deboli mura della fortezza, come fin troppo semplice per i nostri emissari si dimostrò corrompere con pochi soldi e molte promesse le vedette poste di guardia alle mura; in soli sei mesi i nostri soldati entrarono nella città con minime perdite.
Nel frattempo alcune migliaia di uomini aragonesi attaccarono come previsto le coste calabre, ma trovarono ad accoglierli una moltitudine di braccianti e contadini resi furiosi da alcune opportune voci sobillatrici che avevamo infiltrato nelle taverne e nelle piazze con il compito di aizzare le folle contro un nemico affamatore e crudele pronto a rapinare la povera gente dei suoi pochi beni.
Quelle parole trovarono un terreno oltremodo fertile in animi già accesi da molti anni da altre voci misteriose e così fu che gli aragonese non riuscirono a porre un solo assedio senza essere continuamente attaccati nelle retrovie e nei rifornimenti.
Giungeva, intanto da Nord voce di una prematura caduta di Firenze sconfitta dal numero di soldati nemici, che solo in seguito seppi essere più di 50000 fra genovesi e soldati pontifici.
Firenze cadde una prima volta per mano del papa che impose una ammenda di 124 ducati al fine di espiare il tradimento ed in cambio della libertà con il solenne giuramento di non abbandonare più la causa del Santo Padre. Pochi mesi dopo cadde una seconda volta per mano dei genovesi che meno sensibili agli ideali si diedero al saccheggio delle ricchezze fiorentine.
Caduta Napoli e firmata la pace, Siena non poté far altro che spodestare Ferrante ed annettere il suo regno dopo il tradimento perseguito contro la generosa offerta di vassallaggio.
Aragona e Castiglia presero atto della loro sconfitta e si ritirarono loro malgrado dalle terre peninsulari dello stivale.
Rimaneva da saldare i conti con la signoria de Medici, ora che avevamo assicurato le nostre sponde dall’invasore nemico.
Era l’anno 1445 quando Firenze più volte sconfitta e depredata calò le sue ultime vestigia mostrando il segno di tutte le recenti violenze. I nostri soldati trovarono una popolazione affamata e rassegnata, una città dall’orgoglio ferito, dalla bellezza sfregiata dall’avidità e dalla vanità. Non aveva nulla da offrirci se non essa stessa. Così volle il mio signore che Firenze fosse nostra quale magra ricompensa del sangue dei nostri soldati, quale monito agli altri stati che si fossero macchiati dell’abominevole ignominia del tradimento!
Mi recai personalmente a Firenze assaporando tutta la struggente malinconia di quella signora caduta nella polvere delle proprie macerie. Vidi il possente leone Marzocco sfregiato in terra: la sua zampa non proteggeva più lo scudo gigliato che crepato giaceva alcuni metri da lui. Sussultò in un vero moto di gioia il mio animo nel vedere come la magnificente cupola del Brunelleschi di Santa Maria del Fiore fosse intatta in tutto il suo splendore. Lì riconobbi l’architetto ingegnere Filippo Brunelleschi, spossato, con la pelle sugli zigomi incavati con il corpo segnato dalle privazioni di ben tre assedi, assorto nell’esaminare gli eventuali danni alla chiesa. L’avevo conosciuto alla corte de Medici insieme al suo amico Donatello. Seppure anziano e malato, aveva conservato nello sguardo l’acume e l’intensità del matematico che avevo colto ventanni addietro. Non percepii rancore nel suo saluto, e non rifiutò la mia compagnia quando mi offrii di accompagnarlo per le vie di Firenze per valutare le opere che si sarebbero dovute intraprendere per ridare splendore alla città.
Durante la nostra ispezione, conversammo sulle macchine e congegni utilizzati durante l’assedio, scoprendo che il suo genio si era dedicato molto intensamente di architettura ed ingegneria militare. Sotto il portico dell’Ospedale degli innocenti mi accomiatai da lui e quella fu l’ultima volta che ebbi la gioia e l’onore di vederlo. Quando sette mesi dopo seppi della sua morte io ne fui dispiaciuto quanto i fiorentini.
Feci nominare Donato de’ Bardi sovrintendente dei lavori di ristrutturazione di Firenze su consiglio dello stesso Brunelleschi nonostante la diffidenza di alcuni nobili senesi.
Tre anni di incertezze e pericoli si erano conclusi ma altre e non meno pericolose prove aspettavano la nobile Siena ora che aveva rotto gli equilibri della penisola, ora che aveva lasciato il suo secondario ruolo per presentarsi come protagonista della politica Italiana.
Problemi di ordine interno si intrecciavano con difficili situazioni di politica estera che avrebbero abbisognato di tutto il genio del nostro signore, di tutto il lavoro del nostro popolo e di tutta l’arte commerciale dei nostri mercanti.
L’indomani l’annessione di Firenze il quadro sociale che si presentava era a dir poco scoraggiante: I reduci che tornavano dalla lunga campagna spesso trovavano ad accoglierli l’amara sorpresa della perdita del lavoro e delle parche rendite di cui vivevano vissuto prima d’indossare la corazza. Le potenti e superbe corporazioni mercantili erano furiose per la perdita dei loro introiti a causa dei blocchi navali, mentre i contadini ed i braccianti erano esausti delle privazioni e delle tasse che li avevano dissanguati. Malattie e carestie facevano il resto.
I due anni successivi videro continui scoppi di ribellioni flagellare le province attorno Siena, mentre il biasimo dei regni cristiani aveva circondato come uno spesso manto scuro le nostre relazioni diplomatiche.
Il Signore di Siena, Anselmo Orlandi, fece molte concessioni alle corporazioni mercantili, mettendo in atto un’intensa politica protezionistica, per proteggere l’ancora fragile economia interna; Assegnò a me il compito di ristabilire l’ordine pubblico, poiché godevo della fiducia dei generali senesi.
Feci approvare al Consiglio di Siena, diversi decreti che stabilivano un nuovo arruolamento dei reduci della guerra assegnando loro generosi salari affinché si occupassero di compiti di polizia interna. Ottenni così una diminuzione della disoccupazione e l’amicizia della potente e pericolosa fazione militare dello Stato, insieme ad un più capillare e intenso controllo dell’ordine pubblico.
Nel 1447 il mio signore, accortosi del potere che tenevo nelle mie mani, forse per timore, forse per stima, probabilmente per entrambi mi diede in sposa una sua cugina: Matilde Forniti, una giovane donna di ventanni più giovane di me, dal volto sottile e lievemente spigoloso, un sorriso timido e dallo sguardo luminoso e discreto. Fummo presentati durante una festa di palazzo, e seppur il mio cuore capriccioso fosse distratto da altre dame per ragion di stato acconsentii con dolce rassegnazione a questa compagnia.
Nel 1449 le tensioni sociali si erano di molto affievolite, e l’economia aveva ripreso slancio con grande gioia ed entusiasmo delle corporazioni mercantili. La mia presenza ora era richiesta in delicate questioni di politica estera, ragione per cui iniziai una serie di viaggi che mi tennero fuori Siena, salvo brevi periodi, per quasi quattro anni.
Ahimè, non fui capace di riscuotere all’estero i medesimi successi che avevo ottenuto nella politica sociale interna, in particolare i rapporti con lo Stato Pontificio apparvero fin da subito terribilmente compromessi, a causa della potenza e ricchezza di Siena. Non nascose il Pontefice tutto il disagio che provava ad aver i suoi confini meridionali e settentrionali con il nostro stato che manteneva pur sempre un’indole ghibellina. Di tutti i regni europei solo i genovesi, che grazie alla guerra avevano visto una forte espansione dei loro commerci e la signoria modenese che non essendo più condizionata dalla forte pressione fiorentina aveva tratto beneficio dalla nostra guerra confermarono ed anzi migliorarono i loro rapporti con noi.
Fui artefice e patrocinatore del matrimonio reale che si celebrò fra la casata degli Orlandi e quella dei Franoso nel 1451.
Nel 1453 venni nominato Marchese dal mio signore, con l’acquisizione di ulteriori terre sulle colline senesi al confine con Firenze e ottenendo la proprietà di alcune tintorie della città. Purtroppo tale riconoscimento fu offuscato dalla morte del mio primo figlio di solo 6 mesi.
Nel 1455 dopo la perdita del mio secondo figlio una bambina nata praticamente morta, la misericordia del Signore volle ascoltare le mie preghiere concedendomi il dono di un maschio che fin dal suo primo giorno diede segno di particolare vigoria e salute.
Nel frattempo le notizie provenienti dall’estero facevano baluginare tetre nubi rischiarate solo dalla spettrale luce dei lampi, Appariva oltremodo palese che una forte alleanza fra veneziani, milanesi, castigliani ed aragonese fosse pronta a dichiararci guerra.

FINE TERZA PARTE [SM=g27823]

[Modificato da Xelaehtgre 30/06/2004 18.44]

Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:45
Ai miei gentili lettori...

Prima di quanto preannunciato, rubando tempo ed energie al mio lavoro consegno ai voi la quarta parte dell'AAR. [SM=g27828]

Il 18 febbraio 1467 l’alleanza capeggiata dagli aragonesi ci dichiarò guerra senza coglierci di sorpresa. Avevamo avuto molte avvisaglie nei mesi precedenti che ci avevano saggiamente indotto a prepararci ad un conflitto. La cittadinanza era già pronta, le guarnigioni al loro posto e le città con i magazzini pieni.
Lo stesso giorno in cui ci giunse formale dichiarazione di guerra il mio signore diede ordine di far partire i dispacci ai nostri alleati chiedendo loro di intervenire in nostro aiuto.
La nostra alleanza era fragile, poiché i rapporti fra noi e lo Stato pontificio non erano stati sanati e perdurava la loro diffidenza verso i nostri confronti a causa della nostra espansione e della nostra politica ghibellina.
Il corriere con le notizie da Genova fece ritorno il 24 febbraio comunicandoci l’entrata in guerra di Genova al nostro fianco, come tutti ci aspettavamo, mentre il corriere con le notizie da Roma, giunse il giorno dopo mentre eravamo tutti nella cattedrale di Siena per la benedizione dei nostri nobili cavalieri che partivano per la guerra. Il messaggio mi fu consegnato ancora sigillato e quando lo lessi non potei trattenere una smorfia stizzita di disappunto. Lo Stato Pontificio in spregio al giuramento fatto aveva disonorato l’alleanza con noi!
Senza l’aiuto delle truppe del papa, la situazione per noi non era rosea; attaccati da Venezia, Aragona, Scozia e Castiglia avevamo tutti i confini da presidiare.
I gonzaga confermarono il loro sostegno dandoci un po’ di respiro lungo i confini veneziani.
Il nostro esercito più addestrato ed esperto fu subito messo a difesa di Siena, paventando uno sbarco dal Tirreno.
Avevamo, infatti, ben poca speranza di fermare le potenze navali nemiche con le nostre 10 galere.
Potevamo solo contare e sperare sulla flotta genovese. Coordinammo i nostri sforzi, lasciando il mar ligure e l’alto tirreno sotto il controllo genovese, mentre la zona centrale che lambiva le coste laziali sotto il nostro controllo.
Attendendoci il prossimo sbarco delle truppe aragonesi in Calabria, il re decretò l’arruolamento di 8000 fanti nelle terre napoletane.
Il primo scontro si ebbe in mare fra una esigua flotta aragonese contro le navi genovesi che le respinsero senza alcuna fatica. Alla fine di Marzo avemmo notizia di una colonna di 12.000 uomini d’Aragona in marcia verso la provincia dell’Apulia.
Aprile giunse foriero di sciagure, di tradimenti e viltà! Il 17 del mese Lo Stato Pontificio in odio all’onore osò dichiararci guerra!
Mai tanta vergogna aveva infangato quelle terre! La notizia colse tutti di sorpresa invadendo i cuori dei senesi di sconcerto come un’onda improvvisa proveniente da una mare torbido e minaccioso. La popolazione fu colta dal panico, aiutata dagli anatemi che i preti lanciavano sulla nostra signoria per essere caduta in disgrazia al successore di Pietro.
Per quanto, io stesso mi fossi prodigato nel celare le notizie che ci giungevano dalle nostre spie poste lungo i confini, in brevissimo tempo serpeggiò nella capitale la notizia, ahimè vera, che un potente esercito composto da 27.000 fanti e 5.000 cavalieri marciava verso le nostre terre.
L’entrata in guerra del papato contro di noi rendeva la nostra situazione drammatica. Fu riunito il Gran Consiglio dei Cavalieri, e si decise di muovere le nostre truppe nelle Marche onde evitare lo scontro con il più potente esercito pontificio. Siena si preparava all’assedio!
Non posso descrivervi il tormento d’animo di quei giorni senza provare ancora fortissime emozioni riecheggiare nel mio animo. Sollecitai la mia amorevole moglie ad abbandonare la città insieme ai miei adorati figli alla volta della più sicura Firenze. Straziante fu l’ultimo saluto che in cuor nostro sapevamo poter essere un addio. Mi raccomandai fino allo sfinimento al comandante della scorta affinché mi giurasse la difesa dei miei famigliari, sino al sacrificio della vita stessa.
Con cuore gonfio di disperazione mi giunse l’ordine regio di abbandonare io stesso la città al seguito dell’esercito verso la città di Ancona. Il re si preparava a subir l’assedio nella sua città quale esempio di abnegazione, fedeltà e sprone al suo popolo.
I primi di maggio insieme a 18.000 fanti e 3.500 cavalieri cingemmo d’assedio la città di Ancona. Nel frattempo fu dato ordine alla guarnigione stanziata a Napoli di rimanere a difesa della città sino alla morte. Le truppe aragonesi avevano già assediato diverse città del meridione.
Venezia aveva sconfitto l’esercito mantovano ed ora i gonzaga erano sotto assedio della serenissima.
I mari pattugliati dalle nostre navi continuavano a rintuzzare i tentativi di sbarco aragonesi e castigliani.
Sul finire di Maggio le tiranniche truppe pontificie posero l’assedio a Siena che stoicamente e fieramente si strinse come un pugno nel proprio orgoglio pronta ad essere immolata sull’ara del martirio pur di conservare la propria virtù.
Il fato avverso però non aveva ancora affondato la sua lama nelle nostre carni fino all’elsa, ancora un tradimento, ancora sorrisi che nascondevano veleno, ancora mani strette che nascondevano coltelli, ancora abbracci che pugnalavano le spalle. A Giugno giunse quanto mai inaspettata la notizia che la nostra sorella Modena aveva dichiarato guerra contro di noi!
Pure ella era scesa nell’arena per spartire il nostro cadavere, come mosche sulle carogne pur di mangiarne i resti.
Era evidente, tutti i regni d’Europa ci davano per spacciati. Solo con il massimo degli sforzi miei e dei comandanti riuscimmo a non far crollare il morale delle nostre truppe che si accingevano allo scontro con un secondo esercito Pontificio che fra pochi giorni ci avrebbe raggiunto ad Ancona.
Siena assediata, io con le truppe guidate dal comandante Malatesta nelle marche, e gli altri scappati all’assedio in un periglioso viaggio verso Napoli non potevamo sapere se non da i nostri corrispondenti fiorentini che cosa stesse accadendo dietro i confini emiliani. Tentai di dare ordine ai regi servitori di arruolare tutti gli uomini possibile per tentare una disperata difesa nel caso di un attacco modenese; ma non ero in grado di sapere se tale messaggio codificato fosse giunto a destinazione.
L’8 giugno i nostri esploratori ci comunicarono l’avvistamento dei soldati pontifici e intorno a mezzogiorno iniziò l’attacco.
Vidi combattere i senesi con asprezza e strenuamente senza risparmio contro gli invisi nemici che forse non si aspettavano tanta foga e di certo erano meno addestrati dei nostri. Dopo due giorni il nostro esercito ebbe la meglio infliggendo pesanti perdite al nemico e subendone solo di marginali; l’assedio proseguiva mentre i feriti più gravi venivano affidati al cerusico e gli altri rifocillati e bendati.
Giungevano periodiche notizie da Siena, informandoci che la città resisteva fieramente agli assalitori. Nulla invece perveniva da Napoli e raramente da Firenze.
Nel settembre dopo una calda estate espugnammo Ancona, e quasi contemporaneamente venimmo a sapere che a Roma vi era stato un secondo scontro fra senesi e pontifici che si era risolto con una nostra vittoria. Solo dopo venni a sapere che il comandante Beventini, stanziato a Napoli, saputo della ritirata dei soldati del papa aveva deciso di sua iniziativa di preparare un agguato sulle colline laziali. Beventini dopo la vittoria pose un esiguo assedio alla città di Roma, forse nella speranza di allentare la morsa su Siena. Consigliai a Malatesta, invece, di dirigerci a Bologna e porla d’assedio nel tentativo di paralizzare le forze del papa.
Nel frattempo gli aragonesi non erano ancora riusciti ad aver ragione dell’Apulia, mentre ci era giunta notizia della caduta di Mantova e dell’avvenuta annessione di questa allo stato della Serenissima.
Ad ottobre ponemmo l’assedio a Bologna, e qui mi attivai subito nella corruzione delle sentinelle posta a guardia delle porte.
A Febbraio dell’anno successivo venne da me il comandante Astorre (o Xela! [SM=g27820] [SM=g27828] ) a capo di un esercito mercenario composto da 7.000 fanti e 1.500 cavalieri mostrandomi un contratto di lavoro firmato dal principe Filippo Orlandi cugino del re signore del feudo fiorentino. Astorre, mercenario fiammingo da sempre ostile allo Stato Pontificio, si presentò spontaneamente per unirsi alla causa senese. Egli ci portò anche notizie dall’Emilia narrandoci della caduta di Modena per opera dei genovesi che le avevano risparmiato l’annessione in cambio di un fortissimo tributo e del diritto di accesso militare attraverso le sue terre.
In quei foschi e rigidi giorni mi intrattenni volentieri con il mercenario, in discussioni di carattere militare e sulle guerre che in quell’epoca affiggevano l’Europa. Venni così a sapere che il Duca di Modena convinto in una nostra totale assenza di difesa aveva osato dichiararci guerra possedendo solo un esiguo esercito di fanti inferiore ai 6.000 uomini!
Soltanto dopo venni a sapere che il Duca era stato appositamente male informato da uomini francesi che mal vedevano l’espansione senese e genovese su cui il loro regno aveva delle precise mire espansionistiche.
Bologna grazie all’infedeltà di alcuni e alla rassegnazione di tutti, aprì le porte alle nostre truppe che a alla fine di febbraio avevano già ammainato la bandiera pontificia per far sventolare la balzana senese. Qui resistemmo contro un timido attacco dell’avanguardia veneziana respingendola brillantemente. Svernammo nel capoluogo romagnolo prima di riprendere la marcia verso Siena.
A metà marzo marciammo alla volta di Siena, dopo che con una serie di dispacci ci eravamo accordati con il comandante Beventini perché cogliesse l’esercito nemico da Sud.
Intanto le nostre galee che incrociavano al largo della costa laziale erano state sconfitte dopo una eroica ed estenuante battaglia durata più di un mese dalla potente flotta veneziana corsa in aiuto degli aragonesi. Rimanevano solo i genovesi a difesa dei nostri porti.
In aprile si consumò la più aspra e dura delle battaglie campali della guerra, che vide fronteggiarsi quasi 70.000 uomini alle porte di Siena. La battaglia proseguì per più di un mese interrompendosi al crepuscolo e ricominciando immancabilmente alle prime luci dell’alba. Il nostro esercito lotto con sprezzo del pericolo e spinto dalla rabbiosa sete di vendetta alla fine scacciò gli odiati invasori gettandosi al loro inseguimento senza dare tregua. I combattimenti proseguirono con scontri di retroguardia fino nel Lazio dove alle porte di Roma ricominciarono furenti e spietati. L’esercito papale allo stremo delle forze alla fine subì un’umiliante sconfitta che lo costrinse ad una vera e propria rotta! Ponemmo l’assedio al cuore della cristianità.
Occulti sobillatori del popolo, intanto avevano magistralmente aizzato il popolo contro l’invasore iberico costringendolo alla ritirata dopo un logorante quanto inutile assedio nelle terre di Apulia.
I genovesi intanto avevano perso lo scontro navale con i veneziani, ma avevano comunque impedito lo sbarco delle forze aragonesi e castigliane, mentre le truppe di terra della croce di S. Giorgio si scontravano in continue scaramucce contro i serenissimi nelle terre della romagna e del mantovano.
Nell’agosto, la città di Roma allo stremo delle forze, inviò un’ambasciata per trattare la pace. Cedettero le terre delle marche e della Romagna in cambio dell’indipendenza. Il gran Consiglio dei Cavalieri decise di accettare il trattato, per evitare il biasimo ed il disprezzo di tutti i regni cristiani del mondo.
Venne quindi diviso il numeroso esercito senese, le cui fila, negli ultimi mesi, si erano ingrossate di volontari provenienti da tutta Italia.
Una parte composta da 12.000 fanti e 6.000 cavalieri marciò verso l’Apulia sotto la guida di Beventini con lo scopo di riportare l’ordine nelle continue sommosse partenopee e calabre e rassicurare i confini contro le truppe aragonesi. La seconda parte dell’esercito composta da 15.000 fanti marciò verso Modena sotto il comando di Malatesta.
Mi unii agli uomini di Malatesta accompagnandoli fino a Firenze ove speravo di incontrare i miei congiunti colà rifugiatisi.
Giungemmo in vista di Firenze la seconda settimana di ottobre, quando l’incendio di colori autunnali dipingeva tutti i dolci poggi toscani, scoprendo con terrore e sgomento che la città e le campagne erano preda di un’insurrezione guelfa. Fummo attaccati prima nelle campagne e poi vicino alla città da alcune centinaia di predoni e briganti di cui l’esercito si sbarazzo velocemente. Entrammo a Firenze il sedicesimo giorno di Ottobre trovando una città in balia di bande rivali. Servì più di una settimana per riportare un’ombra di ordine nella città.
Furono giorni vissuti da me con estrema ansia e terrore, cercando invano notizie di mia moglie e dei miei tre figli. Quando ai primi di novembre l’esercito di Malatesta partì alla volta di Modena io ero preda del più completo sconforto.
Trovai rifugio in un monastero di francescani fuori città che trovandomi inzuppato di pioggia dopo alcuni giorni trascorsi all’addiaccio e senza mangiare ebbero compassione e mi convinsero ad accettare la loro misericordiosa ospitalità.
Rimasi molti giorni febbricitante prigioniero del delirio in cui più volte vissi la morte di mia moglie e dei miei figli in più modi crudeli e spietati. All’alba del 24 novembre il mio corpo fu finalmente liberato dal male che ora albergava solamente e ancora nel mio spirito.
Non riuscivo più a vedere uno scopo nella mia vita, mi sentivo d’improvviso solo ed inutile, inutili tutto il mio soffrire fino a questa ormai tarda età di 69 anni, inutili le mie ambizioni così tenacemente rincorse in tutti quegl’anni, inutili queste guerre, inutili le mie ricchezze, inutile la mia esistenza stessa. Accolsi con un sorriso glaciale la notizia giuntami al monastero i primi di febbraio, che mi informava dell’assedio posto a Messina dopo l’ennesima vittoria contro l’esercito aragonese.
I primi di marzo giunse una scorta al monastero francescano con l’ordine di accompagnarmi a Siena per il volere dello stesso Re Orlandi. Mi sottomisi con indifferenza.
Il mio arrivo alla capitale precedette di soli quattro giorni la notizia della caduta di Modena e mi ritrovai nuovamente nella sala del Gran Consiglio dei Cavalieri quando il re decise l’annessione della città emiliana.
Quando oramai stavo disperando, giunse da me un ragazzino portando un biglietto proveniente dal convento di Santa Chiara sito fuori Firenze, annunciandomi che ivi c’era una donna che diceva di essere mia moglie.
Il mio corpo fu scosso da un terremoto che aveva il suo epicentro nelle pieghe più remote del mio animo, diedi ordine alla mia scorta di prepararsi e subito partimmo per il convento che non distava molto da Firenze.
Il 29 Aprile giungemmo al crepuscolo in questo convento, che aveva gli ingressi chiusi a causa dei briganti che spaventavano i viaggiatori e depredavano i mercanti per tutti i colli toscani. Qui incontrai dopo molti mesi gli occhi scuri della mia diletta e m’innamorai di lei per la prima volta. Scoppiai a ridere ed insieme a piangere tanto era il tumulto delle emozioni che il mio corpo per l’impeto non riusciva a trattenere. E poi sentii, la pelle morbida dei miei figli accarezzarmi il volto, non riuscivo a stringerli tutti e desiderai immergermi e smarrirmi in quelle effusioni fino a scomparire.
Mai tanta gioia era stata provata dal mio cuore, e ringraziai il Padre eterno che ancora aveva voluto guardare con occhi benigni alla mia vita che era valsa viverla se non altro per quell’istante. Il figlio più grande Niccolo che aveva da poco compiuto 14 anni mi strinse aiutando il mio stanco e debole corpo a rialzarsi, e capii in quel momento mentre i miei occhi appannati fissarono i suoi giovani e limpidi, mentre il mio peso era sorretto dalle sue braccia forti e muscolose che nulla della mia vita era stata inutile, nulla delle mie sofferenze era stata vana, ma tutto, ogni momento della mia vita aveva avuto uno scopo, uno scopo che andava oltre ogni mia immaginabile ambizione, oltre ogni mio desiderio, e che ora riconoscevo lì davanti a me. Tutta la mia ricchezza, tutto il mio potere, tutto l’onore del mio cognome erano nulla paragonato alla bellezza di quel volto, con i suoi occhi verdi e grandi, i suoi larghi zigomi, i capelli castani e dritti che disordinati ricadevano sulla sua ampia fronte, la perfezione delle sue proporzioni, la flessuosità dei suoi muscoli freschi e giovani mi fecero sovvenir alla mente il Davide che il mio amico Donatello aveva dedicato al duca di Firenze, Filippo Orlandi, alcuni anni prima. Riconobbi la mia vita solo dopo che l’avevo persa.
Tre giorni dopo partimmo per tornare a Siena e solo lì mi ricordai che il nostro regno aveva ancora in corso una guerra.
Verso la fine di giugno cadde la città di Messina, mentre le flotte veneziane continuavano a seminare morte nel Tirreno, ma la guerra oramai volgeva al termine, Siena ne stava uscendo vittoriosa. Mai avrei creduto di poter condividere così intensamente fino a divenir la medesima cosa, il dramma di Siena che si vide perduta e si ritrovò potenza, così come me che mi vidi inutile e mi ritrovai appagato dal piacere più intenso.
A Luglio lo stato d’Austria dichiarò guerra a Venezia, causando lo scioglimento dell’alleanza con Castiglia ed Aragona ormai esauste e logore. Tre mesi dopo Venezia firmò la pace con Siena impegnandosi a pagare un tributo di 47 ducati in risarcimento ai danni di guerra.
A marzo dell’anno successivo Aragona decise di trattare la pace pagando un oneroso tributo di 180 ducati come risarcimento ai danni di guerra e riscatto dei prigionieri.
Dopo oltre tre anni il regno di Siena, ancora più esteso ed ancora più ricco, aveva ritrovato la pace.
Quella che Siena aveva superato, era forse stata la prova più difficile della sua esistenza, un esistenza fastidiosa ed inopportuna per molti, troppi stati d’Europa. Avevano provato a punirci per la nostra insolenza, volevano umiliarci per la nostra superbia e derubarci della nostra ricchezza. Ma non bastarono inganni, tradimenti e cospirazioni per piegare il ferreo voler dell’augusto re senese, che impavido duce condusse le sue schiere alla sua degna sposa: Vittoria!

FINE QUARTO EPISODIO [SM=g27823]
Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:48
Carissimi lettori ecco a voi la tanto attesa continuazione...

QUINTO EPISODIO (la saga di Niccolò) [SM=g27823]

Oggi 24 aprile 1476, una mano indegna si accinge a vergare, profanando la sacralità di questo diario, la continuazione delle commentarii historiae senensi. Non per superbia, né per arroganza, bensì per onorare devotamente un giuramento fatto ad un morente, continuo per volontà dell’autore stesso questa sua opera incompiuta, e che tale rimarrà dopo la mia dipartita.
Sono trascorsi già sei mesi, da quando il mio adorato padre è stato chiamato ad impreziosire coi suoi talenti e servigi la casa del più grande dei re, il Signore dei cieli. Dopo una breve sofferenza consumatasi fra gli amorosi sensi dei suoi congiunti, egli in punto di morte mi affidò come sua ultima volontà la chiave del cassetto che conservava e conserva questo scritto. Ed oggi, io Niccolò Trazbanj, Marchese del Colle , Consigliere del Gran Consiglio dei Cavalieri, Cancelliere regis iustitae legisque del regno di Siena, figlio del padre del regno, Vassilij Trazbanj, la cui marmorea immagine troneggia ad imperitura memoria sulla piazza che si apre innanzi al palazzo in cui visse e ove vivo continuo dove egli fu costretto ad interrompersi.
Chiedo umilmente venia a voi tutti ignoti lettori a cui affidiamo il messaggio della storia se mai sarò in grado di eguagliare l’altezza del padre mio nello descrivere fedelmente e chiaramente gli avvenimenti che vi andrò narrando ma abuserò della vostra pazienza ed intelligenza per compiere il compito che mi è stato affidato.

Venni nominato erede del casato Trazbanj pochi mesi prima della dipartita di mio padre, subentrando alle sue cariche e pronto a guadagnarmi la fiducia e stima del Signore di Siena Giacomo Orlandi. Fui incaricato della codificazone dei regi decreti e leggi del Regno di Siena al fine di porre ordine al caos e di restituire certezza e statualità al diritto. Fu convenuto con i nobili consiglieri la decisione di uniformare le leggi del regno pur mantenendo la diversità degli usi e consuetudini delle province al fine di ottenere un maggior accentramento del potere.
Vennero stanziati fondi dalla reale tesoreria per fortificare le città di confine e migliorare le infrastrutture per agevolare gli scambi ed i commerci.
Diplomatici furono inviati nelle più importanti corti d’Europa per rassicurarle sulla volontà di pace del nostro Stato.
Nominai Alvise di Montepilastrone, notaio patavino, amministratore delle proprietà della mia casata, (Sarai contento El_Vise di tutto il Brunello che ti puoi scolare!!! [SM=g27827] ) e posi sotto contratto il comandante Astorre quale mio esercito privato (Temevi ti avessi dimenticato?! [SM=g27820] [SM=g27828] ). Patrocinai la nomina di Maurizio Serramonti quale duca di Napoli (Te lo dovevo Xerse in qualità di mio primo lettore [SM=g27824] ).
Fu necessario avviare tutta una serie di riforme che modificassero il sistema ormai obsoleto e non più in grado di amministrare efficientemente la vastità delle terre senesi.
Nel mentre di questo immane sforzo, forse credendo in una nostra vulnerabilità i tirannici stati di Francia, Inghilterra ed Aragona nel 1479 osarono dichiararci guerra.
A loro, si unirono solo sei mesi più tardi i lontani e oscuri stati di Holstein, Mecklenburg e Danimarca.
I primi per mire espansionistiche sulle nostre terre, i secondi per mire espansionistiche sui nostri commerci.
Eravamo ancora vittime di invidie e gelosie. Pareva proprio che Siena non potesse godere dei dolci frutti della pace e dell’armonia.
I nostri unici alleati erano i genovesi che non fecero mancare la loro amicizia neppure in questa occasione.
Orde franche calarono sulla città ligure, mentre flotte sassoni infestarono i nostri mari.
Radunammo gli eserciti, del nord e li ponemmo a difesa dell’Emilia, mentre quelli del Sud a presidio dell’Apulia. Le nostre flotte ormai in collaudata sinergia a quelle della croce di S.Giorgio iniziarono ad incrociare per tutto il Tirreno sino alle coste corsiche e sarde.
Nonostante l’eroica resistenza dei militi genovesi le milizie franche posero l’assedio a Genova, mentre le flotte iberiche congiunte alle nordiche sfondarono le nostre difese sbarcando i loro barbari guerrieri nella terra d’Emilia e di Toscana.
Il nostro esercito fu vinto nei pressi di Firenze e costretto a ritirarsi a Siena. Furono richiamate alcune guarnigioni dal meridione a difesa delle province settentrionali.
Soldati di Mecklenburg posero l’assedio a Modena, mentre i nostri uomini grazie ai rinforzi provenienti dal Sud nel luglio del 1480 riuscirono a scacciare le truppe inglesi dalla toscana.
Per mesi inseguirono le truppe di oltremanica per tutta la Romagna annientandole definitivamente nelle marche sul finire dell’anno.
Modena pareva perduta, così come Genova che ora subiva l’attacco francese anche in Corsica.
Fu riunito d’urgenza il Gran Consiglio dei Cavalieri in adunanza straordinaria per decretare l’instaurazione di uno stato indipendente e vassallo in Emilia, al fine di non perdere completamente tali terre. Questo, però, servì soltanto a rallentare la caduta di Modena, poiché i nefandi nordici dichiararono guerra immediatamente al nuovo stato.
Ancora una volta Siena si trovava a lottare per la propria sopravvivenza!
Truppe arogonesi intanto tentavano di sfondare le nostre linee meridionali, riuscendovi dopo alcuni sanguinosi e cruenti scontri nel Giugno del 1481. Genova chiese la resa il luglio del medesimo anno perdendo il controllo delle sue terre d’oriente.
Questo permise l’armistizio con le truppe franche ed iberiche.
Il nostro esercito riuscì a vincere un’altra battaglia nei pressi di Firenze, mentre la città di Modena veniva annessa a Mecklenburg. Nel novembre del 1481 firmammo la pace con i paesi nordici.
L’assalto violento, barbaro e crudele ci aveva colto di sorpresa quando le nostre terre di confine ancora non erano state domate, ragione per cui rischiavamo una guerra civile se non avessimo posto subito fine a questa quanto mai odiosa pugna.
Il marzo del 1482 mi recai in delegazione ufficiale a Genova, con la generosa offerta di un prestito da parte del banco senese di 230 ducati per agevolare la ricostruzione delle mura della città ligure.
Rimasi nella repubblica genovese oltre tre mesi necessari per discutere e trattare tutte le argomentazioni che legavano i nostri stati.
Fu un soggiorno piacevolissimo, per la cordialità e l’ospitalità che ricevetti, fui invitato a banchetti, feste e cerimonie presso le maggiori famiglie mercantili della repubblica, ed il doge Anselmo Adorno mi trattenne più volte in sua compagnia con interessanti ed istruttive conversazioni.
Venne confermata l’alleanza fra i nostri stati, anche se rifiutarono la nostra generosa offerta di prestito, in più ci accordammo affinché ci scambiassimo le mappe terrestri e le rotte marine conosciute al fine di una più intensa collaborazione militare in caso di guerra. Nonostante la disponibilità del doge a stipulare una serie di accordi e contratti che mirassero al libero scambio delle merci e del denaro, e affievolisse la concorrenza fra i nostri mercanti si dovette rassegnare davanti all’opposizione di alcune potenti famiglie mercantili genovesi che non intendevano sacrificare i propri interessi per la ragion di stato. Onde evitare spiacevoli contrasti sociali e politici nella repubblica ligure, non insistetti ulteriormente.
Nel tempo libero, lasciatomi dagli impegni politici, lo impegnai in una intensa vita mondana, che mi portò a conoscere numerose persone della vivace società genovese. Durante un salotto a casa del doge, ebbi la fortuna ed il piacere di conoscere une delle sue figlie, la giovanissima ed affascinante Violante.
I suoi capelli color miele, raccolti in trecce ricadevano morbidamente sulle sue spalle, mentre una leggera frangia faceva d’aurea cornice ai cristallini occhi turchesi, vivaci e luminosi I lineamenti sfumati, quasi appena accennati e la sua pelle candida le davano un'aria eterea ed evanescente. Il suo corpo sottile e ancora acerbo, lasciava solo immaginare i frutti che generosamente avrebbe offerto nella maturità. Ma ancor di più di tutta questa angelicata bellezza mi sedusse la sua risata, dolce ed argentina, che le illuminava il volto improvvisamente come i raggi del sole che fendono le nubi per qualche attimo rischiarando il giorno per poi nascondersi nuovamente.
Durante quel pomeriggio mi intrattenei con lei nei modi e nei tempi consentiti dagli usi e che si convenivano al nostro status sociale. Solo quando lei insieme alle altre donne si accomiatarono, sfiorai la sua piccola e gentile mano con le mie labbra, prima di regalarle un fugace sorriso accompagnato da un breve e comunicativo sguardo. Sentii la sua mano fremere nella mia, e la sua espressione nascondersi ancora dietro quel suo sorriso, stavolta sommesso e timido, ma ancora più intrigante.
Grazie all’aiuto di qualche servitore di palazzo, ricevetti, due giorni dopo il nostro incontro un suo biglietto, in cui mi chiedeva di recarmi vicino alle fontane del giardino per una certa ora.
Quando comparvi all’appuntamento lei era in compagnia della sua balia e del suo precettore, il quale interruppe subito il suo parlare nel vedermi e salutandomi molto cerimoniosamente invitò Violante a fare lo stesso. Ella enfatizzo, apposta il saluto, lasciandosi sfuggire una risata limpida ed intensa mentre le sue gote arrossivano per l’emozione. Temetti che anche le mie facessero altrettanto, mentre solo con un estremo sforzo di volontà riuscii finalmente a distogliere i miei occhi dai suoi. Il precettore se si accorse di qualcosa, fece comunque finta di nulla iniziando una garbata ed erudita conversazione in latino. Rimasi a parlare con lui con finto interesse nel rispetto dei doveri di cortesia ed educazione, ma non appena mi si offrì l’occasione non mancai di coinvolgere anche Violante nel nostro discorso rendendolo per me molto più emozionante.
Ella dopo, con la scusa di mostrarmi alcune piante importate dall’oriente, mi accompagnò in un punto del parco in cui ci ritrovammo soli. Le presi entrambe, le mani, avvicinando il mio volto al suo, la sentii fremere ed io respirai profondamente il suo profumo. Lei sorrise, io sorrisi, poi ci baciammo.
Ci incontrammo più volte nell’arco del mio soggiorno e alcune di queste ci ritrovammo ancora soli, mentre gli occhi esperti della madre non incontrarono difficoltà a vedere ciò che si nascondeva dietro ai nostri sguardi, né le sue orecchie erano così ingenue da non intuire le parole che si celavano dietro i nostri sorrisi.
Fu così che quando stava ormai giungendo il tempo del mio ritorno, il padre, Anselmo Adorno, fece scivolare in una conversazione superficiale e formale, la proposta di un matrimonio fra le nobiltà dei nostri stati quale migliore chiosa ai nostri ottimi rapporti diplomatici.
La proposta mi colse di sorpresa trovandomi del tutto impreparato, non ebbi il tempo di dissimulare l’emozione che sentivo avvampare nel mio corpo e colorarmi il viso. Finsi dei colpi di tosse, ma lo sguardo sorridente che imprigionò i miei occhi quando li rialzai mi fecero capire tutta la sua consapevolezza. Ricomposi l’apparenza del mio stato d’animo, ringraziando dell’offerta e assicurando che sarebbe stata presa seriamente in considerazione una volta informato il mio signore. Ufficialmente non si sapeva chi fossero i rampolli da unire in matrimonio, e quindi quella non era né più né meno che una proposta, l’ennesima, contrattuale fra i due stati.
Appena mi congedai ritrovandomi solo, sfogai tutto il tumulto che avevo dentro, mi sentivo fuoco, mi sentivo scosso da un fortunale, mi sentivo procella, ma soprattutto mi sentivo felice come mai lo ero stato.
Giunsi a Siena il 4 Giugno di quello stesso anno, portando con me la certezza di una salda, completa e duratura alleanza con quelli che ormai si definivano i fratelli genovesi, ma soprattutto portavo con me la gioia dell’amore.
Capii, subito, quando giunsi a palazzo, che qualcosa era cambiato, trovai volti tesi a darmi un freddo benvenuto, mentre il signore fece dire di essere occupato in altri impegni e che pertanto non poteva ricevermi.
Durante la mia assenza era accaduto qualcosa di cui io ero all’oscuro. Attraverso, le notizie datami da alcune persone a me vicine, alcuni giorni dopo compresi quanto era successo.
Approfittando della mia assenza, della sciagurata guerra che ci aveva fatto perdere l’Emilia alcune famiglie aristocratiche, che mal avevano visto le mie riforme accentratrici del potere, iniziarono a denigrare le mie qualità, a criticare le mie opere mettendomi in cattiva luce davanti gli occhi del re. Questi essendo poco più vecchio di me, quindi lontano dall’amicizia e dalla stima che erano corse fra mio padre ed il suo, ed influenzato dalle malelingue di alcuni consiglieri tutti i mesi della mia assenza, aveva preso a diffidare di me e del mio casato.
Mi veniva, soprattutto imputata la sconfitta dell’ultima guerra, calunniando che la mia famiglia, e quindi io come rappresentante, avevamo anteposto i nostri interessi a quello dello stato e che ora avevamo una compagnia mercenaria al soldo per tutelare i nostri possedimenti anche contro Siena se questa li avesse pretesi. Si era giunti a dire, che anche il mio viaggio a Genova non fosse figlio di esclusivi doveri statali, ma che dietro l’apparenza delle ragion di stato si nascondessero contratti commerciali sottobanco fra alcune famiglie genovesi e la mia e rassicurazioni di un’eventuale difesa da parte loro in caso di conflitto tra la mia famiglia e il mio signore.
Era stata attaccata la mia credibilità, ed io non godevo del potere, e della fiducia necessaria per potermi riabilitare. In più vi era anche da dire, che la mia mente era corsa dietro al mio cuore, sottraendo importanti energie alla mia causa.
Il peggio però doveva ancora arrivare, e giunse il 18 Settembre del 1482 quando, il mio signore, mi fece chiamare al Gran Consiglio dei Cavalieri, per comunicarmi che in mia assenza il Consiglio aveva deciso di mettere sotto giudizio la mia fedeltà verso il regno con la sospensione del mio titolo di marchese e di tutti i poteri che questo comportava. Mi fu detto, pure, che sarebbero stati tenuti conto i passati servigi della mia famiglia verso Siena e che quindi sarei potuto incorrere ad un degrado nobiliare.
Ascoltato nelle mie difese si riservarono per la decisione che mi sarebbe stata comunicata entro tre giorni.
Fu deciso di lasciare immutato il mio grado nobiliare, ma altresì fu decretata la mia astensione dalle cariche politiche per un periodo minimo di tre anni, la perdita del seggio nel Gran Consiglio dei Cavalieri e la condanna più pesante, la decisione che il re stesso avrebbe preso in moglie Violante Adorno, poiché io mi ero dimostrato indegno!
La cosa non era stata fortuita, ma un colpo diretto alla mia persona, per pormi direttamente in conflitto con il re e quindi di sbarazzarsi una volta per tutte dalla mia presenza politica.
Mi sottomisi al volere sovrano e dei cavalieri del regno, solo perché non avevo altra scelta, ed in ossequio alla decisione, ma soprattutto per non dover rivedere il mio perduto amore unirsi con il re mi ritirai a Bologna insieme alla mia scorta, lasciando la gestione dell’intere mie proprietà all’amministratore Alvise di Montepilastroni. (Elvise vacci piano con le bisbocce! Mentre Xela e Niccolò sono a Bologna. [SM=g27828] )
Giunsi a dicembre in quel di Bologna, dedicandomi interamente all’arte militare sotto l’insegnamento di Astorre. Nel frattempo l’Europa continuava ad essere incendiata da guerre, lo stesso stivale italico era tormentato da continui accadimenti. Nel 1483 la Francia annetteva lo stato di Savoia, L’Austria continuava a muovere guerra contro gli stati balcanici, Milano dichiarava guerra a Mecklenburg giungendo alla presa di Modena e di tutta la terra di Emilia nel 1485. Aragona frustrata dagli inutili tentativi contro di noi dichiarava guerra allo stato musulmano di Granada, ma con i medesimi risultati, mentre Svezia e Danimarca entravano in conflitto con l’irrequieto ducato di Mosca. Nel medioriente l’impero Ottomano muoveva guerra contro il regno di Trebisonda, e dalle ex terre genovesi, ora francesi del mar Nero, nacque l’indipendente stato della Crimea.
Fui costretto a far ritorno a Siena il settembre del 1485 su volere del re che voleva umiliarmi facendomi assistere al suo matrimonio con Violante Adorno. Quando vidi i suoi occhi azzurro pallido fermarsi sui miei scorsi la sua eburnea pelle arrossare, poi gli occhi iniziarono ad inumidirsi e repentina abbassò il volto per proseguire il suo triste cammino all’altare. Fortunatamente l’incenso era tale da appannare la vista ed io scappai un attimo prima che la cerimonia finisse.
Solo con un addestramento impegnativo, al pari degli altri soldati, e le lunghe bevute e ubriacature che condividevo con loro, vivendo nella speranza che ogni giorno fosse l’ultimo, riuscii a non perdere completamente il senno e ad affrontare l’irreparabile perdita che avevo subito.
Quando nel 1489, Genova dichiarò guerra a Milano io fui il primo a correre in aiuto delle milizie liguri. Avevo messo in marcia i miei uomini ancor prima che Siena formalizzasse l’entrata in guerra in ossequio all’alleanza. Entrammo in Emilia nel Marzo del 1490 dopo una rapida e vittoriosa battaglia contro le truppe milanesi e ponemmo l’assedio a Modena. Nel Giugno dello stesso anno, mentre la città emiliana dava già chiari segni di resa, giunsero i 16.000 fanti guidati dal re in persona che ormai in aperta rivalità con me non voleva che mi prendessi tutto l’onore. Allora, mi mossi, verso Milano, per unirmi agli uomini della Repubblica Genovese che la stavano assediando.
Modena cadde l’Agosto di quell’anno, mentre la fanteria genovese abbandonava inspiegabilmente l’assedio per far ritorno in Liguria. Fui raggiunto nuovamente dall’esercito del re nel settembre successivo e condividere con lui l’accampamento fuori le mura di Milano.
Il nostro assedio durò fino all’aprile del 1491, quando finalmente Milano si arrese consegnandoci l’Emilia e 84 ducati come risarcimento danni subiti.

CONCLUSIONE QUINTA PARTE [SM=g27823]

[Modificato da Xelaehtgre 30/06/2004 18.48]

Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:49
E subito, subito il VI Episodio


Nella sua irresponsabile tracotanza, il re, volle portare la sua sposa a Modena per mostrarle il frutto delle sue gesta vantandosi di aver posto rimedio là dove io avevo fallito. Male informato dalla sua mediocre corte di lacchè e ruffiani, e totalmente privo di ogni contatto sociale, non si accorse del malumore che rumorosamente serpeggiava per quelle terre impoverite ed affamate da troppe guerre e da troppi conquistatori.
Proprio durante la celebrazione della Santa Messa celebrata dal vescovo per benedire le nuove terre annesse al regno scoppiò violenta e feroce la rivolta popolare. L’esercito reale, completamente colto di sorpresa subì pesanti perdite andando allo sbaraglio in breve tempo. Io che mi trovavo con i miei uomini, non lontano dalla chiesa, diedi subito ordine di correre alle armi e di giungere alla cattedrale, prima che accadesse il peggio. Solo con furibonde scaramucce combattute per vie e piazze e resistendo ai continui agguati che giungevano, quasi da ogni vicolo, riuscimmo a giungere in vista del Duomo. Qui, trovammo la guardia reale allo stremo delle sue forze, mentre stava cercando di tenere aperto un corridoio per far uscire il re ed i nobili dalla cattedrale. Accorremmo in aiuto troppo tardi, quando già i ribelli, erano riusciti a spezzare il cordone di sicurezza. Fu il panico, la confusione più totale, in un guazzabuglio di urla, di pianti, grida e clamore delle armi. Persi alcuni uomini e fui ferito seppur superficialmente io stesso prima di trovar rifugio nella chiesa. Trovai corpi orribilmente dilaniati in terra, e persone gementi per le ferite immerse in pozze di sangue lungo le navate. Nemmeno la casa di Cristo era riuscita a fermare l’impeto dei rivoltosi. Fuori si udivano ancora i rumori della battaglia, mentre io con Astorre cercavo di riorganizzare le idee per studiare un piano che ci tirasse fuori da quell’impiccio.
Di tanto in tanto le porte sprangate della cattedrale venivano aperte per permettere ai feriti di entrare, si era creata una zona franca sul suolo consacrato in cui non si combatteva. Fra i feriti riconobbi alcuni nobili senesi, oltre a soldati e molti sconosciuti.
Venni chiamato da un mio soldato che mi presentò un frate, il quale mi invitò a seguirlo giù per i gradini che portavano nelle cripte, dove avremmo potuto trovare una via di fuga. Scendemmo sotto la sua guida illuminandoci la strada con le torce, appena sotto venimmo aggrediti da una maleodorante aria ammuffita fredda ed umida, e ci ritrovammo in un piccolo spazio in cui erano ammassati alcune persone. Il frate, si rivolse a me agitato indicando con un dito fra le persone: “Presto bisogna portare via la regina, e le altre nobildonne che abbiamo nascosto qui sotto prima che entrassero in chiesa!” Un tuffo al cuore, mentre i miei occhi cercavano nell’oscurità di trovare il suo volto. Un lampo azzurro, fu il suo sguardo spaventato, che solo in quel momento sembrava riconoscermi. Sentivo le tempie pulsare al ritmo cardiaco, mentre il mio respiro pesante si faceva più frenetico. Per qualche istante, che mi sembrò un’eternità, rimasi avulso dalla realtà, scorgevo solo il frate che sembrava parlare ancora con me ma io non lo udivo più, qualche uomo si stava già muovendo verso le donne aiutandole ad alzarsi, ma fu Astorre, che mi svegliò da quel torpore: “Marchese prenda lei la regina in consegna! Mentre io e gli altri uomini ci occupiamo delle altre dame!” Ella si avvicinò a me abbracciandomi nascondendo il suo volto contro la mia armatura di maglia. La sentii scossa dai fremiti del pianto. In quel momento ricordai a me stesso che non c’era tempo da perdere e sollecitai il frate ad indicarmi la strada che ci avrebbe portato fuori dalla cripta.
Venti minuti dopo riemergemmo in una cappella che distava forse qualche centinaio di metri dalla cattedrale. Non si udivano voci concitate provenire dall’esterno, ed il frate ci disse che ci trovavamo in vie secondarie della città. Astorre mandò un paio di uomini in perlustrazione mentre il frate ci indicava un convento distante poche centinaia di metri da dove ci trovavamo e dove affidare le nobildonne. Gli esploratori, confermarono l’assenza di ribelli e di uomini in armi per cui decidemmo di non perdere ulteriore tempo e di dirigerci verso il Convento indicatoci dal frate. Fortunatamente lo raggiungemmo senza incidenti, e affidammo le dame alle sorelle della misericordia. Ci fu data dell’acqua e un po’ di pane per ristorarci prima di deciderci sul da farsi.
Ancora qualche uomo era uscito in avanscoperta, ma questa volta il suo ritorno fu foriero di brutte notizie. La città era stata occupata dalle forze ribelli, le milizie reali erano state sconfitte in più scontri e costrette ad una fortunosa ritirata fuori dalle mura. Non si sapeva nemmeno se il re fosse riuscito a salvarsi.
Decisi di abbandonare le nostre armature con le effigi ed i colori senesi, per mescolarci più facilmente con i ribelli, tentare una sortita sarebbe stato un suicidio, con i pochi uomini che mi trovavo, e tutte le nobildonne da difendere.
Io e Astorre chiedemmo di poter conferire con la regina, per spiegarle la situazione e consigliare a lei e alle altre dame di indossare vesti più umili e nascondere gioielli e preziosi, poiché l’unica nostra salvezza per uscire dalla città era nel mescolarsi al popolo senza destare sospetti. Violante, rimase in silente ascolto, mentre parlavo, fissandomi con i suoi occhi celesti e lucidi, stanchi ma risoluti, ed il suo volto pallido ma attento ad ogni parola che le dicevo. Non potei fare a meno di notare come la sua bellezza fosse rimasta immutata in quegli anni e come il suo corpo fosse maturato, trovando i tratti sinuosi della femminilità là dove avevo lasciato le acerbe curve dell’adolescenza.
Utilizzai tutte le forze di cui ero in possesso per non tradire il mio stato d’animo, e ringraziai il cielo di non essere da solo con lei in quella stanza.
Quando ebbi finito di parlare, la regina attese qualche attimo in silenzio, continuando a fissare le mie labbra che speravo immobili, poi alzando gli occhi verso i miei disse: “Marchese io e le altre nobildonne dobbiamo la nostra vita al coraggio dei suoi uomini e alla vostra fedeltà verso la corona di Siena. Diteci cosa dobbiamo fare e ve assicuro che verrà fatto!” Aveva parlato con tono autoritario, un tono a me sconosciuto fino ad allora, ma nello stesso istante, intrecciato ad esso, o forse solo accompagnato vi era anche quella dolcezza che non avevo mai dimenticato.
Ci risolvemmo di lasciare in convento per quella notte la regina e le dame, mentre noi ci saremmo confusi nella folla cercando ricovero in una locanda li vicino.
Fra gli uomini di Astorre vi erano, fortunatamente, anche alcuni emiliani, che scambiarono quattro chiacchiere con alcuni avventori senza correre il rischio di essere traditi dal loro accento e nello stesso momento potendo ricavare importanti informazioni sulla situazione.
Venimmo così a sapere che si combatteva ancora a ridosso delle mura, che alcune sacche di soldati senesi resistevano tenacemente, mentre il centro cittadino era completamente in mano all’auto proclamatosi “libero popolo di Modena”. Si evinceva che non vi fosse alcun leader politico o nessun aristocratico locale al comando della rivolta, ma solo qualche borghese carismatico, e che non vi fosse una strategia precisa sul dopo, si limitavano a proclamare l’indipendenza di Modena da ogni dominatore. Astorre, esperto combattente che più volte aveva partecipato a rivolte o soffocate, osservò subito, il vantaggio di una tale situazione, spiegandomi che una volta che i soldati di Siena si fossero ritirati, il popolo in armi si sarebbe dato alla pazza gioia e alla confusione, festa che non sarebbe durata meno di giorni forse per settimane, senza alcuna sorveglianza o servizio d’ordine, dandoci al possibilità di uscire indisturbati dalle mura. Nel frattempo avremmo dovuto rimanere al sicuro, perché fin che si combatteva era impensabile abbandonare la città.
Gli scontri durarono tutto il giorno seguente, che noi trascorremmo nei paraggi della locanda e del convento stando ben attenti a non destare l’interesse di alcuno. Mandai più volte qualche uomo nel convento per accertarmi che tutto fosse in ordine, evitando di andarci io stesso.
Verso l’imbrunire, sentimmo il vociare della gente alzarsi di tono, divenire più concitato, interrotto da scoppi di urla sempre più frequenti sino a diventare una vera e propria babele di risate, bestemmie, e grida. Guardai Astorre, allarmato e lui si limitò a rispondere al mio sguardo, con preoccupazione. I nostri informatori si unirono al tavolo a cui eravamo assisi, e con aria trafelata ci riferirono quanto avevano appena appreso: “Hanno ucciso il re! Dicono di averlo preso vicino al molino e di averlo giustiziato mozzandogli la testa mentre cercava di nascondersi nelle granaglie!”
“Avete visto la testa! Avete parlato con qualcuno che c’era! Che l’ha visto!” Interruppe bruscamente la grave voce del condottiero fiammingo.
“No, non ho visto la testa, la notizia è arrivata da fuori e sta serpeggiando per tutta la città! Qui tutti la danno per vera, e l’entusiasmo sta salendo alle stelle!”
“Notizie del genere sono frequenti durante le rivolte di piazza soprattutto quando le cose si mettono bene per i ribelli! Non gli si deve dar molto credito però! Se l’esperienza non mi tradisce ne giungeranno altre con versioni sempre differenti e sempre più fantasiose, ma dubito che molti di loro sappiano addirittura che faccia abbia il re!” Astorre aveva parlato sottovoce con tono volutamente annoiato e rassicurante.
Ma le sorprese per me quella sera non erano finite li, infatti quando la taverna della locanda in cui mi ritrovavo ancora seduto era una bolgia di uomini e donne che festeggiavano, sentii schioccare il mio bicchiere con un altro mentre una mano faceva una leggera pressione sulla mia spalla; i miei muscoli si tesero subito pronti a scattare sulla difensiva, quando una voce inconfondibile mi urlò: “festeggiate insieme a me! Modena è libera!” Fui abbagliato dalla lucentezza di quel sorriso che anni prima mi aveva rapito, mentre rimanevo goffamente seduto per metà sulla sedia.
Violante, mi strinse fingendo un abbraccio gioioso e portando le sue labbra vicino al mio orecchiò sussurrò: “E’ vero ciò che si sente? Il re è morto!”
“No! Secondo Astorre sono solo voci che non hanno nessun fondamento! State tranquilla… Non siete vedova!” Caricai le ultime parole di sarcasmo accompagnandole ad un lieve sorriso.
Ella senza badarci proseguì: “Allora che cosa ci dobbiamo aspettare?... Rimarremo qui fino quando?... Le dame sono spaventate, non so per quanto ancora riuscirò a tenerle tranquille! Molte sono terrorizzate dalle notizie che giungono, temono per i propri figli e uomini!”
“Non possiamo lasciare la città fino a quando non cesseranno i combattimenti, dopo approfitteremo della festa generale per allontanarci!... Dovete stare tranquille, è l’unica speranza perché possiate rivedere i vostri… uomini.” Questa volta non avevo voluto caricare l’ultima parola ma scoprii solo nel pronunciarla che mi riusciva oltremodo difficile rimanere indifferente.
Lei abbassò gli occhi allontanandosi da me senza cancellare il falso sorriso dipinto sul volto, sorseggiò ancora dal bicchiere fingendo di fare un brindisi, poi mi prese la mano e mi accompagnò verso il pergolato che vi era nel giardino interno all’edificio, che portava, nel magazzino della taverna. Qui vi erano pochissime persone e per lo più accasciate a terra ubriache.
“Non crediate, che la mia sofferenza sia stata meno della vostra! Nulla avete fatto voi… Marchese. Cosa volevate che facessi io?...” Accompagnò la staffilata con uno sguardo di sfida puntato direttamente nei miei occhi.
Avevo accusato il colpo, avrei voluto, gridare la mia frustrazione, avrei voluto scappare, avrei addirittura voluto unirmi ai rivoltosi in preda al mio rabbioso odio se non fosse stato per il suo profumo che inebriava il mio respiro, se non fosse stata per la sua mano fredda stretta al mio polso, se non fosse stato per la ciocca bionda che le ricadeva morbida vicino all’orecchio, per quegli occhi cristallini che mi fissavano, per le sue labbra rosee e perfettamente disegnate su quel volto pallido che in quella notte rischiarava il mio animo come la luna che si riflette sull’acqua. La mia mente, vacillò, il giardino si appannò sfocandosi, come se il mio cono visivo si fosse improvvisamente ristretto solo a lei, poi tutto divenne evanescente ed io mi smarrii sulle sue labbra.
La rabbia, la passione, la frustrazione, l’amore si fusero insieme così come i nostri corpi bruciando in un fuoco impetuoso che ci fece perdere ogni cognizione dello spazio e del tempo e che ci fece sorprender dell’alba ancora uniti.
Quando mi svegliai la prima cosa che udii fu il suo respiro regolare sul mio petto e la prima cosa che vidi la serenità sul suo volto, che anche nel sonno non aveva perso il suo tenue sorriso.
La svegliai gentilmente, ed ella parve smarrita mentre si guardava intorno, poi fermò i suoi occhi su di me, sul mio corpo nudo come il suo e rialzando il volto, portò una mano sul mio viso accarezzandomi lievemente una gota: “Temevo fosse stato solo un sogno!... Temevo di ritrovarmi ancora nel palazzo… Sapessi quante volte l’avevo sognato, e quante mattine avevo pianto fra le lenzuola del letto sotto quegli odiati affreschi che mi schernivano dal soffitto!” Gli occhi le divennero lucidi, mentre il suo volto, continuava, ancora imperterrito ad essere illuminato dal suo sorriso, solo che ora era diverso, era come se una nuova luce fosse andato ad impreziosirlo, ora era più malizioso, più intrigante, più complice.
“Ora sono una regina!” Esclamò con quella luce che ora le faceva addirittura scintillare gli occhi, mentre la sua mano scendeva esplorando il mio corpo; la presi stringendola dolcemente nella mia: “Dobbiamo vestirci, si sarà notata la vostra assenza in convento, non è opportuno mettere in allarme le altre dame, potrebbero fare una sciocchezza!”
“Mmh, marchese, credete veramente che possano fare una sciocchezza più grande di quella che abbiamo fatto noi?” Sospese le parole guardandomi maliziosamente, liberò la sua mano dalla mia e continuò a farla scorrere lungo il mio corpo: “Sono la vostra regina, e devo controllare le mie nuove terre… Devo vedere se sono di mio gradimento…” Ormai avevo perso ogni volontà per poterla fermare.
Quando ci accomiatammo, era già giorno fatto, il sole pallido fra le nubi, a stento riusciva a scaldare la città. Trovammo molte persone ancora addormentate od intontite per la città dopo la sbronza di ieri. Accompagnai Violante fino alle porte del convento lasciandola con un bacio prima che la porta si aprisse per evitare che chi aprisse leggesse quello che vi era scritto sui nostri volti.
Astorre, quando mi vide, strinse gli occhi in un’espressione eloquente, ma che lasciò ben presto il posto alla solita maschera rude di combattente.
“Come vi avevo detto sono giunte nuovi voci sulla morte del re e di altri nobili, ma nessuna degna di alcuna credibilità, gli uomini sostengono che ormai gli scontri siano sempre più radi e parlano di parecchi soldati con la balzana senese passati a miglior vita.”
“Temo che molti si siano sacrificati per permettere al re di fuggire sano e salvo!” Dissi di rimando.
“Può essere!... Come del resto si è sacrificato lei per la regina…” Aggiunse con una profonda e grassa risata mentre i suoi occhi si illuminarono di allusioni.
Tentai senza riuscirvi di fingere una espressione disorientata, che si sciolse in un sorriso soffocato.
Attendemmo altri tre giorni, nascosti nella confusione della città, altri tre notti con Violante, prima di lasciare la città.
Il viaggio di ritorno fu lento, cauto e struggente poiché sapevo che poteva significare l’ultimo addio a Violante! Durante il giorno i nostri rapporti erano più che formali, e solo occhi attenti ed esperti, come forse erano solo quelli di Astorre, potevano cogliere, i repentini sorrisi, che si disegnavano sui nostri volti, o i fugaci sguardi che ci lanciavamo.
Il mio animo era tormentato quanto quello di Violante, nella contraddittoria speranza di tornare a Siena, quale nostra salvezza e perdita contemporaneamente, mi rifiutavo di pensare se fosse vivo o morto il re per non dovermi confrontare con la mia reale volontà.
Durante il ritorno venimmo a sapere che rivolte erano scoppiate anche in altre città e che l’esercito stentava a riportare l’ordine e la pace. Sulla scia di Modena le voci avevano viaggiato velocemente, come faville di un incendio trasportato dal vento, che accendevano nuovi fuochi ogni volta che si posavano su nuove terre.
Io e Violante ci amammo ancora, in modo più intenso, sempre meno attento, quasi ad essere spudorato, man mano sapevamo di avvicinarci a Siena e al nostro addio. Nessuno aveva mai osato affrontare l’argomento del dopo e rimase sospeso fino al nostro arrivo.
Giungemmo a Siena il 14 Giugno sull’ora del crepuscolo, e la notizia si sparse velocemente per la città che in breve tempo era già scesa per le vie e per le piazze a darci il benvenuto. Ci venne incontro il re in persona con la sua scorta a ricevere la sua sposa e i valenti guerrieri che insieme alle altre nobildonne l’avevano tratta in salvo.
Fu proclamata festa in nostro onore per tre giorni, nei quali fui costretto mio malgrado a partecipare a banchetti e feste di palazzo. Vennero conferiti onori a me e ai miei uomini, e fu deciso all’unanimità dal Gran Consiglio dei Cavalieri di ridarmi il mio seggio perduto e che Astorre fosse nominato comandante della scorta reale. Venne così a sostituire il comandante precedente morto durante gli scontri di Modena.
Il mio cuore piangeva, il mio animo era nuovamente disperato, nonostante fossi considerato un eroe e che tutta la gente acclamasse il mio nome. Furono ancora le armi il mio rifugio dall’amor perduto, ed insieme Astorre, al quale ogni volta si proponeva una nuova battaglia non stava nella pelle, per la gioia, organizzammo la spedizione per liberare Modena dai rivoltosi e sopprimere la ribellione.
Giungemmo ad Agosto in vista della città, e diedi ordine fin da subito ai soldati di non lasciarsi andare a nessun genere di efferatezze e vendette, imposi il rispetto dei prigionieri e l’incolumità di chi si fosse arreso. Dovevo molto a quella città, ancor di più ai rivoltosi che avevano permesso ciò che io in tutto il potere del mio titolo e delle mie ricchezze non avrei mai potuto ottenere. Oltre, naturalmente, l’esigenza di non esasperare ulteriormente una comunità già fin troppe volte provata.
Il Duca Maurizio di Serramonte, signore di Napoli aveva riportato l’ordine in tutta l’Italia meridionale entro il settembre di quello stesso anno, io lo riportai definitivamente il gennaio dell’anno successivo, soffocando l’ultima rivolta emiliana.
Nel febbraio 1492 nacque Jacopo l’erede al trono al regno di Siena, il vecchio Astorre accolse la notizia quando era insieme ai suoi uomini e commentò: “Il re Jacopo sarà un grande condottiero, amato da tutto il popolo se avrà la bellezza e l’audacia della madre, ed il valore e il coraggio del padre!” Dandomi una vigorosa pacca sulle spalle. Io non potevo credere, che molto probabilmente la prossima generazione di regnanti senesi appartenesse al casato Trazbanj. La cosa mi riempiva di tristezza e felicità insieme. Avevo ricevuto un paio di lettere da Violante, da quando ci eravamo lasciati a Siena, e nell’ultima, mi comunicava la sua preoccupazione per la vistosa somiglianza che Jacopo, ancor così piccolo aveva con me; concludeva dicendo che questo tesoro che le avevo donato era la cosa più bella che nessun re, mai per quanto potente sulla terra avrebbe mai potuto regalarle!
Io avevo già deciso di tornare a Siena per vedere mio figlio, seppur con la dolorosa consapevolezza che lui avrebbe chiamato un altro come padre, quando giunse, tramite un corriere, la notizia di una grande sommossa sia in terra di Emilia che di Romagna.
Il regno cadde nuovamente nella confusione fino alla primavera, senza però placarsi completamente prima della fine dell’anno. Furono prese grandi decisioni politiche in quell’anno: la popolazione borghese chiedeva maggiori poteri ed i mercanti maggiori tutele a salvaguardia dei loro fragili commerci. Il Gran Consiglio dei Cavalieri, si riunì più volte per deliberare e nel Marzo 1493, ad una adunanza a cui partecipai anch’io si deliberò alla maggioranza la nascita della repubblica di Siena, mantenendo la signoria Orlandi, ma limitandone alcuni poteri. Ora l’organo governativo era a tutti gli effetti il Gran Consiglio dei Cavalieri, che cambiò nome in Gran Consiglio della Repubblica, a cui però ora avevano accesso anche i notabili delle maggiori famiglie borghesi. Era stato ridimensionato di molto il potere dell’aristocrazia.
Grazie a queste grandi riforme lo stato cessò di essere sconquassato da rivoluzioni, conoscendo un momento di tranquillità e serenità che si infranse nella dichiarazione di guerra che Genova nel 1496 fece allo stato di Milano.
Fu una guerra rapida e ben gestita da parte Senese. Il Gran Consiglio conferì a me il comando generale. Arruolai un esercito in Siena di 16.000 fanti che unii alla mia personale scorta di 4.000 fanti e 1.000 cavalieri e marciai alla volta della capitale lombarda.
Posi l’assedio nel luglio del medesimo anno, nel settembre giunsero 8.000 fanti con il vessillo della croce di S.Giorgio e nel Febbraio 1497 Milano si arrese aprendo le porte.
A marzo fu formalizzata l’annessione di Milano alla Repubblica di Siena. Grazie alla velocità della campagna riuscimmo a non danneggiare troppo gli scambi commerciali e a non esasperare la popolazione con l’aggravio di pesanti tasse di guerra.
Io a capo di una guarnigione di 9.000 fanti e 1.000 cavalieri rimasi a Milano per garantire l’ordine e per avviare tutte quelle necessarie riforme per uniformare le strutture e le infrastrutture delle nuove terre alla repubblica.
Nel 1498 quale riconoscimento alle gesta d’arme e alle opere sociali fatte il Gran Consiglio della Repubblica mi nominò Duca di Modena e di Milano. Questo garantiva, finalmente, una volta per tutte la mia lontananza da Siena, senza che fossi più costretto ad inventarmi alibi per il mio forzato esilio.
La pace della repubblica durò per un decennio, fino a quando nel maggio del 1508 Francia, Wurzburg e Venezia dichiararono guerra a Genova. Noi onorammo l’alleanza e scendemmo in guerra.
Mi fu confermato il comando dell’esercito senese, e diedi subito ordini di arruolamento per il distretto di Siena, Firenze e Napoli.
Nel luglio dello stesso anno Siena poteva contare su 42.000 fanti e 6.000 cavalieri dislocati al nord e 14.000 fanti e 2.000 cavalieri stanziati a sud sotto il comando del duca di Napoli.
L’esercito francese mosse subito un fortissimo attacco alla repubblica ligure, sconfiggendola più volte in sanguinose battaglie fino a porre d’assedio Genova nel gennaio del 1509. Noi respingemmo l’attacco dei veneziani in Romagna, e combattemmo una vittoriosa pugna a Mantova. Ponemmo l’assedio nella città Lombarda, mentre la nostra flotta subiva pesanti perdite contro le navi del Leone di S.Marco.
Il nostro esercito meridionali, respingeva con successo uno sbarco francese sulle coste amalfitane, e tre mesi più tardi vinceva una battaglia contro i fanti serenissimi sbarcati ad Ancona.
A Maggio Fui costretto ad abbandonare l’assedio di Mantova per correre in aiuto all’alleata Genova che oramai stava per cedere all’asfissiante assedio per terra e per mare delle forze Franco-veneziane, chiedendo all’esercito guidato dal Duca Serramonti di salire al Nord per proteggere i confini orientali.
Nell’agosto combattemmo un alacre battaglia alle porte di Genova che ci vide vincitori dopo oltre un mese di scontri. Pur riportando gravi perdite, decisi di inseguire l’esercito nemico in terra di Piemonte. Genova liberata, poteva tirare un sospiro di sollievo.
Nell’ottobre successivo l’esercito senese vinse una decisiva guerra contro i francesi che furono costretti, decimati, a ritirarsi in terra di Savoia. Posi l’assedio con i miei uomini alla città di Torino.
Gli attacchi dei veneziani si fecero, via, via sempre più radi e deboli, tanto da spingere il duca di Napoli a porre nuovamente l’assedio a Mantova.
Feci approvare dei decreti che imponevano tassazioni più forti al fine di racimolare ducati per arruolare nuovi uomini, in quanto ero al corrente di un forte esercito francese in marcia verso di me.
Ovviamente, le nuove imposizioni fiscali, ridestarono le proteste popolari che qualche mese più tardi cominciarono ad incendiare le terre della repubblica toscana. Venne levato per la seconda volta l’assedio a Mantova, che cominciò a meritarsi l’appellativo di stregata da parte dell’esercito senese, per soffocare le rivolte interne.
Nel giugno del 1510 32.000 fanti e 7.000 cavalieri francesi attaccarono il mio esercito che combattendo con ineguagliabile eroismo, in spregio al dolore, indifferente alla paura respinse i transalpini a discapito di numerose perdite.
Nell’agosto le mie schiere furono rinfoltite dall’arrivo di 9.000 fanti provenienti dal distretto di Firenze.
Ad Ottobre finalmente le terre di Piemonte furono conquistate.
Il Gran Consiglio inviò gli ambasciatori a Parigi con offerte di pace, mentre le rivolte e i tumulti popolari cominciavano a tormentare preoccupantemente le terre della repubblica.
Letti, da un dispaccio i negativi esiti delle trattative parigine, esortai le mie truppe ad invadere le terre di Savoia. Nel Febbraio 1511 combattemmo l’ennesima battaglia contro una guarnigione francese che fu letteralmente travolta dall’impeto dei miei uomini e ponemmo l’assedio.
Nel marzo di quello stesso anno la Francia chiese la pace offrendoci 189 ducati e una flotta di 5 galee. Visti i disordini interni il Gran Consiglio della Repubblica ritenne vantaggioso accettare la pace. I disordini durarono per tutto l’anno costringendo gli eserciti repubblicani a continui scontri con i rivoltosi.

[SM=g27823] FINE VI EPISODIO [SM=g27823]

Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:50
VII EPISODIO

Non ci credete eh...

Sono trascorsi molti anni da quando questo vetusto diario fu vergato per l’ultima volta dal nobile Duca Niccolò Trazbanj, appartenente alla casata che ora nell’anno 1586 è conosciuta con il nome Trebbiani.
Gli eventi narrati che raccontano di cento anni di Siena, che da città divenne regno, da regno repubblica, raccontano pure di amori, gelosie e tradimenti che solo per provvidenziale misericordia non addussero lutti e tristezze alle casate Trebbiani e Orlandi.
Ora io, Alberico Orlandi, figlio di Arrigo Orlandi e nipote di Jacopo Orlandi apprendo con sincera costernazione dei miei natali, provando un senso di smarrimento, su quella che credevo fosse la mia identità, e su quella che ora devo accettare. Verità a cui non mi risulta facile credere neppure ora che ho letto le lettere di mia nonna Violante, che quasi a testamento sanciscono la paternità di mio nonno Jacopo.
La volontà dell’Onnipotente ha voluto che la mia curiosità e la mia passione per i libri mi portasse a cercare vecchi manoscritti nella biblioteca di questo mio castello.
Ancora incerto sulla portata delle notizie lette e sulla loro ripercussione sento, per bisogno di completezza il dovere di riprender il filo della storia là ove il mio avo l’ha interrotto, e con l’umile ago della mia cultura ricucire lo strappo che s’è venuto a creare.
Pertanto rinviando la decisione del mio dilemma, vi narrerò quale è stata la storia di Siena fino ad oggi, così come io l’ho sentita raccontare dai miei illustri precettori ed antenati.
Nel 1512 Siena venne addolorata dalla morte del duca Niccolo Trazbanj, valoroso comandante e condottiero dell’esercito senese, conquistatore di Milano e Modena, fine giurista e attento studioso della società, autore di numerose riforme sociali ed economiche. Non lasciava (apparentemente N.d.r.) figli, quindi ereditarono tutto i suoi fratelli e i figli di questi. Il duca morì a causa di una ferita di guerra ad una gamba, durante uno scontro avvenuto nelle campagne marchigiane. Le sue spoglie con i suoi effetti (fra cui questo diario) furono riportate a Siena dal Duca di Napoli Maurizio Serramonte amico di Niccolò.
La salma venne sepolta per volontà della signoria Orlandi vicino al padre Vassilij insieme alla stirpe reale, ove tuttora giace.
Morì, ma la sua eredità politica, economica, militare e sociale non lasciò orfana la repubblica, che su quelle basi da lui tracciate conobbe un lungo e duraturo periodo di pace, che fece prosperare lo stato in ricchezza e prestigio fino ad oggi.
La strada da lui tracciata fu seguita da il signore Jacopo Orlandi, dopo la prematura morte del padre avvenuta in seguito ad una epidemia di peste che colpì le Terre di Siena, Firenze e Modena.
Jacopo, consigliato dalla madre Violante, riprese dal 1514, anno di morte del padre, le riforme economiche e sociali portandole a compimento, e introducendo tutte le innovazioni militari e difensive alle mura e fortezze della repubblica.
La storica alleata Genova, terra natale di Violante Adorno, divenne vassalla francese nel 1515 a seguito dei trattati di pace di Nizza e venne formalmente annessa nel 1527 all’impero francese.
Violante fortunatamente non potè rimanere orfana della sua Genova, poiché scomparve tre anni prima dell’annessione.
Jacopo nel 1529, sposò Isabel Pilar cugina del re di Spagna, a seguito delle buone relazioni che si erano instaurate fra i due stati, dopo il declino di Aragona.
Seguirono, tutta una serie di intensi rapporti diplomatici con le più importanti corone europee, che portarono Siena nel 1534 all’alleanza con la Spagna, nel 1535 all’estendersi dell’alleanza alla Francia, nel 1538 a stipulare accordi commerciali con Spagna e Francia al fine di agevolare gli scambi commerciali fra i tre paesi.
Nel 1541 l’Austria che oramai era diventata una potenza di primo piano nell’Europa centrale, dopo aver annesso Boemia, Ungheria, Colonia, Sassonia, Wuzburg, Baviera, Baden, Serbia, Croazia e Bosnia, mosse guerra contro Venezia, strappandole le terre di Mantova, Istria e Dalmazia ottenendo così l’accesso al mare mediterraneo.
I paesi dell’Europa centro-settentrionale nel frattempo venivano attraversati da violente correnti eretiche che portarono a due diversi scismi all’interno della Santa Madre Chiesa Cattolica Romana: luteranesimo e calvinismo. Successivamente ne seguì un terzo quasi a coincidere con la nascita dello stato olandese.
Uno dei paesi più tormentati fu l’Inghilterra che andava sempre più affermandosi quale potenza marittima e militare nel Nord del continente.
Nel 1546, il genio diplomatico di Jacopo Orlandi, brillò per la tempestività con cui seppe cogliere l’ennesima conversione inglese alla religione cattolica per estendere l’alleanza a quello stato.
Il 1548 Arrigo, figlio di Jacopo e Isabel sposò la figlia del re di Francia Marianne, unendo così simbolicamente in Siena le casate reali spagnole e francesi.
La potenza e il timore che questa alleanza generò in tutti i paesi europei fecero si che il continente potesse conoscere oltre un ventennio di pace.
Nel Settembre del 1555 Jacopo Orlandi morì avendo gli onori di tutte le famiglie reali europee più importanti.
Nel 1557 un’altra conversione religiosa portò l’Inghilterra a lasciare la nostra alleanza, mentre il nuovo signore della repubblica di Siena, Arrigo Orlandi dava un forte impulso alla stabilità sociale attraverso la nomina capillare di giudici locali che amministrassero la giustizia in nome del Consiglio della repubblica, in modo più efficiente e diretto. Furono fortificate le città di Bologna e Napoli e si ebbe un florilegio di distillerie e cantine che incrementarono notevolmente gli introiti legati al vinonelle terre di Firenze e Napoli.
Nel 1563 venne costruita l’accademia delle belle arti in Siena attirando moltissimi artisti da tutto il continente.
Nel frattempo i rapporti diplomatici con gli stati europei continuarono a migliorare grazie alla stabilità che la repubblica senese dava a tutta la regione, con grande beneficio per i commerci.
Nel 1564 la famiglia Trebbiani si unì in matrimonio con una potente famiglia austriaca, e l’anno successivo in seguito ad un accordo bilaterale venne concesso il reciproco permesso di passaggio militare fra Austria e Siena. Accordi analoghi anche se non bilaterali seguirono con Francia e Spagna che concessero l’accesso militare sulle loro terre alle nostre milizie e aprirono i loro porti alle nostre flotte.
Intorno al 1570 Arrigo intervenne ulteriormente nell’economia attraverso la nomina di prefetti con il compito di vigilare sui cambiavalute e sui balivi, riducendo così fortemente l’inflazione a tutto vantaggio degli introiti delle casse statali.
Venne incrementata la flotta repubblicana fino a giungere a 15 navi da guerra e 5 da trasporto.
Nel 1572 La famiglia Serramonte si imparentò con il Duca di Atene, che l’anno successivo subì l’attacco di Bisanzio.
Il medioriente, invece, rimaneva una terra senza pace, l’Impero ottomano aveva scatenato continue guerre contro i paesi a lui confinanti senza riuscire mai ad ingrandire il suo stato. Dissanguò le casse dello stato e si perse in faide interne che portarono il Regno di Trebisonda ad ingrandirsi a sue spese e Bisanzio a prosperare con i risarcimenti di guerra che questi gli doveva.
I rapporti fra Siena ed gli infedeli musulmani rimasero sempre tesi, non degni di essere neppure considerati, mentre tutti i tentativi di ricucire lo strappo con lo Stato Pontificio si rivelarono del tutto vani: continuava a rivendicare le terre di Romagna e delle Marche senza concedere nulla in cambio.
Nel 1579 venne a mancare mio padre Arrigo, ed io, all’età di diciannove anni, divenni signore della repubblica di Siena.
La minaccia aragonese sopita negli anni, tornò a riaccendersi quando nel 1582 si unì in alleanza con la Repubblica di Venezia, il papa e lo Stato dei Cavalieri.
Un anno fa Venezia ha chiuso i suoi mercati ai nostri mercanti con grave pregiudizio della nostra economia e fino ad oggi sono risultati vani i nostri interventi diplomatici per scongiurare la crisi.
Domani 27 Maggio 1586 dovrò presiedere il Gran Consiglio della repubblica per deliberare sull’ultimatium da ingiungere a Venezia. Se rifiuterà sarà la guerra!
Dopo tre generazioni di pace sarò io a riportare Siena in guerra? Che Dio mi aiuti in questa terribile scelta!

[SM=g27823] FINE VII EPISODIO [SM=g27823]
Xelaehtgre
00mercoledì 30 giugno 2004 18:54
E qui, ahimè, si interrompe la saga di Virusboy... [SM=g27819]
Avendo avuto ora, a distanza di tempo, l'occasione di rileggerla mi si è aperto il cuore ai ricordi di quel tempo passato... [SM=g27827]

grazie VIBOY!

Xela [SM=x329162]

[Modificato da Xelaehtgre 30/06/2004 19.03]

CCM Von Hausser
00mercoledì 30 giugno 2004 19:06
Una sola parola:
CAZZAROLA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Mo me lo stampo, me lo acchitto e me lo svorto stasera con 'na bella birrozza fresca! [SM=g27837]
Virusboy
00giovedì 1 luglio 2004 00:23
Bè ragazzi!... Grazie per questo inaspettato onore! [SM=g27822]
El Vise
00giovedì 1 luglio 2004 09:56
[SM=x329169] , che ricordi......io l'ho stampato a suo tempo e lo tengo assieme agli altri libri che possiedo nella mia piccola biblioteca[SM=g27811]
CCM Von Hausser
00giovedì 1 luglio 2004 12:17
essendo passato tanto tempo, non si avrà mai la possibilità di leggere le ultime righe di questo bellissimo testo? [SM=g27833]
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